L’anno dei quattro imperatori (68/69 d.C.)

L’anno dei quattro imperatori (68/69 d.C.)

Nel Dialogo degli oratori (17, 3) Tacito definì questo periodo il “longus et unus annus” poiché sancì «un caposaldo, un principio fondamentale del potere» ovvero che la proclamazione di un imperatore potesse costituire prerogativa dell’esercito e avvenire anche fuori di Roma (Storie, I, 4). Gli esponenti italici rimasero gli unici a poter ambire al principato, sebbene l’elezione al soglio avvenisse per iniziativa militare, fino all’estinguersi della dinastia flavia quando il beneficio fu allargato ai provinciali  emersi ad alti ranghi nell’ambito delle armate.

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L’impero romano nel 68/69. Di Steerpike and Andrei nacu – Combination of Roman Empire 69AD.PNG and Roman Empire 120.svg, CC BY-SA 3.0 nl, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5649786

La proclamazione di Vespasiano, sovrano assoluto alla fine di una stagione di lotte per la supremazia, dimostrò come anche un uomo di origini modeste, proveniente da una classe inferiore a quella degli uomini che l’avevano preceduto e di recente carriera senatoria potesse salire alla massima carica dello Stato romano. Oltre ad essere stato un sodale dell’imperatore, il primo esponente dei Flavi godette di un solido supporto militare e la sua parabola politica conferma come ormai nella scelta del principe venissero coinvolti potere centrale e periferico: senato, corte e pretoriani da un lato, legioni dall’altro.

La storiografia antica assegna la responsabilità del declino della dinastia giulio-claudia agli eccessi personali dei suoi esponenti, quando invece è necessario analizzare il processo storico che, partendo dalla tragica fine di Nerone nel 68 d. C., condusse l’esercito e le province ad assumere progressivamente un ruolo più influente nella politica romana.

Nel 69 d.C quattro figure regnanti, Galba – esponente dell’aristocrazia senatoria – Otone – favorito dai pretoriani – Vitellio e Vespasiano (che alla fine risultò vincitore) – supportati dall’esercito – si contesero la carica di unico principe dell’Impero.

Malgrado il principio di “dinastia reale” fosse stato messo in crisi, all’inizio del 69 d.C. la scelta di Galba, ispirata al conservatorismo senatorio, di adottare Lucio Calpurnio Pisone per indicarlo come futuro imperatore non si dimostrò rispondente alla realtà politica del tempo. Nel discorso che Tacito attribuisce a Galba nel momento in cui designa Pisone come erede, si legge una riflessione sul futuro dell’Impero, oltre la via della successione, che caratterizzerà l’ideologia del II secolo d.C.

Se il corpo immenso dell’Impero potesse tenersi in piedi e in equilibrio senza che nessuno lo regga, darei io degnamente inizio alla Repubblica. Ma da gran tempo si è giunti ora a tal segno di necessità che né la mia vecchiezza giova ad offrire niente di più che un buon successore al popolo romano, né altro la tua giovinezza che un principe buono. Sotto Tiberio e Caio [Caligola] e Claudio noi fummo quasi il possesso ereditario di una sola famiglia. Il fatto che si comincia a essere eletti può sostituire la libertà; finita ora la casa dei Giulii e dei Claudii, l’adozione sceglierà i migliori. Esser generati e nascere dai principi è arbitrio del caso e non produce stima ulteriore; ma nell’adozione il giudizio è libero e nella scelta ci orienta il pubblico consenso. Ci stia davanti agli occhi Nerone: la lunga serie dei Cesari lo insuperbiva; e il suo giogo che gravava sul collo di tutti fu rimosso non da Vindice con una provincia disarmata [la Gallia], non da me con una sola legione, ma dalla sua mostruosità, dalla sua dissolutezza; e finora mancavano esempi di principi condannati. Noi, saliti al potere dalla guerra e dalla stima, saremo odiati se pure egregi. Non ti sbigottisca tuttavia il fatto che due legioni non stiano ancora tranquille in tanta agitazione del mondo; neppur io sono pervenuto agevolmente all’Impero; e nota che sia la tua adozione, cesserò di apparire vecchio, la sola cosa che mi viene rimproverata. Nerone sarà sempre rimpianto dai peggiori; noi due dovremo provvedere che non sia rimpianto anche dai buoni. Non è questo il momento per ammonirti più a lungo; e se in te ho fatto una buona scelta, è realizzata ogni mia speranza. La scelta più conveniente e più rapida del bene e del male consiste nel meditare quanto hai voluto o non voluto che accadesse sotto un altro principe. Qui non esiste, come presso le genti dominate da monarchie, una determinata casa da una parte e schiavi dall’altra: tu dovrai governare uomini che non possono tollerare né una totale servitù né una totale libertà (Tacito, Storie, I, 16).

