Roma e Cartagine: lotta per la supremazia

Le più grandi e celebri operazioni belliche che videro coinvolta la Roma repubblicana furono una serie di tre guerre, combattute a cavallo del III e II secolo a.C. fra Roma e quella che all’epoca era considerata il nemico più pericoloso per le ambizioni espansionistiche di Roma: Cartagine. Le guerre cosiddette puniche, dal nome che i romani diedero ai cartaginesi, si articolarono nel periodo compreso fra il 264 a.C. e il 146 a.C. e si risolsero con la completa distruzione di Cartagine, rendendo Roma egemone sul mar Mediterraneo.
La prima guerra punica si svolse dal 264 al 241 a.C. e fu per la maggior parte combattuta in mare, contesto favorevole a Cartagine, dovendo investire pesantemente nell’allestimento delle flotte. All’inizio della guerra Roma non aveva nessuna esperienza di guerra navale e per compensare la mancanza di esperienza in battaglie navali, equipaggiò le proprie imbarcazioni con i Corvi, speciali congegni d’abbordaggio: essi agganciavano le navi nemiche permettendo anche il combattimento della fanteria. Il casus belli fu l’occupazione di Messina da parte dei mercenari campani – i Mamertini – al servizio di Agatocle, dittatore di Siracusa, che, alla morte di quest’ultimo nel 289 a.C. avevano assediato la città (288 a.C.). Gerone, successore di Agatocle come capo supremo a Siracusa, minacciò di annientarli cosicché i Mamertini chiesero aiuto ai Cartaginesi per ottenere supporto. Questi ultimi, tuttavia, si palesarono come padroni spietati ed i Mamertini tornarono dai Romani per chiedere che li liberassero dalla difficile situazione del momento. I Romani accolsero la richiesta e Gerone si schierò subito dalla loro parte, temendo di perdere Siracusa. Nel 264 a.C. le forze romane sbarcano in Sicilia al comando del console Appio Claudio Caudice. I Romani sconfiggono nella battaglia di Messina dapprima i siracusani e poi i cartaginesi.
Nel 260 a.C. nella prima battaglia navale (battaglia delle Isole Lipari) si concretizzò un disastro per Roma a causa dell’incompetenza del console Gneo Cornelio Scipione (detto poi Asina) mentre a Milazzo ci fu il primo importante successo romano da parte di Gaio Duilio. Nel 256 a.C. Attilio Regolo portò la guerra in Africa, riportando una importante vittoria a capo Ecnomo, costringendo i Cartaginesi a chiedere la pace. Regolo, tuttavia, impose loro condizioni troppo dure e pesanti: i Cartaginesi si ribellano, catturando Regolo e trucidandolo facendolo volare da un pendio all’interno di una botte riempita di aculei al suo interno. Nel 241 a.C. Gaio Lutazio Catulo con una vittoria alle isole Egadi pone fine alla prima guerra punica: Cartagine è costretta a cedere la Sicilia come ricompensa di guerra. Inoltre, approfittando di una rivolta dei Libici, Roma riuscì ad impadronirsi anche della Sardegna e della Corsica.
Tra il 241 a.C. e il 218 a.C. Cartagine dovette fronteggiare una lotta intestina fra le fazioni locali, sconvolgimenti politici che portarono al potere Annibale, figlio di Amilcare Barca. Era il preludio al nuovo scontro.
La seconda guerra punica si scatenò a causa di un fatto ben preciso: Annibale, succeduto ad Asdrubale, attaccò improvvisamente la città di Sagunto (219 a.C.), alleata dei Romani in territorio cartaginese. Egli, come tutto il popolo cartaginese, intendeva recuperare la potenza militare e l’influenza politica perduta dopo la sconfitta subita nella prima guerra punica. L’impeto della guerra divampò immediatamente. Annibale, alla volta dell’Italia, compì un’impresa leggendaria, descritta dallo storico Livio: partì dalla Spagna con un esercito di circa 50.000 uomini, 6.000 cavalieri e 37 elefanti. valicando le Alpi, scontrandosi con i Romani nel 218 a.C., ottenendo due vittorie presso la confluenza di Po e Ticino e presso il fiume Trebbia. Contrariamente alla prima guerra punica, contraddistinta dagli scontri in mare, la seconda fu caratterizzata soprattutto da grandi battaglie terrestri con movimenti di masse enormi di fanterie, elefanti e cavalieri; le due fazioni misero in campo anche grandi flotte, impiegate principalmente in missioni di trasporto di truppe e rifornimenti.
