L’imperatore Tito, amore e delizia del genere umano

L'imperatore Tito

Di Tito si ricordano soprattutto le sue imprese militari, su tutte la conquista definitiva di Gerusalemme, la sua ascesa al trono, sino a diventare il decimo imperatore romano, la sua dinastia in quanto membro della Gens Flavia, nonché il suo buon governo (almeno secondo le fonti storiche). Sta di fatto che, in generale, forse Tito Flavio Cesare Vespasiano Augusto, questo il nome completo, fu anche sfortunato perché governò per poco meno di tre anni, dal 79 all’81 d.C., un triennio connaturato anche da tragedie e da eventi storici di non facile soluzione. In generale però una frase di Svetonio può, in parte, riassumere l’eredità storica di Tito: “Amore e delizia del genere umano”.

LE ORIGINI FAMILIARI E LE GUERRE
Ovviamente le fortune di Tito cominciarono quando il padre Vespasiano, nel 69 d.C., fu proclamato imperatore dopo un momento particolarmente difficile per l’Urbe, quando dalla morte di Nerone avvenuta l’anno precedente ben 4 imperatori si succedettero in rapida successione. Dunque l’ascesa di Vespasiano al trono non fu facile, ma certamente una volta indossata la porpora imperiale il figlio Tito ebbe la strada spianata verso il potere, anche perché con Vespasiano si rafforzò notevolmente quel legame di sangue necessario per la successione al trono. Tito nacque nel 39 d.C. in una casa sul Palatino, ed i solidi rapporti con la famiglia imperiale dell’epoca (con il padre che già godeva di una certa stima tra i ranghi imperiali), gli permisero sin dalla tenera età di frequentare la corte e le stanze del potere. Peccato che ciò a volte si può rivelare uno svantaggio, in quanto nel 55 d.C., quindi ancora adolescente, fu anche lui vittima della probabile congiura che portò alla morte del giovane Britannico (quarto figlio di Claudio, allora imperatore, avuto dal matrimonio con Messalina). Quest’ultimo fu probabilmente avvelenato durante una cena, sebbene la sua dipartita venne fatta passare per un attacco di epilessia, un avvelenamento che, suo malgrado, colpì anche il giovane Tito che era uno dei commensali di quella serata nonché grande amico di Britannico. Per sua fortuna si ristabilì e poté continuare a ricevere un’educazione di tutto rispetto, sia dal punto di vista scolastico che militare. Nonostante non avesse un fisico particolarmente prestante, tanto che Svetonio lo descrisse come un uomo che “aveva un bell’aspetto, pieno di dignità e di grazia; una forza straordinaria sebbene non fosse molto alto e avesse il ventre grosso”, Tito ebbe modo di farsi valere sui campi di battaglia, ripercorrendo le orme paterne e cominciando sin da subito ad avere un grande ascendente presso le fila dell’esercito, un bacino di potere che gli fu molto utile in seguito.

Alla fine degli anni ’50 del I secolo d.C. Tito fu prima tribuno militare nelle terre germaniche per poi essere spostato in Britannia, territorio difficile da assoggettare soprattutto dopo la rivolta guidata da Boudicca, che diede molto filo da torcere ai Romani. In quegli anni Tito cominciò a farsi davvero vedere e valere, tanto che in quella provincia pare che molti furono gli onori che a lui vennero tributati, tra cui l’erezione di statue. Ciò dimostra quanto il giovane, in un contesto in cui anche il padre cominciava a godere di una grande stima non solo nei ranghi militari, pareva davvero mettere a frutto tutto ciò che aveva imparato nel corso della sua educazione. Tito, infatti, secondo la storiografia si distinse non solo per valore ma anche per onore, ponderatezza e temperanza. In quello che si può riassumere come un vero e proprio panegirico, Svetonio ci lascia scritte anche altre qualità appartenenti a Tito il quale, a leggerle, pareva che non potesse che essere destinato che a grandi cose: “[Tito] aveva una memoria meravigliosa, molta abilità nel maneggio delle armi e dei cavalli, una conoscenza profonda delle lettere greche e latine […] si intendeva anche di musica; cantava e suonava con leggiadria e perizia”. Un uomo apparentemente perfetto che fu solo scalfito dalla cosiddetta Congiura dei Pisoni, che nel 65 d.C. fu scoperta dall’imperatore Nerone, il bersaglio dei congiurati. Qualche tempo prima, infatti, Tito si era sposato con Marcia Furnilla dalla quale divorziò poco dopo e, soprattutto, poco prima che la famiglia di quest’ultima fosse pesantemente invischiata nella congiura. Chissà se Tito aveva davvero pensato di farne parte, fatto sta che era ormai all’orizzonte la campagna militare che lo proiettò nella memoria collettiva, dei romani e non solo: la guerra in Giudea.

