Attilio Regolo e la virtù romana

Attilio Regolo e la virtù romana

La figura di Marco Attilio Regolo continua a vivere tra leggenda, tradizione e realtà, intrecciando mito e storia. Quest’uomo, attivo nel III secolo a.C., è considerato uno dei protagonisti della prima vittoria romana contro Cartagine, una serie di scontri prolungati per decenni e noti come la Prima Guerra Punica, il primo confronto marittimo che portò Roma a espandere il proprio dominio oltre i confini della penisola italiana. Attilio Regolo si colloca in questo contesto, rappresentando quel tipo di leader che dedicò la vita a far prevalere Roma, anche a costo di grandi sacrifici.

LE ORIGINI E I PRIMI CONFRONTI CON CARTAGINE

Marco Attilio Regolo nacque nella zona di Sora, a sud di Roma, tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C. Fu sia politico che comandante militare in un periodo in cui la giovane Repubblica aveva bisogno di figure forti per guidare Roma verso nuove conquiste. Tra le sue imprese si ricorda il periodo in cui, da console nel 267 a.C., insieme a Lucio Giulio Libone, ottenne il controllo della Puglia. Questa conquista fu cruciale, poiché Brindisi, una delle città sottomesse, divenne per secoli la principale porta di accesso romano verso l’Oriente. Da questo porto partirono generazioni di personaggi illustri, da Crasso a Settimio Severo, diretti verso i confini orientali dell’Impero.

Pur raggiungendo importanti incarichi pubblici, Attilio Regolo non proveniva da una famiglia patrizia ma da origini plebee. Il suo percorso dimostra come, almeno in teoria, nella Roma repubblicana anche i non patrizi potessero aspirare a ruoli di potere e prestigio, premiando il valore e il merito individuale. Regolo incarnò così l’esempio di chi, grazie a una carriera impeccabile e a un cursus honorum rigorosamente rispettato, riuscì a diventare una delle figure più influenti della Roma dell’epoca.

La campagna d’Africa di Marco Atilio Regolo del 256-255 a.C. – Di Cristiano64 – derivative work from Eric Gaba (Sting) – File:Tunis_Gulf_topo_map-fr.svg, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=28195928

La carriera di Marco Attilio Regolo non subì una flessione; infatti, dopo il suo primo consolato nel 267 a.C., ebbe nuovamente l’opportunità di ricoprire la carica nel 256 a.C., questa volta come suffectus, ovvero come sostituto di Quinto Cedicio, uno dei consoli dell’anno, deceduto prima del termine dell’incarico. Regolo si trovò quindi a capo di una flotta imponente, costituita da numerose navi e quattro legioni di soldati, con un obiettivo chiaro: affrontare ancora una volta Cartagine, il principale avversario di Roma, con cui contendeva il controllo della Sicilia. Dopo aver ottenuto vittorie significative in Sicilia, come la conquista di Messina e Agrigento, Roma si preparava a puntare direttamente al cuore del nemico: Cartagine stessa.

Per questo scopo, venne allestita una grande flotta, che nelle intenzioni del Senato avrebbe dovuto confrontarsi con la temibile marina cartaginese. Nonostante la poca esperienza nei combattimenti navali, Roma riuscì a mettere insieme una forza marittima di notevoli dimensioni. Lo storico greco Polibio descrive con precisione le due flotte: i Romani, con 360 navi lunghe, salparono e si ancorarono a Messina, proseguendo lungo la costa siciliana fino a Capo Ecnomo, dove le loro truppe di terra erano già stanziate. I Cartaginesi, con 350 navi, si posizionarono presso Lilibeo e poi sbarcarono a Heraclea Minoa. A Capo Ecnomo ebbe luogo una delle battaglie navali più imponenti dell’antichità, in cui i Romani ottennero una vittoria clamorosa, distruggendo 64 navi nemiche a fronte delle loro 24.

Successivamente, per la prima volta, le legioni romane si spinsero in Africa, avanzando fino a Clupea, nella penisola di Capo Ermeo, e occupando anche l’area della moderna Tunisi, tagliando le linee di rifornimento di Cartagine. La situazione appariva favorevole alla pace, tanto che si avviarono i primi negoziati. Tuttavia, i due consoli al comando non condividevano la stessa visione strategica, una divergenza che provocò un temporaneo arresto nella brillante parabola di Attilio Regolo, poiché la campagna non proseguì come previsto.

