La morte di Francesco Valeriano, 45 anni, avvenuta dopo sei mesi di agonia in coma, getta un’ombra pesante sul sistema penitenziario italiano. L’uomo, originario di Fondi, stava scontando una pena relativamente breve (due anni e mezzo) nel carcere di Rebibbia, dove era arrivato da poco. La sua vita è stata spezzata il 30 giugno scorso, quando è stato massacrato di botte in cella. Questo tragico epilogo, che ha visto Valeriano trasferito d’urgenza al Policlinico Umberto I con lesioni cerebrali gravissime, prima di spegnersi definitivamente, solleva un interrogativo fondamentale: può una pena detentiva trasformarsi, all’interno di una struttura dello Stato, in una condanna a morte per mano di terzi? La famiglia ora chiede giustizia, una richiesta che va oltre la semplice individuazione dei responsabili diretti.

Il calvario tra cella e ospedale
La storia di Valeriano è un calvario iniziato un mese e mezzo dopo il suo trasferimento a Rebibbia, penitenziario romano, dopo un periodo a Cassino. Rinvenuto agonizzante a fine giugno, le sue condizioni erano disperate: lesioni cerebrali, tracheotomia e un lungo periodo in coma in diverse strutture sanitarie. La morte, avvenuta sei mesi dopo l’aggressione, chiude il ciclo di sofferenza. L’avvocato Antony Lavigna ha depositato una denuncia per “morte in seguito a lesioni” e ha chiesto l’acquisizione delle cartelle cliniche e l’autopsia. L’indagine, che in un primo momento si concentrava solo sull’aggressione e sull’identificazione dei responsabili, ora si allarga, includendo le dinamiche che hanno portato al decesso.
Il punto di vista più incisivo e necessario in questa vicenda è quello del fallimento di sistema. La pena detentiva, secondo la Costituzione, deve tendere alla rieducazione e non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. La morte di un detenuto in seguito a un pestaggio all’interno di una struttura di massima sicurezza è una sconfitta inaccettabile per lo Stato. Come ha ribadito l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), la questione non riguarda solo gli autori materiali dell’aggressione – che dovranno essere giudicati – ma tocca le responsabilità di sistema che il sindacato denuncia da anni.
La vera accusa mossa dai sindacati di Polizia Penitenziaria è verso un sistema che ignora i segnali di allarme. Istituti come Rebibbia sono spesso sovraccarichi di detenuti, molti dei quali con fragilità personali, senza che vengano garantite risorse e politiche adeguate per la gestione dei conflitti e la separazione dei soggetti a rischio. Il personale di Polizia Penitenziaria è costretto a operare con organici “ridotti all’osso” in strutture il cui equilibrio è descritto come “precario”.