L'imperatore Tito

Il mondo romano nell’80 durante il principato di Tito. Di Cristiano64 – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6137811

LA CAMPAGNA GIUDAICA
Nel 66 d.C. Nerone decise di risolvere alla radice i problemi in Giudea, una provincia da sempre ostile alla dominazione romana. Vespasiano dunque partì con lo scopo di sedare per sempre ogni istanza di ribellione, con l’obiettivo di fare piazza pulita arrivando a conquistare anche Gerusalemme. Tito partì con lui, e già un anno dopo cominciò a farsi notare quando con un drappello di uomini tentò di penetrare a Gomala, cittadina posta già da tempo sotto assedio dall’esercito romano. Un attacco in parte fallito perché Tito fu visto dai difensori, ma un’azione che certamente gli valsero ulteriori onori, come quando in precedenza guidò personalmente un gruppo di 600 cavalieri per conquistare il villaggio di Tarichee, una roccaforte giudaica. Qui le fonti ci fanno capire come Tito fosse non solo uno stratega e generale, ma anche un uomo capace di toccare le corde giuste dei suoi uomini. Quando, infatti, nel corso della campagna contro Tarichee Tito si accorse che i giudei erano in maggioranza, il figlio di Vespasiano non demorse e con la più classica delle adlocutio alla romana rinvigorì l’animo dei suoi uomini. Uno stralcio del discorso fatto da Tito ai suoi commilitoni ce lo lascia proprio Giuseppe Flavio, un uomo che passò tra le fila dei romani nonostante fosse un giudeo. Lo storico così scrisse, riportando le parole del generale: “Romani, vi chiamo Romani poiché inizierò questo mio discorso ricordandovi qual è la vostra patria […] A cosa poi servirebbero le continue esercitazioni se dovessimo preoccuparci della disparità numerica quando dobbiamo affrontare un nemico non adeguatamente preparato alle arti militari? […] Le guerre non si vincono con enormi masse di uomini, anche se bellicose, ma con il valore […]”. Stralci di un discorso che, con la sua tipica retorica militare, riuscì a far passare l’idea che Tito fosse effettivamente l’uomo giusto al posto giusto, il generale in grado di guidare Roma alla conquista di un territorio sempre più ostile ed ostico da assoggettare.

