Lucrezia, un’eroina romana all’alba della Repubblica

Lucrezia

Nel corso dei secoli la figura di Lucrezia è stata mitizzata, immortalata in numerosissime opere d’arte da maestri quali Raffaello e Parmigianino. Fu ritratta anche da Artemisia Gentileschi che, al pari di Lucrezia, divenne un simbolo delle virtù, della resistenza e resilienza e delle donne, oltre che vittime del comportamento disumano di alcuni uomini. Lucrezia, o meglio la vicenda che la vide suo malgrado protagonista, fu il motivo per cui Lucio Giunio Bruto ed altri con lui decisero di farla finita con il regno di tirannico di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, abbracciando così nuovi ideali di stampo repubblicano.

LUCREZIA COME PERSONIFICAZIONE DELLA PERFEZIONE FEMMINILE
In generale possiamo dire che Lucrezia divenne l’incarnazione della pudicitia nella morale e nell’etica romana, una donna che rappresentò tutto quello che una della sua condizione sociale, e soprattutto del suo sesso, doveva essere e fare. In generale la donna, come i Latini usavano dire, avrebbe dovuto avere queste precise caratteristiche: Lanifica, casta, pia, frugi, domiseda. Essere in grado di filare, rimanere sempre fedele al proprio marito senza cadere nella grave colpa dell’adulterio, essere particolarmente pia ed umile, frugale in tutto ciò che diceva o faceva, oltre che essere un’ottima padrona di casa, capace di gestire ogni singolo aspetto della vita domestica. Tutte queste virtù parevano, leggendo le fonti antiche, in particolare Tito Livio, essersi incarnate nella figura di Lucrezia, graziosa moglie di Collatino e figlia di Lucrezio Tricipitino. Siamo nella Roma dell’inizio del VI secolo a.C., un Urbe soffocata dal regime tirannico, sempre secondo le cronache a noi pervenute, di Tarquinio il Superbo e della sua gens. In particolare sembra che, come scrisse Tito Livio, il sovrano avesse non solo accentrato il suo potere in maniera assolutistica, depotenziando fortemente le prerogative del Senato e, anzi, uccidendo fisicamente molti di coloro, patres soprattutto, che osarono essere suoi nemici. No, perché Tarquinio il Superbo mise al comando dell’Urbe la sua stessa famiglia, elargendo grandi onori ai suoi parenti e, soprattutto, facendo modo che essi occupassero tutti i gangli vitali della vita amministrativa, politica e sociale dell’Urbe dell’epoca. Nonostante questo clima ben poco piacevole c’era ancora qualcuno che riusciva a ricordare ai Romani i principi e le virtù tipiche dei figli di Marte, e Lucrezia, sebbene donna, rispecchiò proprio la romanità al femminile. L’esempio di quanto scritto, secondo le fonti antiche, ce lo diede proprio Collatino, il marito. L’esercito romano era alle porte di Ardea in stato d’assedio e, come scrisse Tito Livio, “In questa guerra di posizione, come sempre accade quando si tratta di una guerra più lunga che aspra, le licenze erano all’ordine del giorno, anche se ne beneficiavano più i capi che la truppa”. Dunque sovente capitava, secondo lo storico romano, che nel corso dell’absidio ci potesse essere un rilassamento generale, proprio come accadde in quelle giornate del VI secolo a.C. In particolare il ben poco virtuoso Sesto Tarquinio, figlio del sovrano tiranno, gozzovigliava di qua e di là, bevendo e passando la notte con diverse donne. Una sera lui, con gli altri massimi reggenti e capi militari dell’Urbe, si ritrovarono a conversare nel corso di una cena. Tra uomini si parla spesso delle proprie donne, esattamente come accade quella sera: “Il discorso cadde per caso sulle mogli e ciascuno prese a dire mirabilia della propria”, scrisse sempre Tito Livio. E qui entra in gioco Lucrezia e la sua incredibile virtù.