Annibale attraversò l’Appennino e batté le legioni romane nella famosa battaglia del lago Trasimeno. Essa è una battaglia fondamentale nella storia della tattica militare perché è la prima vinta per superiorità di manovra, ossia un esercito ottiene una posizione sul terreno tale da impedire all’avversario qualunque difesa e costringendolo quindi alla resa, cosa che i Romani non fecero preferendo farsi massacrare. Sapendo di non poter assediare Roma prima di aver raccolto attorno a sé le popolazioni dell’Italia centrale e meridionale si diresse verso la Puglia a Canne. I Romani, a seguito della lunga serie di insuccessi, nominarono dittatore Quinto Fabio Massimo, che subito adottò una nuova tattica, la guerriglia, per arginare il nemico, non ottenendo però grandi risultati, al punto di essere soprannominato cunctator, “temporeggiatore”, per la sua lentezza ed esitazione cronica nel procedere e nell’agire. Quando la dittatura ebbe termine, i due consoli Lucio Emilio Paolo e Terenzio Varrone si scontrarono di nuovo con Annibale nel 216 a.C. a Canne, con esito disastroso, trovando la morte assieme ai loro eserciti. Ancora una volta Annibale scelse di non attaccare Roma, che già si aspettava l’assedio, occupandosi delle regioni del sud Italia.
Nel frattempo i Romani prevalsero su Filippo V, alleato di Annibale, durante la prima guerra macedonica, durata dal 215 al 205 a.C.. Nel 212 a.C. Roma riprese il controllo di Siracusa e l’anno successivo assediò Capua e riconquistando Taranto ed Agrigento. Per distogliere le attenzioni di Annibale dall’Italia, i Romani scelsero diligentemente di spostare il conflitto nella penisola iberica, affidando le operazioni di comando a Gneo e Publio Scipione (218 – 211 a.C.), uccisi poi nel 211 a.C. per mano di Asdrubale. Privi di rifornimenti e rinforzi, senza il supporto delle popolazioni del centro Italia contro Roma, Annibale si ritrovò in stato d’assedio sui monti della Calabria. Nel 210 a.C. Publio Cornelio Scipione, figlio di Gneo, nominato privatus cum imperio, sconfisse Asdrubale, lo costrinse ad abbandonare la Spagna ed infine lo uccise sul fiume Metauro nel 207 a.C., gettandone la testa nell’accampamento del fratello Annibale. Contro il volere del Senato, guidato da Quinto Fabio Massimo che riteneva prioritario cacciare l’invasore punico dalla Penisola, Scipione, in qualità di proconsole della Sicilia e aiutato dalle città italiche, partì per l’Africa con l’obiettivo di attaccare direttamente Cartagine. La città punica si vide costretta a richiamare Annibale che rientrò in patria dopo 34 anni di assenza. Nel 202 a.C. a Naraggara, nei pressi di Zama, Scipione volse contro Annibale la sua stessa strategia e lo sconfisse, determinando la fine della seconda guerra punica.
Le condizioni di pace imposte da Roma consistevano nella cessione della Spagna, il riconoscimento ufficiale del regno di Numidia con a capo Massinissa (governo fantoccio nelle mani di Roma) e la consegna della flotta con divieto totale di iniziative belliche senza permesso.
Negli anni successivi all’ultimo scontro con Cartagine, si erano venute a formare due linee di pensiero, una – guidata da Scipione Nasica – sosteneva che la città punica nemica dovesse continuare ad esistere come esempio; la seconda – guidata da Catone il Censore che aveva fatto di “Carthago delenda” il suo motto – insisteva ad incitare la distruzione di Cartagine prima che potesse risorgere, risollevarsi commercialmente e minacciare di nuovo Roma. Lo stato romano decise di intraprendere la strada dettata dalla linea di Catone. Gli anni di guerra costarono molto a Roma, che non poteva dimenticare il pesante sforzo in termini economici e umani causati dalla precedente guerra.
Roma consentì a Massinissa, re di Numidia, di riappropriarsi dei territori occupati da Cartagine, un tempo a lui appartenuti, scatenando nello stato cartaginese la ribellione alle limitazioni imposte, insofferente a quelli che considerava oltraggiosi soprusi: Cartagine dichiarò guerra e ciò, naturalmente, costituiva una violazione del trattato di pace siglato nel 201 a.C. I Cartaginesi non accettarono la condizione necessaria alla loro sopravvivenza imposta da Roma di ricostruire la propria città a 10 miglia dal mare, così dovettero subire l’assedio dei Romani per tre anni, evento che passò alla storia come terza guerra punica – dal 149 al 146 a.C. Si verificò una frenetica corsa al riarmo, con i cartaginesi che riuscivano a produrre ogni giorno centinaia di armi ed utensili come spade, lance, scudi e proiettili per le catapulte. Quando i romani arrivarono alle mura di Cartagine trovarono un intero popolo, determinato e stretto a difesa della sua città. La città subì una lenta ed inesorabile agonia, senza viveri e afflitta da malattie. Scipione non decise subito per l’attacco, lanciato poi solo nel 146 a.C.
Per molti giorni, le ultime guarnigioni impegnarono i Romani in disperate quanto infruttuose battaglie per le strade, nonostante fosse ormai la fine. Alla caduta della città, Scipione Emiliano diede ordine di raderla al suolo (146 a.C.), bruciandola, abbattendo le mura, distruggendo il porto e gettando simbolicamente del sale sulla terra per evitare la coltivazione dei campi. Il luogo dove un tempo sorgeva la potente Cartagine divenne così provincia romana d’Africa.