Ma la vera impresa che rese il nome di Tito immortale (e purtroppo ricordato con dolore anche dalla comunità ebraica), fu la distruzione di Gerusalemme e del tempio della città avvenuta nel 70 d.C. con Tito alla guida dell’intero contingente romano nella regione. Due anni prima, infatti, Nerone morì e si aprì la corsa al trono che, in parte inaspettatamente, vide Vespasiano in prima fila, con il padre di Tito che abbandonò il terreno di battaglia per affrontare una guerra altrettanto frustrante e dura come quella per la conquista della porpora imperiale. La città di Gerusalemme pareva inespugnabile con la sua impenetrabile triplice cinta difensiva, ma alla fine Tito riuscì nell’impresa, un momento storico di grande rilevanza ricordato, con alcune modifiche, da diverse fonti storiche. In particolare però dobbiamo a Giuseppe Flavio la cronaca diretta di ciò che accadde e di come Tito riuscì a penetrare a Gerusalemme superando la triplice cinta muraria nonché la tenacia e la resistenza dei giudei, che non si persero mai d’animo cercando in tutti i modi di fermare l’avanzata romana. In particolare gli scontri si accesero proprio a ridosso delle mura, quando i giudei tentarono in tutti i modi di distruggere le temibili macchine d’assedio romane. Ma Tito diede un’ulteriore prova del suo coraggio e di come, al pari del padre, fosse un uomo d’azione e non un generale che sostava sempre nelle ultime file. Giuseppe Flavio stesso racconta che, in quei momenti, “Tito in persona abbatté dodici giudei delle prime file, e mentre gli altri ripiegavano, Cesare li inseguì cacciandoli verso la città, salvando dalle fiamme i lavori. In questa battaglia fu fatto prigioniero un giudeo, e Tito ordinò di crocifiggerlo davanti alle mura per generare terrore di fronte agli altri e costringerli alla resa”, dimostrando quindi fermezza agli occhi dei romani, quando era necessario. Troppo lunga sarebbe, per questa sede, narrare tutte le vicende che portarono all’apertura di brecce nella triplice cinta muraria, fatto sta che alla fine Tito, con i suoi soldati, penetrò nel cuore stesso di Gerusalemme, facendo ben pochi prigionieri e, soprattutto, arrivando anche a distruggere il celeberrimo Tempio, l’edificio più importante della città. Ancora oggi ci sono dubbi sulla reale volontà, da parte del figlio di Vespasiano, di voler saccheggiare completamente il Tempio, come effettivamente avvenne. Non sappiamo neanche bene se Tito non riuscì a frenare la volontà sfrenata dei suoi commilitoni nel punire pesantemente quei ribelli che tanti guai avevano provocato ai romani. Fatto sta che alla fine la battaglia campale a Gerusalemme ebbe termine, e dopo pochissimi anni l’intera campagna giudaica terminò, certamente con un grande dispendio di uomini e risorse. Sempre secondo Giuseppe Flavio, infatti, la guerra cominciata nel 66 d.C. e portata a termine da Tito provocò più di un milione di morti, nonché quasi 100.000 prigionieri. Non solo, poiché a seguito del vittorioso assedio la stella di Tito cominciò a brillare di luce propria, soprattutto con alcune sue decisioni che furono bene apprezzate dai soldati. Giuseppe Flavio, ad esempio, scrisse che “Tito diede ordine a chi era preposto a farlo di leggere i nomi di tutti quelli che avevano compiuto particolari gesti di valore durante la guerra. E quando questi si facevano avanti egli, chiamandoli per nome, li elogiava, si congratulava con loro delle imprese compiute […]”.

La distruzione del Tempio di Gerusalemme, Francesco Hayez, olio su tela, 1867 (Accademia di belle arti, Venezia)

Non ci dobbiamo dunque sorprendere se Vespasiano, divenuto comunque imperatore già in età avanzata, non perse tempo nell’associare il figlio al potere ed alle varie magistrature, tanto che Tito divenne prima console (70 d.C.) poi censore (biennio 73 – 74 d.C.) oltre a ricevere la potestà tribunizia che rendeva intoccabile la sua persona. Insomma per Tito la strada verso il potere assoluto era ormai segnata, nonostante ci fosse in particolare uno scandalo che, per un po’, oscurò la sua fama, uno scandalo che prese il nome di Berenice. Costei era figlia di Agrippa II, Re della Calcide, una principessa dunque che, però, aveva un unico problema per l’ottica romana: era ebrea. Tito la conobbe dopo il divorzio dalla già citata Marcia Furnilla, intraprendendo una relazione che si rivelò alla luce del Sole quando già era matura ed assodata, tanto che Berenice venne a Roma solo nel 75 d.C. Questo rapporto provocò un profondo malumore tra le fila dei patres, senatori che non vedevano di buon occhio una situazione che, per loro, poteva riproporre lo stesso imbarazzo, nonché pericolo, suscitati dalla relazione tra Marco Antonio e Cleopatra VII, quando una principessa straniera rischiava di avere una seria voce in capitolo sull’esistenza stessa dell’Urbe. Dunque, nonostante Berenice dormisse con Tito nelle sue stanze, alla fine la ragazza fu allontanata. Probabilmente a malincuore, il figlio di Vespasiano dovette prendere questa decisione per non creare attriti con quel Senato che, da quel momento, comprese davvero come Tito potesse essere un buon romano nonché buon imperatore. Quando Svetonio scrisse che “tante furono le sue (di Tito) intelligenza, abilità e fortuna ricevute per conquistarsi il favore di tutti”, è sicuro che il favore del Senato accrebbe dopo l’allontanamento di Berenice. Oramai era tutto pronto, e quando nel 79 d.C. Vespasiano morì Tito, con naturalezza, fu proclamato imperatore. Sembrava che per l’Urbe ci dovesse essere un futuro radioso e glorioso, ma purtroppo così non fu.