Tarquin’s Sons Admiring Lucretia’s Virtue by Jean-Jacques Lagrenée, 1781

Collatino, convintissimo di quanto diceva, affermò che nessuna donna o moglie poteva essere migliore della sua Lucrezia. Invitò tutti i commensali a tornare in fretta e furia a Roma, passando nella casa di ciascuno e vedendo cosa stavano facendo le mogli. Soprattutto le parenti del sovrano, guarda caso, furono trovate in atteggiamenti ben poco lusinghieri, come a voler dimostrare, una volta di più, che l’intera famiglia regale era incapace di stare al potere. Scrisse infatti Tito Livio a riguardo che le nuore del re furono “sorprese a ingannare l’attesa nel pieno di un festino e in compagnia di coetanei”. Ma la situazione fu ben diversa quando, a Collatia, il gruppo di uomini arrivò nella casa di Collatino. E cosa videro? “Nonostante fosse notte fonda, Lucrezia era invece seduta nel centro dell’atrio e stava trafficando intorno alle sue lane insieme alle serve anch’esse indaffarate”. Il classico esempio di donna lanifica, la personificazione della moglie devota che, tra le altre cose, è sempre affaccendata in lavori domestici avendo sempre il controllo della situazione. Un quadro famigliare perfetto per una Lucrezia che, come scritto, venne elevata a simbolo della donna perfetta. Una perfezione che, in un’ottica di giustificazione della ribellione che portò all’esilio di Tarquinio il Superbo ed alla nascita della Repubblica, come si denota soprattutto nella storiografia imperiale, fu completamente distrutta dalle sciagurate azioni di Sesto Tarquinio, l’erede al trono.

Parmigianino, Lucrezia romana, 1540

LA VIOLENZA CONTRO LUCREZIA E LA SUA SCELTA 
Seguendo sempre le parole scritte da Tito Livio, infatti, veniamo a sapere che, qualche giorno, Sesto Tarquinio tornò nella casa di Collatino, ovviamente a totale insaputa dell’uomo. Evidentemente ad un giovane così poco avvezzo alle regole ed all’etica, anche per i Romani, non andò molto a genio che una donna del genere fosse così perfetta. La voleva sua, forse voleva anche dimostrare che tutte, anche la virtuosa Lucrezia, potevano cadere ammaliate dal fascino e vigore del figlio del sovrano. Sesto Tarquinio la desiderava talmente tanto che penetrò nella casa di Collatino, in piena notte, sorprendendo nel sonno la povera Lucrezia, puntandole un pugnale alla gola e decantandone il proprio amore. “Tarquinio cominciò a dichiarare il suo amore, ad alternare suppliche a minacce e a tentarle tutte per far cedere il suo animo di donna”. Ma “l’animo di donna” era troppo forte anche per Sesto Tarquinio. La pia e devota Lucrezia, anche davanti alla possibilità di morire, negò pedissequamente, non volendo violare il suo corpo con un altro uomo che non fosse il proprio consorte. Davanti a questo rifiuto, allora, Sesto Tarquinio, nella sua crudeltà, presagì alla donna la possibilità di veder infangato il proprio onore, disonorando lei e, al contempo, tutta la sua famiglia. Il figlio del sovrano, infatti, minacciò Lucrezia di sgozzare un servo e di portare il suo cadavere ancora caldo sul letto coniugale. Minacciò poi che “glielo avrebbe messo nudo accanto [il servo ucciso] in modo che si dicesse che era stata uccisa nel degrado più basso dell’adulterio”. Solo di fronte a questa enorme minaccia, praticamente una promessa, Lucrezia mise in secondo piano la sua castità, concedendosi contro voglia a Sesto Tarquinio. Come mai la possibilità di essere accusata di adulterio, anche se lei fosse stata comunque morte, terrorizzò così tanto Lucrezia? Perché in questo modo lei avrebbe visto decadere completamente il suo onore, un valore valido ed importante non solo per gli uomini, ma anche per le donne. Nella giurisdizione romana era contemplato infatti il reato di stuprum, che però, a differenza di oggi, si intendeva come un rapporto sessuale, consenziente o meno, commesso al di fuori del matrimonio (o anche quello tra un adulto ed un puer, un minore di 14 anni). Dunque se oggi lo stupro è connotato dalla “semplice” violenza fisica, al tempo dei Romani esso era una cicatrice incancellabile sull’onore e la dignità della donna che aveva avuto l’ardire di andare contro il matrimonio celebrato dal marito, un’unione che, più che avere valore spirituale, ne aveva unico economico e sociale. Rompere il patto matrimoniale con un altro uomo all’infuori del proprio marito rappresentava una violazione anche giuridica, tanto che le donne accusate di stuprum (in definitiva di adulterio) erano o esiliate o pesantemente multate (se non uccise nell’ambito del proprio clan famigliare). Tutto questo era semplicemente inconcepibile per una donna retta e giusta come Lucrezia, la quale però, confermando la sua forza d’animo, non si arrese e dopo la violenza fece immediatamente chiamare suo marito e gli uomini a lui vicini, come ad esempio Lucio Giunio Bruto.

