Commodo regnò come imperatore dal 180 al 192 d.C., assumendo il potere da solo, sebbene inizialmente fosse destinato a condividerlo con suo fratello, Marco Annio Vero, che però morì nel 179 d.C. Due anni prima, infatti, il padre Marco Aurelio aveva elevato entrambi al rango di Cesari, designandoli come futuri imperatori. Probabilmente, Marco Aurelio sperava che una diarchia, come quella che aveva condiviso per anni con Lucio Vero, potesse garantire una maggiore stabilità a un Impero Romano che affrontava tempi difficili. Tuttavia, è possibile che non si rendesse ancora conto di quanto il carattere di Commodo avrebbe influito negativamente sul suo governo, passando alla storia come un sovrano capriccioso, megalomane, incline all’ira e al conflitto. E i segnali in tal senso iniziarono a manifestarsi molto presto…
ORIGINI E ASCESA AL TRONO
Commodo nacque nel 161 d.C. a Lanuvio, come figlio legittimo di Marco Aurelio. Sin dall’infanzia, ricevette un’educazione raffinata, arricchita dalla profonda cultura e dal rispetto per la filosofia del padre. Il suo futuro era già scritto: a soli 19 anni, accompagnò Marco Aurelio nell’ennesima campagna militare lungo il confine danubiano contro le tribù dei Quadi e dei Marcomanni. Fu proprio durante questa campagna, nel 180 d.C., mentre Commodo era già co-reggente, che Marco Aurelio morì.
Ancora oggi aleggia il dubbio su come Marco Aurelio sia morto, con alcuni sospetti che suggeriscono l’intervento del figlio ambizioso. Commodo, già da bambino, aveva mostrato un carattere instabile, più portato alla violenza e al piacere che alla moderazione. Erodiano, uno dei cronisti più autorevoli, descrive: “Il popolo romano non guardava più a Commodo con benevolenza, ma attribuiva le continue disgrazie alle sue uccisioni indiscriminate e alla sua vita dissoluta.” Inizialmente, tuttavia, Commodo riuscì a conquistare l’approvazione del popolo e dell’esercito, in parte grazie alle generose elargizioni con cui si assicurò la lealtà dei soldati appena divenuto imperatore, una strategia tipica dell’epoca.
Nonostante ciò, Commodo non veniva considerato abile o benevolo, e persino Marco Aurelio, suo padre, sembra essere stato deluso dal suo comportamento. Cassio Dione riporta: “Solo una cosa gli [a Marco Aurelio] impedì di essere completamente felice: dopo aver dato al figlio la migliore educazione possibile, ne restò profondamente deluso. La nostra storia scende così da un regno d’oro a uno di ferro e ruggine”. Uno dei primi atti di Commodo, piuttosto che proseguire la politica paterna, fu abbandonare la campagna militare lungo il Danubio che Marco Aurelio aveva quasi concluso vittoriosamente. Nonostante il parere contrario dei generali, Commodo tornò a Roma, siglando un trattato di pace considerato da molti storici particolarmente sfavorevole. Il trattato garantiva ai barbari la restituzione dei prigionieri e la riconsegna dei territori appena conquistati, in cambio di un limitato supporto militare.
Pur avendo rinunciato a una vittoria militare, Commodo sapeva come ottenere il consenso popolare e puntò sui giochi gladiatori per conquistare l’entusiasmo del popolo.
IL GOVERNO DI COMMODO: TRA GIOCHI E SPETTACOLI
Commodo passò alla storia per la sua energia e la sua passione per i giochi gladiatori, a cui amava prendere parte in prima persona. A differenza di altri imperatori, come Lucio Vero o Caligola, che partecipavano a spettacoli in forma privata, Commodo desiderava essere visto, applaudito e amato come un vero eroe dell’arena, riflettendo una megalomania simile a quella di Nerone. Era noto per le sue “imprese eroiche”, combattimenti con gladiatori e animali feroci in cui risultava sempre vincitore — anche grazie al fatto che i suoi avversari avevano armi spuntate. Un personaggio centrale nella sua vita e nel suo addestramento da gladiatore fu Narcisso, un ex combattente molto presente nella corte imperiale fino alla fine dell’imperatore.