L’anno dei quattro imperatori (68/69 d.C.)

Denario di Galba. Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2196554

Galba (giugno 68 – gennaio 69)

Servio Sulpicio Galba era un anziano senatore che giunse al soglio imperiale a settantatre anni,  mentre era governatore della Spagna Tarraconense. Tacito lo descrive in maniera lapidaria: “omnium consensu capax imperii nisi imperasset” («Per consenso generale, capace di essere imperatore, se non lo fosse stato»: Tacito, Storie, I, 49): L’impero di Galba sarebbe durato solo sette mesi, di cui meno di tre trascorsi nell’Urbe. Prima di conquistare il trono, aveva maturato una lunga esperienza di incarichi di governo in ambito internazionale: sotto Caligola in Germania, sotto Claudio in Africa proconsolare e quindi in Spagna sotto Nerone. I suoi soldati lo avevano proclamato principe alla notizia della rivolta delle truppe galliche di Vindice, eppure in questa occasione Galba non accettò il titolo ritenendo che essi non avessero alcun diritto a conferirlo. Successivamente si adoperò per ottenere sia l’appoggio dei pretoriani che il sostegno di altri oppositori di Nerone (tra cui quello di Marco Salvio Otone, ex marito di Poppea, al tempo governatore della vicina provincia di Lusitania) e, dopo l’uscita di scena del prefetto del pretorio Ninfidio Sabino, Galba fu riconosciuto imperatore da una delegazione di senatori secondo una procedura che maggiormente incontrava la sua impostazione culturale. Questa scelta non trovò tutti concordi: le legioni della Germania Superiore, che avevano tentato per due volte di persuadere Virginio Rufo ad accettare la carica imperiale, furono riluttanti all’inizio a prestare giuramento di fedeltà a Galba. Mentre Fonteio Capitone, governatore della Germania Inferiore, accusato (forse ingiustamente) di complottare contro l’imperatore, fu eliminato per mano di due dei suoi ufficiali, uno dei quali, Fabio Valente (che avrebbe successivamente favorito l’ascesa di Vitellio), divenne in seguito un detrattore di Galba perché ritenuto poco riconoscente nei suoi riguardi. Sul fronte Africano, Lucio Clodio Macro aveva dichiarato la volontà di secessione  rifiutando di riconoscere l’imperatore.

Anche a Roma il clima era ostile a Galba tanto da costringerlo a reprimere nel sangue un tentativo di rivolta sollevata a Roma dal prefetto del pretorio Ninfidio Sabino, che dopo aver contribuito alla caduta di Nerone, fu rimosso dal suo incarico proprio dal successore che aveva favorito. Il principe nominato dal Senato non fu capace di riscuotere popolarità e gli appoggi necessari al mantenimento del potere in virtù di molte azioni scorrette: disattese la promessa di donare 30.000 sesterzi ai pretoriani, promessi da Nimfidio Sabino in cambio del loro sostegno. In aggiunta a questo, Galba perse credibilità nei confronti della plebe e dei soldati con i tagli alle spese che reputò necessari per sanare la crisi finanziaria iniziata con Nerone, inasprendo ulteriormente la sua posizione con una politica di feroce persecuzione dei suoi oppositori, veri o presunti che fossero.

