Patrizi e Plebei: le lotte e le divisioni

Patrizi e Plebei: le lotte e le divisioni

Fin dai primi anni della repubblica i patrizi ricoprivano tutte le posizioni di potere. Patrizi erano i due consoli, massimi magistrati della repubblica (subentrati al re ai vertici dello Stato), i membri del senato, e nei primi tempi anche molti altri magistrati, come i censori, i pretori e i questori. Composte da tutti i cittadini ma dominate dal patriziato grazie ai modi con cui veniva espresso il voto erano inoltre le tre assemblee popolari: gli antichi comizi curiati, i comizi centuriati, e i comizi tributi.

Era ovvio che gli esclusi da questo sistema istituzionale, i plebei, lottassero per cambiarlo. Lo scontro fra patrizi e plebei durò per generazioni, indebolendo talvolta in modo pericoloso la posizione di Roma. Il gruppo dei plebei era più vasto e diversificato di quello dei patrizi. Ne facevano parte poveri e diseredati, piccoli proprietari e anche un buon numero di personaggi ricchi. Soprattutto questi ultimi ritenevano inaccettabile che per nascita tutto il potere spettasse ai patrizi, alcuni dei quali erano meno ricchi di loro.
Ma il malcontento era diffuso anche fra gli altri plebei, tanto più che essi erano tenuti a sostenere le grandi spese necessarie all’acquisto delle armi e rappresentavano la massa dei fanti dell’esercito. Proprio una specie di “sciopero della guerra” fu quindi la migliore arma per strappare concessioni ai patrizi. I plebei decidevano la
secessione: uscivano dalla città concentrandosi sul Monte Sacro o sull’Aventino e si rifiutavano di prendere parte all’esercito. La prima secessione della plebe avvenne nel 494 a.C., una seconda nel 451 a.C. e altre nel secolo successivo. Inoltre i plebei formarono delle istituzioni contrapposte a quelle dei patrizi. Nacque un’assemblea, concilii della plebe, che prendeva deliberazioni, dette plebisciti, in origine valide solo per i plebei; inoltre eleggeva gli edili della plebe, incaricati della custodia del tesoro e dell’archivio della plebe, e i tribuni della plebe, il cui numero crebbe gradualmente da due fino a dieci.

Alla fine i patrizi dovettero cedere, riconobbero le nuove istituzioni e accettarono che i tribuni della plebe avessero diritto di veto: dichiarando la loro opposizione, i tribuni potevano cioè bloccare le decisioni dei magistrati patrizi ritenute dannose per gli interessi della plebe. Le lotte della plebe per la parità dei diritti ottennero anche che fossero messe per iscritto le leggi, che fino a quel momento erano restate orali e talvolta semi-segrete: scrivendole si riduceva l’arbitrio dei giudici, che erano patrizi. Il testo delle leggi fu stabilito nel 451 a.C. da una commissione di dieci patrizi (i decemviri) presieduta da Appio Claudio. Le leggi vennero incise su dodici lastre di bronzo; perciò questo codice, il più antico di Roma, è noto come le Leggi delle Dodici Tavole. La piena parificazione politica fra patrizi e plebei era però ancora lontana. Per raggiungerla occorsero ulteriori aspre lotte e molto tempo. Nel 445 a.C., ad esempio, venne eliminato il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei; nel 421 a.C. la carica di questore fu aperta ai plebei; nel 367 a.C., con le leggi Licinie-Sestie, fu permesso ai plebei di diventare consoli e entrare nel senato, e iniziò la consuetudine che uno dei due consoli fosse patrizio, l’altro plebeo; negli anni successivi, anche le magistrature del dittatore e dei censori cessarono di essere riservate ai patrizi. Nel 287 a.C. si riconobbe valore di legge valida per tutti i cittadini, patrizi compresi, ai plebisciti votati dai concilii della plebe. Al vertice sociale e politico della città avvenne così un cambiamento importante, poiché il patriziato fu sostituito da una nuova oligarchia: la nobiltà (nobilitas), nata dalla fusione fra gli antichi patrizi e le famiglie plebee più ricche e potenti, che iniziavano a ricoprire le magistrature e a sedere nel senato.