LA SFORTUNA DI TITO E LA SUA MORTE
Tito governò Roma per quasi tre anni, dal 79 all’81 d.C., un periodo segnato da alcune tragedie che, sicuramente, non resero giustizia alle intenzioni, apparentemente benevole, che Tito aveva in serbo per Roma. Infatti in questo triennio tre calamità colpirono l’Urbe e l’Impero tutto:

  1. 79 d.C.: l’eruzione del Vesuvio che causò la distruzione di Pompei, Ercolano, Oplontis e Stabia tra le altre. In quest’occasione Tito dimostrò, ancora una volta, di essere particolarmente magnanimo e giusto, poiché dalle fonti veniamo a sapere che personalmente l’imperatore si recò nelle zone colpite per aiutare quanto più possibile, istituendo anche una commissione che avrebbe dovuto, in tempi brevi, racimolare e gestire i finanziamenti adatti alla ricostruzione.
  2. 80 d.C.: un’epidemia di peste colpì Roma, un flagello che uccise circa 10.000 persone
  3. 80 d.C.: un incendio scoppiò nell’Urbe, durando tre giorni e tre notti. In quell’occasione non solo morirono centinaia, se non migliaia di persone, ma distrusse o colpì duramente tutta l’area del Campo Marzio nonché edifici monumentali ed importanti come il Pantheon, il Tempio di Giove Capitolino o il Teatro di Balbo.

Si comprende dunque quanto difficile fosse stato per Tito governare un mondo che, ai suoi occhi, poteva apparirgli quasi ostile. Forse il destino gli era avverso, forse qualcun altro forzò molto la mano, fatto sta che Tito morì a Rieti, nella stessa villa in cui trapassò il padre Vespasiano, il 13 settembre dell’81 d.C. Come spesso capita quando si tratta della morte di un imperatore, anche in questo caso non abbiamo un’idea precisa di cosa sia successo, tanto che le voci su una morte non accidentale si sprecano. Pare, infatti, che una forte febbre lo colpì, forse febbre malarica, un malanno che lo debilitò talmente tanto, e velocemente, da fargli incontrare la morte dopo poco tempo. Molte fonti, come Svetonio o Cassio Dione, in qualche modo insinuano che la morte sopraggiunse per avvelenamento, atto orribile ordito dal fratello minore Domiziano. Se così fosse non ci dovremmo troppo sorprendere, perché forse Tito stava facendo talmente tanto bene che Domiziano poteva avere paura di non raggiungere mai la sua stessa gloria e fama o, forse, il fratello minore semplicemente non vedeva l’ora di prendere il potere, anche a scapito della vita del congiunto. Dopotutto l’Urbe stessa nacque a seguito di un fratricidio, dunque non ci dovremmo sorprendere più di tanto se le cose fossero davvero andate così. Ebbe così termine la vita di un uomo che, ben prima di diventare imperatore, ebbe modo di far molto parlare di sé, un uomo capace di assoggettare una città come Gerusalemme, che sembrava inespugnabile. Un generale di cui fidarsi, un condottiero capace di grandi gesta e di avere l’appoggio incondizionato dei soldati, un sovrano retto e giusto. Un uomo che governò solo tre anni, intensi certamente, che purtroppo furono in parte cancellati dalle gesta del suo successore, Domiziano. Un uomo, il nostro Tito, che però lasciò in eredità a Roma tantissimo, soprattutto dal punto di vista architettonico ed urbanistico, tanto che alcuni monumenti a lui legati ancora oggi sono non solo celebri, ma anche simboli della lunga storia di Roma.