LE SCELTE DI ATTILIO REGOLO, TRA CORAGGIO E FOLLIA

Nel 256 a.C., Lucio Manlio Vulsone Longo, collega console di Attilio Regolo, fece ritorno a Roma con una parte consistente della flotta su ordine del Senato, che probabilmente mirava a contenere i costi di una guerra sempre più logorante in termini di risorse e vite umane. Con trattative di pace in corso e Regolo con le sue truppe stanziato nelle vicinanze di Cartagine, molti senatori iniziavano a considerare la possibilità di porre fine al conflitto. Era ormai autunno inoltrato, e la carica di console fu prorogata per Attilio Regolo. Tuttavia, Regolo aveva idee del tutto divergenti rispetto a quelle del Senato: la sua strategia era di attaccare con decisione, sfruttando la momentanea debolezza delle forze cartaginesi per infliggere loro una sconfitta definitiva e affermarsi come un eroe popolare. Conquistare Cartagine non solo avrebbe sventato per sempre la minaccia punica, ma avrebbe accresciuto enormemente il suo prestigio personale, un obiettivo non raro tra i comandanti romani dell’epoca.

Senza aspettare i rinforzi o ulteriori disposizioni da Roma, Regolo decise di avanzare direttamente verso Cartagine per renderla inoffensiva. Tuttavia, Cartagine si era già riorganizzata sotto la guida del generale spartano Santippo, un abile stratega che, secondo Polibio, comprese che la sconfitta dei Cartaginesi era da attribuire più alla loro inesperienza che all’invincibilità romana. Santippo riformò le truppe cartaginesi e preparò un piano che cambiò le sorti della battaglia.

Nei pressi di Tunisi, i due eserciti si scontrarono nuovamente, ma questa volta le forze romane non riuscirono a prevalere: la cavalleria cartaginese si rivelò superiore, e l’esercito romano subì una pesante disfatta. Regolo stesso fu fatto prigioniero, portando a un drammatico rovescio della situazione. Con un console romano catturato, Cartagine si ritrovò in una posizione di forza nelle trattative di pace, potendo avanzare richieste favorevoli per porre fine alle ostilità.

A questo punto termina la parte storica del racconto e inizia quella che sfuma nella leggenda, sottolineando le qualità morali del vir romano, pronto a sacrificare tutto per Roma. Secondo la tradizione, Regolo avrebbe incarnato questi ideali, preferendo il sacrificio personale alla resa o al compromesso. Racconti successivi, più mitici che storici, celebrano il suo coraggio e l’amore per la patria, rendendo Attilio Regolo un simbolo di fedeltà assoluta verso Roma.

LA DECISIONE DI ATTILIO REGOLO E IL MITO CHE NE DERIVÒ

Le testimonianze sul destino di Attilio Regolo, dopo la sua cattura, ci vengono in parte da Tito Livio, uno degli storici romani più influenti, sebbene la sua narrazione risalga a molti secoli dopo i fatti e sia spesso permeata da un’intensa retorica volta a esaltare le virtù romane. Secondo Livio, i Cartaginesi scelsero di inviare Regolo a Roma affinché negoziasse con il Senato uno scambio di prigionieri e la fine delle ostilità. Regolo giurò che, qualora la missione fosse fallita, sarebbe tornato a Cartagine per affrontare la morte. Questo viaggio di Regolo non avvenne immediatamente, ma probabilmente circa cinque anni dopo la sua cattura, durante i quali ebbe modo di osservare da vicino le difficoltà economiche e sociali che la guerra stava infliggendo a Cartagine. Si dice che Regolo, convinto che Cartagine fosse prossima al collasso, partì per Roma deciso a scoraggiare qualunque trattativa di pace e a spingere il Senato a continuare il conflitto.

Tito Livio ci tramanda le parole di Regolo, il quale convinse il Senato a rifiutare la pace e lo scambio di prigionieri, ritenendo che accettare la proposta avrebbe vanificato i sacrifici fatti dai giovani legionari caduti. Per lui, la sua vita contava poco di fronte al destino di Roma e alla prospettiva di una vittoria decisiva contro Cartagine. Di ritorno in patria, tuttavia, Regolo si comportò non come un reduce finalmente libero, ma come un emissario in missione: rifiutò di incontrare la famiglia e mantenne fermamente la sua parola di tornare a Cartagine, rispettando il giuramento fatto ai suoi carcerieri.

Anche Cicerone, commentando la vicenda, evidenzia il senso di onore e dovere di Regolo: “[Attilio Regolo] Fu inviato al Senato sotto giuramento, con la promessa di tornare a Cartagine se non fossero stati restituiti ai Cartaginesi alcuni prigionieri nobili. A Roma, trovandosi di fronte a ciò che poteva sembrare utile, come restare in patria con la famiglia e mantenere il rango di console, egli ritenne che tutto ciò fosse ingannevole: giudicò che il dovere e l’onore venissero prima della propria salvezza.”

Regolo tornò dunque a Cartagine, accettando il suo destino e trovando la morte. La sua storia divenne una leggenda di sacrificio e amor di patria, esemplificando l’ideale romano di virtù e dedizione che sarebbe stato celebrato e tramandato nei secoli come simbolo dell’onore incrollabile dei cittadini dell’Urbe.