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Quando diciamo che la repubblica di Roma fu un regime dominato dall’aristocrazia, dobbiamo ricordarci che l’aristocrazia romana è cambiata nel corso dei secoli. Per comprendere questi cambiamenti una buona guida sono i termini coniati dagli storici per definire nelle diverse epoche l’aristocrazia di Roma. Durante l’età monarchica si parla, come abbiamo visto, di aristocrazia gentilizia, perché ne facevano parte i membri delle gentes; dopo il passaggio alla repubblica, per un secolo e mezzo o due occorre parlare di patriziato, perché fu allora che nella società e nella vita politiche romane la contrapposizione di fondo divenne quella fra patrizi e plebei; dai decenni intorno al 300 a.C., infine, è meglio parlare di nobiltà patrizio-plebea. Cos’era dunque il patriziato e come si trasformò in nobiltà? La questione è complessa, e continua a fare discutere gli storici. Iniziamo allora con un chiarimento. Il termine patrizi spesso viene utilizzato anche per indicare l’aristocrazia gentilizia dell’età monarchica. In effetti letteralmente patrizi significa ‘quelli che hanno un padre’, e cioè discendono dai patres, i capifamiglia delle gentes. Tuttavia il termine si diffuse realmente solo dopo la nascita della repubblica e l’insorgere del contrasto con i plebei. Sono stati i primi storici antichi di Roma, che scrivevano a molti secoli di distanza dalla scomparsa della monarchia, a immaginare che la contrapposizione fra patrizi e plebei fosse iniziata già ai tempi di Romolo: in questo modo, hanno spostato fino agli inizi della storia romana un fenomeno e dei termini (patrizi e plebei) di età repubblicana.
Per quanto possa apparire strano ai nostri occhi, la superiorità dei patrizi non derivava dalle maggiori ricchezze, ma da uno speciale status sacrale: i patrizi possedevano per nascita la capacità di esercitare gli auspici, cioè di entrare in contatto con gli dèi tramite appositi riti. La supremazia politica derivava da questa prerogativa di carattere religioso, e per questa ragione veniva tramandata per via ereditaria all’interno del solo patriziato. Sia per la religione che per la politica, a Roma gli auspici erano qualcosa di fondamentale. Si pensava infatti che per avere l’imperium, cioè per ricoprire funzioni di comando, la facoltà degli auspici fosse un requisito indispensabile. Contrariamente a quanto accade oggi, agli occhi dei Romani i magistrati superiori (consoli, dittatore, pretori) non acquisivano il loro potere (imperium) dall’assemblea che li eleggeva, ma direttamente da Giove, che lo dava soltanto a chi era in grado di interpretare, tramite gli auspici, la sua volontà.

Questo monopolio del potere in favore dei patrizi non risaliva all’epoca monarchica, poiché in età monarchica auspici e imperio appartenevano al re: solo dopo la fine della monarchia era sorta la convinzione, condivisa da tutti i Romani, che gli auspici potessero venire esercitati unicamente da membri delle famiglie patrizie. In buona misura si trattava delle stesse gentes che in età monarchica componevano l’aristocrazia gentilizia, anche se forse qualche gens fu esclusa dal patriziato e qualche nuova famiglia ne entrò a far parte. Tuttavia era una realtà sociale e politica nuova: un gruppo rigidamente chiuso a nuovi ingressi, caratterizzato da uno status sacrale, esclusivo titolare delle magistrature maggiori.