L’occasione di una contestazione aperta al Principe si offrì all’inizio del 69 d.C., in occasione dell’annuale rinnovo del giuramento di fedeltà all’imperatore, quando due delle tre legioni della Germania Superiore di stanza a Magonza rifiutarono di prendere parte alla cerimonia perché offese dall’avvenuta rimozione di Virginio Rufo. Il loro esempio fu seguito dall’esercito della Germania Inferiore che, per iniziativa dell’ormai ostile Fabio Valente, a Colonia proclamò imperatore il proprio legato (nominato dallo stesso Galba), Iulo Vitellio con il sostegno unanime di tutti gli eserciti delle Germanie. Galba rispose quindi adottando Lucio Calpurnio Pisone Frugi Liciniano, un giovane esponente dell’ordine senatorio di circa trent’anni, e indicandolo come fidato collaboratore e futuro successore. Questa disposizione fu sgradita a soldati e pretoriani e suscitò il rancore di Marco Salvio Otone, il giovane governatore della Lusitania, che, deluso dal mancato riconoscimento da parte dell’Imperatore per averlo aiutato nella sua ascesa al potere, riuscì alla fine ad attenere il titolo di imperatore per acclamazione, con il conseguente massacro di Galba, Pisone e i loro seguaci.

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Aureo di Otone

Otone (15 gennaio-14 aprile 69)

Marco Salvio Otone, amico di infanzia di Nerone e primo marito di Poppea, riscosse il primo consenso soprattutto fra i pretoriani e l’ordine equestre, ma dopo il linciaggio di Galba nel Foro per mano dei pretoriani, ottenne anche il riconoscimento del senato, delle province danubiane, dall’Africa e dell’Oriente venendo infine proclamato imperatore il 15 gennaio del 69 d.C. alla giovane età di trentasei anni. Il suo principato sarebbe durato in tutto tre mesi e il primo cimento del neo sovrano fu quello di affrontare la situazione in Germania, già difficile prima della morte di Galba e inasprita dai successivi sviluppi. Subito dopo la sua nomina, le province vicine quali la Belgica, la Lugdunense e la Rezia si schierarono con Vitellio, a cui si aggiunsero dopo qualche esitazione anche l’Aquitania, le province spagnole e la Gallia Narbonese. L’avanzata delle armate germaniche verso l’Italia era iniziata come dissenso verso Galba e proseguì con la successione di Otone. Il popolo iniziò a chiamarlo con il soprannome “Nerone”, in virtù dell’antica amicizia con il vecchio imperatore; Otone cercò quindi di risollevare l’immagine dell’ultimo giulio-claudio: fece nuovamente installare statue di Nerone e di sua moglie Poppea, vennero richiamati a servizio i suoi liberti e la sua servitù e, con lo stanziamento di 50 milioni di sesterzi, fu annunciata l’intenzione di completare la Domus Aurea. Questa azione aveva principalmente lo scopo di creare nuovi posti di lavoro e di ingraziarsi la plebe, favorevole a Nerone, che era messa in agitazione dalla scarsità delle riserve di grano, accentuata dalla presenza in città di alcune decine di migliaia di soldati, e, più avanti, dall’esondazione del Tevere che fu seguita dal crollo del pons Sublicius e da vari allagamenti. Agendo in questo modo, però, Otone si rese ostile al Senato, che si era chiaramente opposto a Nerone e presso il quale la sua posizione era invisa, data la violenta presa del potere. Tuttavia i timori dei più sobri e rispettabili cittadini furono dissipati dalle dichiarazioni di Otone sulle sue intenzioni di governare con giustizia e dal suo clemente giudizio nei riguardi di Aulo Mario Celso, console designato e devoto seguace di Galba.