LE PRESUNTE TORTURE DI ATTILIO REGOLO

La storia di Attilio Regolo non termina qui, poiché vi è ancora un mistero che circonda le circostanze della sua morte, raccontata in modi diversi dalle fonti antiche. In epoca imperiale, la figura di Regolo venne avvolta in un alone leggendario e sfruttata per fini di propaganda politica, esaltando il valore del vero romano fin dai primi giorni della sua ascesa. Questo rese naturale raccontare la fine di Regolo nel modo più cruento possibile, sia per sottolineare la crudeltà dei Cartaginesi, giustificando così l’operato “civilizzatore” di Roma, sia per glorificare l’eroico sacrificio di un uomo che aveva accettato la morte più dolorosa per il bene della sua patria.

Aulio Gellio, vissuto nel II secolo d.C., riporta nelle sue Notti Attiche una versione della fine di Regolo tramandata dal giurista Tuberone nel I secolo a.C.: “Tuberone nelle Storie racconta che lo stesso Regolo tornò a Cartagine e fu sottoposto a torture innovative dai Punici: ‘Lo rinchiusero,’ afferma, ‘in prigioni oscure e profonde e, quando il sole era al massimo della sua forza, lo portavano fuori, costringendolo a fissare i raggi solari, cucendogli le palpebre per impedirgli di chiudere gli occhi’.” Questo tormento, noto come abbacinamento, fu praticato non solo dai Cartaginesi ma anche in seguito dai Bizantini, ed è solo una delle tante versioni sulla sua morte eroica e dolorosa.

Seneca e Anneo Floro, entrambi vissuti nel II secolo d.C., offrono invece un’altra versione, secondo cui Regolo morì crocifisso. Floro scrive: “Ma la sua onorabilità non venne meno né per il suo volontario ritorno tra i nemici, né per il supplizio della crocifissione; anzi, divenne ancora più ammirabile per tutto questo.” La crocifissione, un metodo di esecuzione riservato agli schiavi, rese Regolo ancora più degno di onore, avendo subito una morte tanto degradante per la gloria di Roma. Tertulliano, poeta e scrittore cristiano, trovò persino un parallelismo tra il sacrificio di Regolo e il coraggio dei martiri cristiani, paragonando la sua accettazione della crocifissione a quella dei primi cristiani durante le persecuzioni.

Le differenti versioni della morte di Regolo, ciascuna più cruenta dell’altra, continuano a raccontare una figura romana simbolo di coraggio e sacrificio, e divennero un esempio dell’eroismo romano, celebrato per secoli come un emblema di virtù indomabile.

LA VENDETTA DELLA FAMIGLIA DI ATTILIO REGOLO: ONORE O BARBARIE?

Un ultimo aspetto da considerare, sebbene secondario rispetto alle gesta di Attilio Regolo, getta una luce interessante sulla cultura romana e su come i Romani vedevano sé stessi. Secondo alcune fonti antiche, tra cui Diodoro Siculo, Anneo Floro e Aulio Gellio, si narra che, dopo aver appreso della tragica morte di Regolo a causa delle torture cartaginesi, la sua vedova e i suoi figli avrebbero sfogato la loro sete di vendetta su due nobili cartaginesi prigionieri a Roma durante la Prima Guerra Punica. Questi due prigionieri, Amilcare e Bodostare, tenuti sotto sorveglianza proprio dalla famiglia di Regolo, sarebbero stati lasciati senza cibo né acqua per diversi giorni. Al sopravvissuto, Amilcare, sarebbe stata inflitta un’agonia ancora più crudele, ricevendo piccole quantità di cibo ogni giorno per prolungare la sua sofferenza.

La storia racconta persino che la famiglia di Regolo avrebbe infierito anche sui corpi senza vita dei due sventurati. Se questi racconti fossero veri, e in effetti diverse fonti li menzionano, essi rappresenterebbero una condanna unanime da parte dei Romani stessi, per i quali tali azioni sarebbero state contrarie ai principi di civiltà romana. Secondo i valori romani, un cittadino degno non si sarebbe mai abbassato a tali gesti, contrari all’immagine dei Romani come portatori di leggi, ordine e razionalità. Diodoro Siculo scrive in proposito: “Poco mancò che i parenti stretti di Attilio Regolo non fossero condannati alla pena capitale per avere disonorato con la loro ferocia il nome romano.”

Ma ci si potrebbe chiedere: e se la figura eroica di Regolo, che torna a Cartagine per affrontare la morte, fosse stata mitizzata proprio per “coprire” la vergogna di un atto tanto crudele compiuto dalla sua famiglia? È possibile che il sacrificio di Regolo sia diventato leggenda per oscurare la vergogna di una vendetta così spietata? Un dubbio che lascia aperta la riflessione sulla complessità della morale romana.

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