I successi ottenuti contro lo strapotere patrizio aprirono ai plebei, a partire dalle leggi Licinie-Sestie del 367 a.C., le porte del senato e le maggiori magistrature. Fu creato un rituale che permetteva anche a un plebeo di acquistare la facoltà degli auspici se veniva eletto a una carica maggiore; ma mentre in un patrizio questa facoltà era a vita, il magistrato plebeo la perdeva appena si dimetteva dalla carica. In numero crescente, i più importanti dei plebei riuscivano a divenire consoli o a ricoprire altre magistrature maggiori ed entravano a far parte del senato. Gradualmente si formò una nuova classe dirigente costituita sia dai patrizi, sia da plebei ricchi e influenti, sia anche da famiglie dell’aristocrazia latina, campana ed etrusca che avevano ottenuto la cittadinanza romana. Nel 300 a.C. la decisione di aprire ai plebei anche le cariche religiose dei sacerdozi superiori e degli àuguri testimonia che l’integrazione dei plebei era già a uno stadio avanzato.

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Questo nuovo gruppo aristocratico posto al vertice della società romana venne chiamato nobiltà, nobilitas. La parola deriva dal verbo conoscere (nosco) e sta a indicare che il nobile, in primo luogo, doveva essere un uomo noto, ben conosciuto. Il criterio principale per essere considerati noti (e dunque nobili) era quello di avere fra i propri antenati, vicini o lontani, un personaggio di spicco, che fosse stato console o pretore. A differenza del patriziato, la nobiltà non costituiva un gruppo chiuso, riservato a pochi per diritto di nascita e dove nuovi ingressi erano vietati dalla legge e dalla religione. In teoria qualsiasi cittadino poteva diventare console, e accedere alla nobiltà. Nei fatti realizzare questa ascesa era difficile e richiedeva grandi qualità individuali, perché i nobili cercavano in tutti i modi di impedire l’accesso a nuovi membri; costoro erano chiamati uomini nuovi (homines novi), perché nessuno dei loro antenati era mai stato console o senatore. Ciò nonostante nella storia della repubblica romana gli uomini nuovi furono numerosi e importanti.
La nobiltà era un
gruppo aperto non solo in entrata, ma anche in uscita: come (con difficoltà) era possibile divenire nobili, così si poteva cessare di esserlo. Quella di nobile, infatti, non era una condizione acquisita una volta per tutte. Per certi aspetti possiamo dire che la nobiltà fosse una “meritocrazia”. Certo, era una meritocrazia singolare, perché la provenienza familiare era e restava il criterio base. Ma a ogni generazione gli individui che componevano la nobiltà dovevano dare prova delle proprie qualità e dei propri meriti personali per continuare ad appartenere al gruppo. Naturalmente occorreva essere ricchi, e restarlo.

Bisognava poi godere di prestigio e carisma, che in parte dipendevano dalla gloria degli antenati, ma in parte dovevano essere conquistati di persona, compiendo nuove prodezze militari, esercitando con sapienza la massime magistrature, divenendo abili oratori o esperti di diritto. Infine occorreva avere clienti numerosi e di rilievo, che accrescevano l’influenza del loro nobile patrono sulla società. Se uno di questi elementi cessava, anche gli altri finivano prima o poi per sparire. Per esempio, se in seguito a un rovescio finanziario o al pagamento di una condanna esorbitante la ricchezza veniva meno, nel giro di qualche tempo i clienti finivano per abbandonare il patrono impoverito e il suo prestigio cessava. Il patrizio in questione entrava a far parte di una nobiltà decaduta, impossibilitato a seguire quel cursus honorum, per il quale necessitava un ampio patrimonio. Abbiamo esempi illustri di personaggi storici in difficoltà economiche, uno tra questi il celebre Silla, che solo aiutato dalla buona sorte e una volontà ferrea, riuscì a tornare in possesso di un patrimonio tale da poter accedere alla scalata al potere. Per i più la sorte era la medesima, conservavano un titolo senza gloria entrando, pian piano, nel dimenticatoio della storia.

Fonti: La nostra Storia
Consulenza di Irene Salvatori, archeologa e scrittrice, presidente di Storicum Associazione culturale

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