«Esporre più a lungo ai pericoli questa vostra devozione, questo vostro valore, è, ritengo, un prezzo troppo alto per la mia vita. Tanto più grande è la speranza che mi offrite, qualora volessi vivere, tanto più bella sarà la morte. Io e la fortuna ci siamo misurati reciprocamente. Non calcolate la durata: è più difficile usare moderazione nella felicità, quando si sa che il suo tempo è breve. La guerra civile è stata aperta da Vitellio, quello è l’inizio della contesa in armi per il principato: voglio costituire un esempio, perché non si combatta per esso più di una volta. Da tale esempio giudichino i posteri Otone. Abbia Vitellio la gioia del fratello, della moglie, dei figli: non ho bisogno né di vendette né di conforti. Se altri hanno tenuto più a lungo di me l’impero, nessuno l’avrà lasciato con maggiore forza d’animo. O dovrò accettare che tanta gioventù romana, tanti meravigliosi eserciti siano ancora una volta falciati a terra e strappati allo stato? Lasciate ch’io vada sapendo che sareste morti per me, ma siete vivi. Non ritardiamo più oltre, io la vostra incolumità, voi la mia inflessibile decisione. Un lungo discorso d’addio è una parte di viltà. A prova suprema della mia determinazione, sappiate che non mi lamento di nessuno: prendersela con gli dèi o con gli uomini è gesto di chi vuol vivere.» (Otone da Tacito, Historiae, II, 47)

Con questo solenne discorso, Otone consolò chi gli era intorno, mentre dava mance ai suoi soldati e ai suoi servi. Si ritirò poi nella sua tenda e bruciò le sue lettere personali perché non finissero in mano al nemico, scrisse due lettere, una alla sorella e una a Statilia Messalina, con la quale voleva sposarsi, ma che lo aveva rifiutato. Si mise poi a riposare portando a letto con sé due pugnali, dormì tutta la notte e al suo risveglio si trafisse il fianco: ai primi gemiti i suoi attendenti accorsero al suo capezzale, ma Otone spirò in poco tempo. Fu seppellito modestamente subito dopo la morte, come da sue disposizioni.

«Morì nel suo trentasettesimo anno di età, dopo un breve regno di circa tre mesi, e la sua morte fu tanto lodata quanto la sua vita criticata; infatti se non visse meglio di Nerone, morì in modo più nobile.» (Plutarco, Otone, XVIII)

L’anno dei quattro imperatori (68/69 d.C.)

Georges Antoine Rochegrosse, Vitellio trascinato per le strade di Roma dalla plebe, 1833

Vitellio (15 aprile-21 dicembre 69)

