Gaio Mario e la Riforma dell’esercito romano

Gaio Mario e la Riforma dell'esercito romano

Gaio Mario, militare e politico, nato nel 157 a.C. ad Arpino (antica Cereatae) nel Lazio meridionale, apparteneva a una famiglia di cavalieri priva di antenati illustri: era dunque un homo novus, un non nobile.

Venne eletto console nel 107 a.C. per porre riparo al disastroso andamento della guerra contro Giugurta, re di Numidia, in Africa settentrionale. Nel 112 Giugurta, in lotta per il trono contro i cugini alleati di Roma, aveva conquistato la città di Cirta, massacrando i commercianti romani e italici che vi si trovavano. Davanti a una simile provocazione il senato esitò a intervenire, anche perché alcuni senatori ricevevano grandi somme di denaro dal re usurpatore; sotto la pressione dei cavalieri e del popolo decise infine la guerra, che fu però condotta con poca determinazione. Nella nuova situazione trovare reclute in numero sufficiente e ben motivate era divenuto difficile, e poi i generali si lasciavano corrompere dall’oro di Giugurta. Mario fu dunque eletto sull’onda dell’indignazione popolare contro questa umiliante conduzione della guerra.

Per prima cosa il nuovo console promosse un’importante riforma dell’esercito. Preso atto che la crisi della piccola proprietà rendeva necessario abbandonare l’antico principio che limitava il servizio militare ai soli cittadini possidenti, decise di aprire il reclutamento anche ai nullatenenti, i proletari. Fu l’inizio di una trasformazione che nel giro di alcuni decenni portò a un cambiamento radicale: da milizia temporanea di cittadini-agricoltori, le legioni romane si trasformarono in truppe di professionisti regolarmente stipendiati, bene addestrati e in servizio per molti anni di seguito. Oltre a cambiare il reclutamento, Mario riformò altri aspetti dell’esercito. Elmo, corazza, scudo e armi furono resi più robusti ed efficaci, l’addestramento fu più curato, e la tattica bellica fu migliorata dall’introduzione del sistema della coorte. La coorte era un’unità tattica agile ma abbastanza forte per operare autonomamente. Era costituita dall’unione di tre manipoli e composta di regola da 500-600 soldati. Composta da dieci coorti, la legione divenne la più efficace formazione di fanteria della storia fino all’introduzione, nel XVI secolo, delle armi da fuoco.

La durata della ferma richiesta ai poveri che si offrivano volontariamente di diventare legionari era di sedici anni. Poiché al momento del congedo i generali cercavano di fare avere ai loro veterani un appezzamento di terra, il servizio militare appariva agli occhi delle classi rurali povere uno strumento per arricchirsi e raggiungere infine lo status di piccoli proprietari. Durante il servizio militare i soldati erano equipaggiati e stipendiati dallo Stato, vivevano in accampamenti, erano soggetti alla legge militare e rimanevano lontani dalla vita civile. Erano professionisti della guerra che vivevano fuori dalla società e dipendevano in tutto dal generale che li arruolava, li guidava in battaglia e infine li congedava. Essi sapevano che il loro avvenire dipendeva dal successo del loro generale. Da un punto di vista bellico, in questo modo l’esercito diventava più numeroso, addestrato ed efficace nell’azione. Ma dal punto di vista politico era una trasformazione molto pericolosa, come si sarebbe visto presto: le legioni diventavano così strettamente legate al loro comandante da trasformarsi quasi in suoi eserciti personali, pronti a seguirlo in tutto, anche contro la stessa repubblica.

Grazie a queste riforme, Giugurta venne sconfitto senza difficoltà. In catene, nel 105 a.C. il re africano sfilò per le vie di Roma nel trionfo di Mario, e subito dopo fu giustiziato, secondo la feroce usanza dei Romani che ammazzavano i capi nemici prigionieri. Mario era l’idolo del popolo e il capo dello schieramento dei popolari. Fu rieletto al consolato per ben cinque anni consecutivi, a dispetto di tutte le leggi. Le rielezioni del resto non dipesero solo dal suo prestigio di generale: molto contò anche un pericolo che dal settentrione minacciava Roma. Da oltre un decennio i due popoli dei Cimbri e dei Tèutoni, considerati germanici dagli scrittori romani di epoca successiva ma probabilmente di etnia celtica, attaccavano e vincevano le truppe romane stanziate in Gallia e in Spagna. Proprio nel 105 a.C. due armate romane erano state sterminate ad Arausio (Orange), ai confini della parte meridionale della Gallia conquistata dalla repubblica pochi anni prima (la Gallia Transalpina, più tardi detta Gallia Narbonense). Si riaffacciava a Roma e in Italia l’antica paura di venire invasi da popoli del Nord, come era accaduto con i Galli nel 390 a.C.: Mario apparve come il salvatore. Nel 102 arrivò in effetti l’invasione. Ma il grande generale sconfisse dapprima i Teutoni in marcia verso l’Italia ad Aquae Sextiae (oggi Aix-en-Provence), e poi nel 101 sterminò i Cimbri, che erano scesi nella Pianura Padana attraverso il Brennero, nella battaglia dei Campi Raudi (una località ignota, forse presso Vercelli, o forse in Veneto). La popolarità di Mario era immensa, e la fazione dei popolari sembrava destinata a imporre agli ottimati una serie di riforme. L’abile generale si rivelò però un modesto politico. Fatale fu soprattutto la sua decisione di rompere l’alleanza con un leader dei popolari, il tribuno della plebe Saturnino, che venne catturato e poi ucciso proprio ad opera di Mario. Mario perse così l’appoggio di molti popolari e si ritirò (momentaneamente) dalla vita politica.

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