Commodo si esibì in ben 735 spettacoli nell’arena e, talvolta, si presentava con la pelle di leone e la clava, vestito come un novello Ercole (lo ritrae così un magnifico busto ai Musei Capitolini). Con il suo fisico robusto e muscoloso, era perfetto per le venationes, le cacce agli animali feroci, tanto amate dal pubblico romano. Erodiano racconta che una volta abbatté cento animali con altrettanti giavellotti, mostrando una mira impeccabile, e narra addirittura che avrebbe ucciso un leone a mani nude. Autentici o meno, questi episodi contribuirono alla sua immagine di sovrano straordinario.
Commodo seppe conquistare il favore del popolo grazie a spettacoli e divertimenti, ma non godette dello stesso successo con il Senato e l’esercito. Il Senato, in particolare, divenne spesso bersaglio dei suoi scherzi e minacce. Cassio Dione narra che, dopo aver decapitato uno struzzo nell’arena, Commodo mostrò la testa dell’animale ai senatori, minacciando che avrebbero fatto la stessa fine. Impauriti, i senatori furono costretti a rispondere con un’esclamazione di ammirazione collettiva, preparata in anticipo, lodando Commodo con le parole: “Sei un dio, sei il primo, sei il più fortunato di tutti! Sei e sarai sempre vincitore! Tu, o Amazonio, vinci sempre!”.
È chiaro come Commodo governasse con la convinzione di essere superiore a chiunque, delegando la gestione quotidiana dell’impero alla corte e dedicando tutto il suo tempo ai piaceri e a ostentare la propria forza. Uno degli aspetti più pericolosi del suo regno fu la pratica di redigere una lista di proscrizione. Ossessionato dal timore di complotti — una paura non infondata — Commodo reagiva con estrema durezza: se sospettava, anche solo vagamente, che qualcuno, specialmente tra la classe senatoria o l’aristocrazia, potesse congiurare contro di lui, il nome del malcapitato finiva sulla lista. Questo permetteva all’imperatore di ordinare l’esecuzione o l’esilio dell’accusato e di confiscare le sue ricchezze.
Commodo trascorreva le sue giornate o nell’arena o nel suo palazzo, immerso in eccessi, soprattutto sul piano sessuale, in modo sfrontato e stravagante. Si dice che abusasse delle sorelle e delle concubine e che mantenesse un harem di centinaia di giovani, sia ragazze che ragazzi, uno scandalo senza precedenti per un imperatore romano. Non sorprende, quindi, che il Senato e l’esercito, il quale Commodo trascurava preferendo altri passatempi, iniziassero a cercare modi per liberarsi di lui. Le congiure si moltiplicarono, alimentate da una crescente avversione per questo despota instabile.
CONGIURE E ULTERIORI STRAVAGANZE
La più significativa congiura contro Commodo (a parte quella finale che gli costò la vita) fu quella del 182 d.C. Questo episodio è emblematico dell’esasperazione della classe senatoria e persino della sua famiglia. L’organizzatrice fu infatti Lucilla, sorella di Commodo, che incaricò il suo amante e senatore Quinziano di eseguire l’attentato. Quinziano riuscì a entrare nel palazzo imperiale e, avvicinandosi a Commodo con un pugnale, proclamò: “Ecco il pugnale che ti manda il Senato.” Questo avvertimento fu fatale per i congiurati, poiché permise a Commodo, dotato di grande agilità e forza fisica, di evitare l’attacco e di far arrestare Quinziano. La repressione fu spietata: Lucilla e le sue parenti furono esiliate a Capri (e successivamente uccise), mentre Quinziano e altri senatori coinvolti furono giustiziati.