Vitellio nacque a Nuceria Alfaterna il 6 o il 24 settembre del 15. Secondo Svetonio, Vitellio avrebbe passato la sua giovinezza a Capri, dove sarebbe stato fra i giovani amanti di Tiberio, cosa che avrebbe accelerato la carriera al padre. In realtà, mentre la reale entità delle perversioni dell’imperatore è assai dubbia, è altrettanto improbabile che sia veramente accaduto qualcosa del genere, dato che gli sforzi nella carriera politica del padre vanno più probabilmente interpretati come quelli di un homo novus in cerca di affermazione. Poco dopo, Vitellio ebbe modo di stringere amicizia con il giovane Caligola, amicizia dovuta alla comune passione per i carri, e sembra che questa passione gli abbia procurato un incidente che lo costrinse a zoppicare per il resto della propria vita. In primo luogo sposò intorno all’anno 40 una donna di nome Petronia, figlia di Publio o Gaio Petronio Ponzio Nigrino, dalla quale ebbe un figlio Aulo Vitellio Petroniano, l’erede della madre e del nonno. La tradizione vuole che suo figlio, avendo provato a ucciderlo, sia stato scoperto e costretto al suicidio, anche se su questa versione persistono numerosi dubbi. In secondo luogo sposò intorno all’anno 50, una donna di nome Galeria Fundana, forse la nipote di Gaio Galerio. Da lui ebbe due figli, un maschio di nome Germanico e una femmina il cui nome non ci è giunto, ma che è convenzionalmente nota col nome di Vitellia. Aulo Vitellio era un senatore di rango consolare, già distintosi per aver rivestito incarichi importanti  durante l’età Giulio Claudia. Suo padre Lucio era stato uomo molto influente nella corte di Claudio e grande sostenitore di Agrippina minore. Aulo Cecina Alieno e Fabio Valente, suoi legati, raggiunsero l’Italia con due diversi itinerari, sconfiggendo le truppe di Otone il 14 aprile del 69 d.C. nella battaglia di Bedriaco, presso Cremona, prima che le legioni danubiane potessero arrivare in sostegno del principe, il quale si tolse la vita il giorno successivo alla sua disfatta militare. Vitellio, all’età di cinquantaquattro anni, divenne così unico imperatore mentre si trovava ancora in Gallia, con il difficile compito di gestire i soldati di Otone e di mantenere la disciplina dei propri, che si diedero a saccheggi e devastazioni. Molti membri della guardia pretoriana furono congedati per essere rimpiazzati con soldati provenienti dalle legioni renane.

Lungi dall’essere ambizioso o scaltro, fu pigro e autoindulgente, amante del mangiare e del bere, e dovette la salita al trono a Cecina Alieno e Fabio Valente, comandanti di due legioni sul Reno. Da questi due uomini fu compiuto un colpo di Stato militare, e all’inizio del 69 Vitellio fu proclamato imperatore a Colonia Agrippinense (l’odierna Colonia), o, più precisamente, imperatore degli eserciti della Germania Inferiore e Superiore. Non fu mai accettato come imperatore dall’intero mondo romano, anche se a Roma il senato lo accettò e gli attribuì i consueti onori imperiali. Egli entrò in Italia alla testa di soldati licenziosi e rozzi, e Roma divenne lo scenario di rivolte e massacri, spettacoli di gladiatori e fasti stravaganti. Appena si sparse la voce che gli eserciti danubiani di Pannonia e Mesia, avevano acclamato Vespasiano, Vitellio, abbandonato da molti dei suoi sostenitori, avrebbe voluto rinunciare al titolo di imperatore.

Nel giugno seguente Vitellio aveva raggiunto Roma con parte delle sue truppe quando le legioni delle province danubiane, che non avevano fatto in tempo a giungere in supporto di Otone, entrarono in città rifiutando la situazione politica che si era nel frattempo delineata. Nelle tre province danubiane (Pannonia, Mesia, Dalmazia) non esisteva alcun governatore di rango e consenso tali da poter contendere a Vitellio  il primato politico considerando che la personalità più autorevole tra loro era Marco Antonio Primo che ricopriva una modesta carica di legato della VII legione pannonica. La scelta di un possibile antagonista del Principe cadde su due uomini: Tito Flavio Vespasiano, comandante di tre legioni in Giudea, consolare di grande prestigio militare e Caio Licinio Muciano, governatore di Siria, anch’egli alla testa di tre legioni, che alla fine preferì essere il braccio destro del primo.

