La Metis di Annibale: la guerra non sarà più la stessa

Metis di Annibale

Tra il 218 e il 216 a.C. Roma si trovò ad affrontare la più grave crisi militare e demografica della sua storia. Una drammatica serie di sconfitte patite in rapida successione ad opera di Annibale e del suo esercito “multietnico” (oggi lo si definirebbe così) portarono sull’orlo del collasso il sistema costituito da Roma e i suoi socii.

Solo nei principali scontri tra le legioni e gli annibalici, Roma perse tra cives e socii qualcosa come 100.000 soldati. Le conseguenze però andarono anche oltre il mero dato numerico: i Romani si trovarono di fronte un nemico nuovo, nel senso che nuova era la filosofia che stava alla base della condotta delle sue operazioni militari. Annibale infatti, secondo quanto sostenuto dal Professor Giovanni Brizzi, sorprende il nemico sia per l’innovazione tattica basata sulla flessibilità del suo schieramento di fanteria e sull’uso devastante delle proprie cavallerie leggere, numida in primis, sia per contravvenire continuamente ad un codice non scritto di regole d’ingaggio osservato dai Romani e preteso da questi ultimi: la fides. A questo codice che implica un bellum iustum, fa da contraltare la metis, l’astuzia, con la quale Annibale, attraverso gli stratèghema, gli stratagemmi, riesce a negare ai Romani una battaglia in campo aperto senza l’uso di espedienti. Ma già dopo la sconfitta del Trebbia e ancor più in seguito all’imboscata tesa sulle rive del Trasimeno, a Roma si capisce che soprattutto a questi stratagemmi si devono le proprie disgrazie più ancora che all’imprudenza e all’imperizia dei propri comandanti.

È proprio per questo continuo contravvenire all’idea di Bellum Iustum che Roma non ammetterà ancora la sconfitta nel guerra, anche dopo il disastro di Canne rimandando al mittente qualsiasi richiesta di resa.

Ecco dunque che, se da una parte troviamo un Annibale capace in ogni occasione di presentare un nuovo piano tattico, dall’altra troviamo Roma alle prese se non con un cambio obbligato, quanto meno con una rivisitazione del concetto di fides a cui comunque non si può derogare.

La vittoria riportata a Canne da Annibale, rende questa necessità di cambiamento drammaticamente vitale: proprio per questo Quinto Fabio Massimo, nominato dittatore, riporta in auge e previa consultazione dei Libri Sibyllini, il culto di Venere Ericina e di Mens, La Mente, grazie all’edificazione di un tempio a ciascuna delle dee uno accanto all’altro.

Venere Ericina trova il suo luogo di culto originario nel santuario della Sicilia Occidentale, che la tradizione voleva fondato da Enea, lo stesso capostipite del popolo romano e considerato “la mente” dei Troiani nella guerra omerica. In sostanza non solo si voleva riaffermare la vicinanza con quella parte del territorio strategicamente fondamentale in un momento tanto delicato per i domini romani in Sicilia, ma si volle prendere a modello un eroe indiscutibilmente anche romano, ma dotato anche di una “vena ellenica” di ingegnosità.
Dall’altra parte Mens permette sì ai Romani di non rinunciare a quell’insieme di norme precise dettate dalla fides, ma anche di ammettere che quest’ultima possa essere “avvicinata” da Mens senza degenerare in fraus e dolus, cioè frode e inganno.

Questo cambiamento nella mentalità bellica romana consentirà a Publio Cornelio Scipione, di poter guardare ad Annibale come alla principale fonte da cui trarre le contromisure da usare proprio contro la metis dello stesso Cartaginese. Il giovane farà così tesoro degli insegnamenti tattici del Barcide, avvalendosi spesso degli stratèghema e senza per questo sentirsi colpevole di aver tradito la romana fides.

Alessandro Pirrone, Archeologo
Associazione culturale Suadela

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