Lucio Giunio Bruto: l’uomo della Repubblica

Lucio Giunio Bruto

Tra le figure storiche di maggior rilievo del panorama romano c’è sicuramente quella di Lucio Giunio Bruto, immortalato in numerose opere d’arte (come il famoso ritratto bronzeo del V secolo a.C. ai Musei Capitolini) o utilizzato nel corso dei secoli (dalle corti rinascimentali ai senatori della fine della Repubblica romana) come simbolo di libertà e di sconfitta della tirannia. Fondamentalmente, dal punto di vista storiografico ma anche culturale, a Giunio Bruto dobbiamo la fine della monarchia a Roma in favore di una Repubblica che, almeno allo stato iniziale delle cose, avrebbe dovuto essere equa, giusta e solidale. Vedremo, però, come il gesto di Bruto, e cioè la cacciata dell’ultimo re dell’Urbe, sembrerebbe dettato da un sentimento che assomiglia più ad una faida familiare che alla ricerca di nuovo statuto politico e sociale.

IL DUALISMO TRA TARQUINIO IL SUPERBO E LUCIO GIUNIO BRUTO
Indubbiamente la figura quasi eroica, nonché virtuosa, di Giunio Bruto non potrebbe esistere senza il suo alter ego tirannico, despota e crudele: Lucio Tarquinio, meglio conosciuto come Tarquinio il Superbo. Riferendoci alle parole di Tito Livio, che lo descrive come un uomo senza scrupoli e, soprattutto, poco incline a rispettare le tradizioni e la cultura romana, è ovvio presumere che le cose non andassero bene per i sudditi né, soprattutto per il Senato. Lo storico scrisse, infatti: “Da allora ebbe inizio il regno di Tarquinio, soprannominato il Superbo a causa della sua condotta. E a buon diritto, visto che, pur essendone il genero, non concesse a Servio [suo predecessore al trono] la sepoltura sostenendo che anche Romolo non l’aveva avuta, e fece eliminare i senatori più importanti in quanto sospettati di aver parteggiato per Servio”. Non certo un buon biglietto da visita, insomma. Tarquinio il Superbo si macchiò di aver preso il potere con la forza e, soprattutto, di aver impostato un sistema clientelare e fiduciario, che reggeva le redini dello stato, basandolo però su rapporti strettamente famigliari, togliendo dunque al Senato qualunque prerogativa ed influenza. I Senatori, dunque, furono messi fuori gioco. Scrisse sempre Tito Livio: “[Tarquinio il Superbo] resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai consultare il popolo e i senatori”. Infine, per non farsi mancare nulla, pare che il nuovo re usasse chiedere molti consigli ai vicini Latini, gente dunque estranea all’Urbe che, però, pare avessero più ascendente dei senatori.