L’ascesa di Vespasiano e la fine di Vitellio

Tito Flavio Vespasiano proveniva da una famiglia italica di Reate (odierna Rieti) in Sabina e il cui padre era un facoltoso pubblicano dell’ordine equestre. Il futuro imperatore era entrato a far parte del Senato regnante Tiberio e fu riconosciuto da Nerone sia per l’abilità militare che la fedeltà tanto nominarlo prefetto e inviarlo a sedare la rivolta scoppiata in Giudea nel 66 d.C. con tre legioni. Il 1° luglio del 69 d.C. Tiberio Giulio Alessandro, prefetto d’Egitto e nipote del noto filosofo ebreo Filone che aveva fatto parte della legazione giudaica a Roma presso Caligola, fece pressione per accelerare i tempi della procedura di proclamazione imperiale in favore di Vespasiano nella città di Alessandria. Quest’ultimo aveva legami di parentela acquisita importanti, essendo cognato della principessa Berenice, sorella del re Agrippa II, che (rimasta vedova) aveva intessuto una relazione con Tito, figlio di Vespasiano e futuro secondo imperatore della gens Flavia. Gli eserciti presenti in Giudea, dove effettivamente Vespasiano si trovava, sostennero la proclamazione seguiti dalle legioni della Siria, guidate da Caio Licinio Muciano, infine da quelle danubiane. Mentre Vespasiano si recava in Egitto per il controllo e distribuzione del rifornimento granario di Roma, dalla Pannonia Antonio Primo marciò con le legioni danubiane verso l’Italia, a cui si aggiunsero quelle siriane. Malgrado l’esortazione alla prudenza, Antonio Primo decise di attaccare senza indugio le truppe inviate da Vitellio cercando di tamponare la situazione e riportando una vittoria in un secondo scontro a Bedriaco (24-25 ottobre 69 d.C.). I superstiti trovarono rifugio nella vicina Cremona che dovette subire un saccheggio brutale. La lotta tra Vitellio, nonostante i tentativi di mediazione condotti dal prefetto dell’Urbe, e i sostenitori di Vespasiano continuò sotto forma di scontri violenti.

Le avanguardie dell’esercito si erano ormai introdotte in città e non avendo trovato alcuna resistenza, stavano cercando ormai ovunque. Lo trovò un certo Giulio Placido, tribuno di una coorte, seppur non avendolo riconosciuto inizialmente, lo condussero nel Foro romano, poiché ubriaco e rimpinzato di cibo più del solito, avendo compreso che la fine era ormai vicina, attraverso l’intera via Sacra, con le mani legate, un laccio al collo e la veste strappata. Un soldato germanico gli andò incontro per colpirlo con violenza o per ira o per sottrarlo a peggiori strazi, oppure mirando il tribuno Placido, al quale mozzò un orecchio; per questo fu subito trucidato. Lungo l’intero percorso venne fatto oggetto di ogni ludibrio a gesti e con parole, mentre era condotto con una punta di spada al mento e la testa tenuta indietro per i capelli, come si fa con i criminali. Fu così costretto a guardare i Rostri, dove aveva pubblicamente rinunciato all’impero, le proprie statue mentre venivano abbattute, il lago Curzio dove era stato ucciso Galba, e alla fine fu portato alle Gemonie, dove era stato buttato il tronco senza testa di Flavio Sabino. Venne scannato per le vie di Roma, dopo otto mesi e cinque giorni di regno:

«C’era chi gli gettava sterco e fango e chi gli gridava incendiario e crapulone. La plebaglia gli rinfacciava anche i difetti fisici: e in realtà aveva una statura spropositata, una faccia rubizza da avvinazzato, il ventre obeso, una gamba malconcia per via di una botta che si era presa una volta nell’urto con la quadriga guidata da Caligola, mentre lui gli faceva da aiutante. Fu finito presso le Gemonie, dopo esser stato scarnificato da mille piccoli tagli; e da lì con un uncino fu trascinato nel Tevere.» (Svetonio, Vita di Vitellio, 17.)

All’inizio dell’anno successivo il sessantenne Vespasiano, allora stanziato ad Alessandria d’Egitto dove si trattenne molto a lungo, fu riconosciuto imperatore dal senato, grazie all’intervento del sopraggiunto Muciano che governò Roma in un primo tempo insieme al giovane Domiziano. Vespasiano e Tito vennero eletti consoli in assenza.

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