GIUSEPPE MARIA CRESPI, Tarquin and Lucretia, c. 1695/1700

Al loro ritorno Lucrezia mise subito le cose in chiaro, narrando l’accaduto e dicendo espressamente che aveva perduto il proprio onore. Anche se frutto di sopruso e violenza, lei non era più inviolabile, né casta, né pudica, né onorata ed onorevole, né dignitosa. Tutto era andato perduto con quello che, ai nostri occhi moderni, fu a tutti gli effetti uno stupro vero e proprio. Ma Lucrezia, che come detto all’inizio è una figura, forse mitologica, che però personifica la virtù romana, non perse tempo in chiacchiere, lamenti o pianti. Fece giurare tutti i presenti, in particolare Collatino e Giunio Bruto, che l’onta sarebbe stata lavata, che la vendetta avrebbe dovuto essere l’unico obiettivo per loro. “Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui”, così si espresse Lucrezia, secondo Tito Livio. Per lei la cosa più importante era, in un certo qual senso, recuperare l’onore comunque perduto, qualcosa che nessuno le avrebbe più potuto ridare. In quest’ottica si legge meglio il gesto finale di Lucrezia, la quale “Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime”. Non ci dimentichiamo che il suicidio era considerato, in epoca romana, non una vigliaccheria bensì una fine onorevole, un modo per finirla di proprio pugno, una vera e propria virtù che, come ci dimostra la vicenda di Lucrezia, non era solo una prerogativa maschile. Poco prima di uccidersi, infatti, la donna disse quanto segue: “Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!”. Ancora una volta è l’onore, o meglio ancora il disonore, a diventare il vero protagonista di tutta la situazione. Lucrezia è un vero romano, uomo o donna che fosse, un suddito dell’allora monarchia che non accettava i soprusi subiti dalla famiglia reale, le angherie di coloro che avrebbero dovuto governare i romani, non assoggettarli al proprio dominio e potere. Lucrezia si sacrificò dunque per la patria, sacrificò sé stessa per ricordare ai suoi uomini che era giunto il momento di combattere, di prendere le armi e di farla finita con quella tirannia. Giunio Bruto giurò che la violenza subita da Lucrezia sarebbe stata vendicata, come lei stessa aveva chiesto prima di suicidarsi. E, in un certo senso, secondo la storiografia imperiale, possiamo dire che dobbiamo proprio a lei e al giuramento che fece fare a Bruto e agli altri, il fatto che Roma si ribellò al suo tiranno.

Gianluca Pica
Guida Turistica ufficiale e qualificata a Roma e Provincia
Qualified and Official Tour Guide in Rome
Website: https://www.unaguidaturisticaroma.com/

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