L'imperatore Tito

Busto di Tito, 80. Di Sailko – Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30590321

TITO E LA SUA IMPRONTA SU ROMA
Tito, non dimentichiamocelo, fu colui che portò a termine la campagna giudaica, una guerra costata molto dal punto di vista militare e per il numero di uomini che persero la vita ma che, allo stesso tempo, permise a Tito e prima di lui al padre Vespasiano di progettare una nuova e monumentale Roma, usando senza mezzi termini i tesori provenienti dalla Giudea. Si pensi in primo luogo all’Anfiteatro Flavio, il cui cantiere si aprì nel 72 d.C. e che fu inaugurato nell’80 d.C. durante il regno di Tito. Soprattutto Marziale, con i suoi epigrammi, contribuì a farci comprendere quanto grandioso fu lo spettacolo che l’imperatore offrì all’apertura del Colosseo, un anfiteatro in muratura capace di ospitare decine di migliaia di romani che rimasero per secoli ammaliati dagli spettacoli lì messi in scena. Un’iscrizione presente su un frammento d’architrave, ed oggi visibile all’interno del Colosseo, chiarisce ancor di più quanto il simbolo per eccellenza di Roma fu completato grazie ai tesori presi da Gerusalemme e portati a Roma: “amphitheatrum novum ex manibus (…) fieri iussit” (“realizzò [Vespasiano] il nuovo anfiteatro con i proventi del bottino di guerra”). Difatti l’inaugurazione dell’edificio sarebbe dovuta, probabilmente, essere celebrata sotto Vespasiano, il quale purtroppo morì. Infatti in questa iscrizione si nota come una T fosse stata aggiunta in seguito, così da inserire il prenome di Tito. Un altro monumento legato al nostro imperatore è l’arco trionfale che ne porta il nome, un omaggio innalzato nell’area del Foro Romano dal fratello Domiziano in onore del suo predecessore. Un monumento, è bene dirlo, di cui ci rimane integro ed originale il fornice, mentre tutto il resto della struttura fu ricostruita solo nell’800. Nonostante tutto i bassorilievi visibili nell’Arco di Tito ci raccontano, in piccolo, quanto possente e grandioso fu il trionfo che Tito ebbe a Roma, al suo ritorno da Gerusalemme. Una processione di schiavi, prigionieri di guerra ma, soprattutto, tesori su tesori che furono utilizzati per abbellire l’Urbe ma, anche, per comunicare ai cittadini romani quanto l’Urbe fosse potente e ricca. Giuseppe Flavio ci racconta delle sue sensazioni in merito a quel trionfo che lui visse in prima persona, un corteo che “non si può raccontare e descrivere la magnificenza dello spettacolo”, un tripudio di oggetti sacri e preziosi davvero impressionanti: “baldacchini rappresentanti addirittura edifici con tre piani […] un gran numero di navi […] l’ultima delle spoglie fu la tavola con le Leggi di Dio” e la celeberrima menorah, una delle reliquie più importanti per la comunità giudaica di cui, ancora oggi, non ne conosciamo bene il destino. Ma Tito lasciò in eredità anche le sue Terme, costruite riutilizzando, così come avvenne per il Colosseo, edifici ed aree della preesistente Domus Aurea. Oppure come non citare anche il Foro della Pace con il suo tempio, i giardini ed i portici, un progetto urbanistico di spiccata qualità architettonica anch’essa resa possibile dai proventi della campagna in Giudea.

L'imperatore Tito

Roma, Arco di Tito. Di Cassius Ahenobarbus – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43685947

Tito dunque contribuì a monumentalizzare Roma, da una parte per continuare nell’opera di demolizione della memoria neroniana, dall’altra per celebrare sé stesso e la sua dinastia. Tito fu, alla fine, un imperatore che tentò in tutti i modi di seguire le orme paterne e che, se fosse riuscito a vivere più a lungo, avrebbe forse potuto fare davvero grandi cose. Alla fine, quando ormai sentiva che la vita lo stava abbandonando, pare che Tito avesse esclamato che non aveva alcun rimpianto “a eccezione di una cosa sola”. Quale poteva essere il rimpianto di un uomo che apparentemente aveva avuto tutto dalla vita (gloria e onore in primo luogo)? Forse la chiusura forzata del suo rapporto con Berenice, donna che magari amava davvero? Forse la presunta relazione adulterina avuta con Domizia, la moglie del fratello Domiziano? O magari, parlando sempre del congiunto, non aver fatto poi molto per impedire a Domiziano di diventare suo successore (visto che non lo considerava degno o pronto)? Non lo sapremo mai.

Gianluca Pica

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