Lucio Giunio Bruto

Il giuramento di Bruto, Jacques-Antoine Beaufort, 1771

In quest’ottica dobbiamo vedere la figura di Giunio Bruto, un uomo tutto d’un pezzo, un romano vero che non vedeva di buon occhio la deriva autoritaria di Tarquinio il Superbo. Anzi, secondo le cronache antiche e la storiografia ufficiale, come spesso capitava, pare che Bruto fosse quasi predestinato ad essere l’eroe che, per volontà divina, doveva spezzare l’egemonia usurpatrice e crudele di Tarquinio il Superbo. Ad esempio nel suo De divinatione Cicerone, nel I secolo a.C., riportò un sogno avuto una notte proprio dal re, un sogno profetico che, però, non comprese appieno. Narra infatti Cicerone che il sovrano vide un pastore con un gregge nel quale spiccavano due arieti, forti e fieri. Dunque, in onore delle divinità, nel sogno Tarquinio decise di sacrificare il più bello ma l’altro, colto d’ira, lo attaccò e lo scaraventò a terra. Il significato dell’esperienza onirica? Secondo gli aruspici simboleggiava l’arrivo di un uomo, all’apparenza stolto e stupido, senza alcuna speranza di emergere socialmente, che sarebbe stato capace di detronizzare il sovrano buttandolo, letteralmente, via dal suo trono. Cosa c’entra tutto questo con il nostro Bruto? Ha molto a che vedere, in effetti, perché una delle caratteristiche del futuro eroe repubblicano fu proprio quella di fingersi pazzo e sciocco lui che, a tutti gli effetti, avrebbe anche potuto fare una brutta fine nell’epurazione di Tarquinio il Superbo in quanto ne era diretto nipote (Bruto era, infatti, figlio di Tarquinia, la sorella del sovrano). Non dimentichiamoci, inoltre, che il fratello di Bruto era un senatore il quale, come molti altri esimi patres, fu ucciso sempre per ordine del sovrano. Come nelle classiche storie di potere, dunque, il re avrebbe potuto far fuori non solo tutti i suoi nemici, ma anche coloro che, in un futuro non troppo lontano, potevano trasformarsi in ostacoli o minacce. Per esempio lo storico Albino, nel II secolo a.C., ci informa come Bruto si fingesse un perfetto idiota mangiando solo i semi dei fichi o assaporando solamente frutta andata a male, addolcendola con del miele. Comportamenti spiegati con cura proprio da Tito Livio il quale, per giustificarli, tessé le lodi di un uomo molto furbo e scaltro il quale sapeva che, un giorno, il suo momento sarebbe arrivato. Scrisse lo storico: “Sostenendo dunque a bella posta la parte dello stolto, e lasciando sé stesso e i suoi averi in preda al re, non rifiutò nemmeno il soprannome di Bruto, affinché nascosto sotto il velo di tale soprannome, il suo coraggio, quel coraggio che avrebbe dato la libertà al popolo romano, potesse attendere il momento propizio”. Ed il momento giunse presto, sotto forma di violenza.

IL CASO DI LUCREZIA E LA VENDETTA DI BRUTO
Il casus belli, il motivo per cui Bruto scese direttamente nel Foro per arringare i sudditi, già esasperati, contro Tarquinio il Superbo fu la triste vicenda toccata a Lucrezia, moglie di Collatino e simbolo di virtù femminile. Lei incarnò tutto ciò che una donna avrebbe dovuto fare, per la morale dell’epoca: essere fedele al marito, stare a casa badando alle faccende domestiche ed alla prole, avere un comportamento dignitoso e rispettoso. In altra sede specificherò meglio le vicende che portarono alla tragica morte di Lucrezia, ma in questo caso vi basterà sapere che questa personificazione di virtù femminile fu semplicemente distrutta dalle azioni malvagie di Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, il quale tentò in tutti i modi di far sua Lucrezia. Al rifiuto sdegnato di lei il terribile principe la obbligò ad avere un rapporto sessuale con lui nel letto matrimoniale minacciandola di uccidere uno schiavo, porgendo poi il nudo corpo del malcapitato tra le lenzuola, ed affermando pubblicamente che Lucrezia era un’adultera ed un’assassina. Lei cedette, poiché non poteva sopportare un’onta simile (e soprattutto non poteva vedere il suo onore fatto a pezzi), ma quando il marito di lei e Bruto arrivarono Lucrezia fece l’unica cosa che, sempre secondo le consuetudini dell’epoca, una vera donna avrebbe dovuto fare: si uccise. Lei, infatti, non si perdonò, sebbene sotto costrizione e violenza, di aver avuto un rapporto sessuale con un altro uomo all’infuori di suoi marito. Celebre fu la frase, tramandata da Tito Livio, espressa sotto forma di giuramento da Bruto, alla vista di quella scena: “Su questo sangue, purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi chiamo testimoni, o dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né alcun altro possano regnare a Roma”.