Con il tempo, anche il popolo, inizialmente favorevole, iniziò a distaccarsi dall’imperatore. Erodiano racconta come, durante una delle sue esibizioni, “Commodo scese nudo nell’arena, armato da gladiatore, combattendo davanti a un pubblico che assisteva a uno spettacolo ripugnante: un imperatore romano… disonorava la sua dignità con abiti disdicevoli.” Questo episodio è indicativo del crescente disgusto tra i cittadini romani, che non vedevano più in Commodo un degno sovrano.
Le stravaganze di Commodo, al limite della follia, continuarono a diffondersi a Roma. Si racconta che ordinò il massacro degli abitanti di una città intera per una singola offesa ricevuta, e che fece gettare uno schiavo in un forno per avergli servito acqua bollente. La tensione culminò con l’incendio del 192 d.C., che distrusse il Tempio della Pace e il Tempio di Vesta. Dopo questo evento, Commodo decretò che Roma sarebbe stata rinominata Colonia Commodiana, e cambiò il nome del mese di luglio in suo onore, ribattezzando persino le legioni con appellativi come “commodiane erculee”. Per i romani, queste azioni vennero interpretate come segni di una punizione divina per la condotta dissoluta dell’imperatore, segnando un declino irreversibile. La sua morte, ormai, era solo questione di tempo.
LA CONGIURA FINALE E LA MORTE DI COMMODO
Nel 193 d.C., Commodo ideò un’ennesima provocazione: la cerimonia di giuramento dei nuovi consoli non avrebbe avuto luogo in Senato, ma in una scuola di gladiatori. Questa decisione sollevò un’ondata di indignazione, a cui molti membri della corte si opposero apertamente. Tra questi vi erano Leto, il prefetto del pretorio; Ecletto, l’intendente di corte; e Marcia, la concubina prediletta dell’imperatore e devota cristiana, che si dichiarò apertamente contraria. Commodo, furioso, aggiunse i nomi dei tre alla sua personale lista di proscrizione. La lista fu ritrovata da un giovane servitore, che la consegnò a Marcia. A quel punto, salvare la propria vita e Roma significava soltanto una cosa: la morte di Commodo.
La congiura scelse una soluzione subdola, pianificando di avvelenare l’imperatore durante il banchetto dedicato al giuramento dei consoli. Tuttavia, secondo Cassio Dione, che fu tra i congiurati, “lo smodato consumo di vino e i bagni eccessivi impedirono che soccombesse; vomitò qualcosa.” I vizi di Commodo gli evitarono la morte per avvelenamento. La situazione richiedeva allora un intervento diretto, e così Narcisso, uomo di fiducia dell’imperatore, si fece avanti per completare l’opera. Quella stessa sera, Narcisso strangolò Commodo, che forse iniziava già a sospettare della congiura, ma ormai era troppo tardi. Narcisso fu scelto non solo per la fiducia che Commodo riponeva in lui, ma anche per la forza fisica che lo rendeva all’altezza del compito.
Con la morte dell’imperatore, il trono fu offerto a Pertinace, il console in carica, gradito al Senato. Egli accettò solo dopo essersi assicurato della morte di Commodo, che incuteva timore persino da defunto. La gioia del Senato fu tale che dichiarò Commodo hostis publicus, riservandogli la damnatio memoriae, già subita da imperatori ritenuti folli e immorali come Caligola, Nerone e Domiziano. Commodo passò così alla storia come un despota sconsiderato, il cui ricordo Roma preferì cancellare. Le parole conclusive della Historia Augusta rendono il giudizio definitivo su di lui:
“Che il ricordo dell’assassino e del gladiatore sia cancellato del tutto. Lasciate che le statue dell’assassino e del gladiatore siano rovesciate. Lasciate che la memoria dell’osceno gladiatore sia completamente cancellata. Gettate il gladiatore nell’ossario. Ascolta, o Cesare: lascia che l’omicida sia trascinato con un gancio, alla maniera dei nostri padri, lascia che l’assassino del Senato sia trascinato con il gancio. Più feroce di Domiziano, più turpe di Nerone. Ciò che ha fatto agli altri, sia fatto a lui stesso. Sia da salvare invece il ricordo di chi è senza colpa. Si ripristinino gli onori degli innocenti, vi prego.”