I littori portano a Bruto i corpi dei due figli, Jacques-Louis David, 1789

Bruto giurò dunque vendetta, un giuramento che appare però molto personale e personalizzato, in quanto la sua furia e rabbia erano dirette contro la famiglia dei Tarquini, non tanto contro il loro modo di regnare. A tutti gli effetti sembra quasi una faida familiare che, però, ebbe delle ripercussioni talmente grandi da sfociare in una vera e propria rivolta, una sorta di rivoluzione dettata, in primo luogo, dai comportamenti poco consoni che la famiglia regnante stava avendo, come descritto in precedenza. La vicenda di Lucrezia fu, dunque, a tutti gli effetti la classica goccia che fece traboccare un vaso ricolmo di odio profondo verso un re che tiranneggiava i suoi sudditi, non rispettando non solo le istituzioni pubbliche e civili come il Senato, ma neanche le singole persone e le loro virtù. In questo momento Bruto divenne la personificazione della libertas, un exemplum da seguire, un uomo molto furbo che si finse pazzo solamente per non farsi uccidere, aspettando poi di colpire al momento giusto. E ciò sopraggiunse quando si celebrò il funerale pubblico di Lucrezia, in quel Foro da cui scaturirono, prima a parole e poi con le armi, molti dei capovolgimenti politici della storia romana. L’elogio funebre di Bruto si trasformò, invece, in una voce potente che spinse i Romani a non essere più sudditi, ma padroni del popolo destino. Parole che toccarono in profondità l’animo di uomini piegati dalla tirannia, di istituzioni distrutte dalla personalizzazione del potere, di una Roma che si stava insozzando a causa delle nefandezze dei membri della famiglia regale. Per comprendere meglio l’animo stesso di Bruto, e come esso divenne effettivamente quel simbolo di libertas citato in precedenza, è bene qui inserire qualche stralcio del suo discorso al Foro, come ci è tramandato sempre da Tito Livio: “[Bruto] li invitava a smettere con tutti quei pianti e li esortava ad essere degni del proprio nome di uomini e di Romani e a prendere le armi contro chi aveva osato considerarli nemici (…) Egli [Bruto] pronunciò un discorso assolutamente non in sintonia con il carattere e gli atteggiamenti che fino a quel giorno aveva simulato di avere. Parlò della brutale libidine di Sesto Tarquinio, dello stupro infamante subito da Lucrezia (…) Ricordò loro anche l’arroganza tirannica del re e lo stato miserando della plebe, costretta a schiantare di fatica a forza di scavi e di fogne da ripulire. A questo proposito aggiunse che i Romani, capaci di sottomettere ogni altro popolo nei dintorni, erano stati trasformati in manovali e tagliapietre da guerrieri che erano”. Parole molto nette che non poterono non infiammare i cuori dei presenti, i quali con ardore e grande forza di volontà decisero di esiliare il re, combattendolo con tutte le forze a disposizione.

Lucio Giunio Bruto

Guillaume Guillon Léthière, Brutus condamnant ses fils à mort 1811, Salon de 1812, musée du Louvre.

Tarquinio il Superbo era ad Ardea in quel momento, senza sapere che l’Urbe gli aveva già voltato le spalle. La moglie riuscì a fuggire mentre Bruto venne già eletto, a furor di popolo, come quel comandante il quale avrebbe potuto detronizzare definitivamente il sovrano. Quest’ultimo, saputo della rivolta, partì baldanzoso alla volta dell’Urbe per riprendersi ciò che considerava suo. Grande fu la sorpresa nel vedersi sbarrate le porte della città, nel vedersi precluso l’ingresso al suo regno. Lì, su due piedi, al di fuori delle mura cittadine, gli fu comunicato che era ufficialmente esiliato, lui come l’intera famiglia dei Tarquini. Nello stesso momento, invece, Bruto era arrivato ad Ardea, all’accampamento militare. Dopotutto, da che mondo è mondo, per far sì che una rivolta vada per il verso giusto serve anche un braccio armato, ed è proprio quello che Bruto fece. Senza alcuna remora si presentò ai soldati romani che, una volta saputa la vicenda, lo sostennero apertamente mettendosi dalla sua parte. I figli di Tarquinio il Superbo furono invitati ad andarsene, seguendo il padre nel suo esilio. Lucio Giunio Bruto, il liberatore di Roma come lo descrisse Tito Livio, aveva vinto. Con la sua furbizia, la sua arte oratoria, il suo peso politico, la sua forza e sagacia aveva condotto l’Urbe alla liberazione e ad un nuovo inizio, il quale si affermò con la fondazione della Repubblica nel 509 a.C. con Bruto eletto console (insieme a Marco Orazio Pulvillo). Scelta sicuramente saggia, in quanto consul significa colui che decide. E chi meglio di Lucio Giunio Bruto poteva decidere delle sorti di una rinnovata Roma?

Gianluca Pica
Guida Turistica ufficiale e qualificata a Roma e Provincia
Qualified and Official Tour Guide in Rome
Website: https://www.unaguidaturisticaroma.com/

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