Dinastia Giulio-Claudia

Dinastia Giulio-Claudia
AUREO DI TIBERIO – Di cgb – http://www.cgb.fr/tibere-aureus,v34_0421,a.html, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30630108

La dinastia giulio-claudia comprende la famiglia che ha dato i natali ai primi cinque imperatori di Roma, al potere dall’anno 27 a.C. fino al 68 d.C., quando il suo ultimo esponente, Nerone, si tolse la vita con l’aiuto di un liberto. Il termine “giulio-claudia” deriva dai nomi di due famiglie distintive a cui appartenevano alcuni degli imperatori: Gaio Giulio Cesare Ottaviano, noto come Augusto, primo imperatore e fondatore dell’Impero Romano, era stato adottato da Giulio Cesare e apparteneva alla gens Iulia; Tiberio Claudio Cesare Germanico, meglio conosciuto come Claudio, quarto imperatore, era invece membro della gens Claudia. Quest’ultimo fu il primo a non entrare nella gens Iulia tramite adozione, poiché il suo predecessore, Caligola, aveva interrotto tale tradizione adottiva.

Tiberio

Augusto scelse il suo successore seguendo la pratica dell’adozione, una soluzione spesso privilegiata per garantire la continuità dinastica. Poiché non disponeva di discendenti diretti e gli altri possibili candidati erano venuti a mancare, la scelta ricadde su Tiberio, figlio che sua moglie Livia aveva avuto da un precedente matrimonio. Per consolidare ulteriormente il legame dinastico, Tiberio fu dato in sposo a Giulia, figlia di Augusto, e successivamente adottato dallo stesso imperatore. Questo intreccio di legami, tipico delle famiglie aristocratiche romane, univa Tiberio alla gens Giulia, già resa prestigiosa dall’adozione di Augusto da parte di Giulio Cesare. Nato nella nobile gens Claudia, Tiberio acquisì così anche il prestigio della gens Giulia, giustificando l’uso del termine “dinastia giulio-claudia” per indicare gli imperatori fino a Nerone nella storiografia moderna.

«[Augusto] poiché volle in qualche modo frenare le intemperanze di Lucio e di Gaio, conferì a Tiberio la potestà tribunizia per cinque anni, e gli assegnò l’Armenia, che dopo la morte di Tigrane era diventata ostile. Gli toccò però entrare inutilmente in urto sia con i nipoti che con Tiberio, con i primi perché ritennero di essere stati declassati, con il secondo perché iniziò a temere il risentimento di loro. In ogni caso Tiberio fu mandato a Rodi con la scusa di aver bisogno di un periodo di insegnamento, […] affinché fosse lontano da Lucio e da Gaio, sia dalla loro vista sia dalla loro portata. […] Questa è la ragione più vera del suo allontanamento, anche se c’è una versione in base alla quale fu anche la moglie Giulia il motivo per cui aveva fatto ciò, dato che non riusciva più a sopportarla. […] Altri dissero che Tiberio era indispettito per il fatto che non aveva ricevuto anche il titolo di Cesare, mentre secondo altri ancora era stato cacciato da Augusto stesso sulla base del fatto che stava ordendo un complotto contro i suoi figli [Gaio e Lucio].» (Cassio Dione, Storia romana, LV,9,4-5 e 7.)

Tiberio, in carica dal 14 al 37 d.C., dedicò il suo regno al consolidamento delle frontiere, alla riorganizzazione dell’amministrazione e al rafforzamento del potere centrale, riuscendo anche a contenere gli sprechi e a migliorare le finanze imperiali. Nonostante questi risultati, storici come Tacito e Svetonio, favorevoli alla Repubblica, trasmisero un ritratto negativo di Tiberio, spesso enfatizzandone i tratti autoritari, in linea con la loro ostilità verso il sistema imperiale. I critici gli attribuirono incoerenza politica, sottolineando come avesse inizialmente rifiutato alcune cariche assunte da Augusto, un gesto che però potrebbe essere interpretato come una strategia per mantenere il consenso del Senato, nel rispetto della tradizione repubblicana della gens Claudia, storicamente vicina all’assemblea senatoriale.

La sua scarsa popolarità peggiorò ulteriormente nel 19 d.C., quando fu accusato, senza prove certe, di essere coinvolto nella morte per avvelenamento del nipote Germanico, amatissimo generale romano. Il suo regno fu segnato da una serie di congiure e complotti, aggravati dall’assenza di una chiara linea ereditaria, che alimentava le ambizioni di chi aspirava al trono. Per contrastare queste minacce, Tiberio instaurò un regime repressivo, diventando sempre più sospettoso e alienandosi dall’ambiente romano. Questo atteggiamento lo spinse, nel 26 d.C., ad abbandonare la corte e trasferirsi sull’isola di Capri, dove visse in una sontuosa villa continuando a governare tramite il prefetto del pretorio, Seiano.

Tuttavia, quando Seiano stesso fu coinvolto in una cospirazione per usurpare il potere, Tiberio reagì con estrema durezza, intensificando le misure repressive e soffocando ogni segnale di insubordinazione. Gli ultimi anni del suo governo furono caratterizzati da un clima di crescente paranoia e controllo, lasciando un’eredità controversa nella storia dell’Impero Romano.

Alla salute perpetua di Augusto e alla Libertà del popolo romano, per la Provvidenza di Tiberio Cesare, figlio di Augusto, per l’eternità della gloria di Roma, [essendo stato] eliminato il pericolosissimo nemico.» (Dedica del Senato a Tiberio.)

SESTERZIO DI CALIGOLA – Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=29068141

Caligola

«Quando Gaio, dopo la morte di Tiberio Cesare, assunse il potere […] tutto il mondo, dall’alba al tramonto del sole, tutti i paesi da questa parte ed al di là dell’Oceano, tutte le persone romane e tutta l’Italia e anche tutte le nazioni asiatiche ed europee se ne rallegrarono.» (Filone di Alessandria, De Legatione ad Gaium)

Sebbene Tiberio avesse designato entrambi i suoi nipoti come possibili successori, il Senato decise di affidare il trono a Caligola (37-41 d.C.), figlio del celebre e compianto Germanico. Tuttavia, il giovane imperatore si dimostrò incapace di soddisfare le aspettative legate al suo lignaggio, passando alla storia come uno dei sovrani più crudeli e imprevedibili di Roma. È ricordato per aver condannato a morte senza processo i suoi oppositori, incrementato in modo pesante le tasse e imposto un culto personale che lo venerava come una divinità.

La figura di Caligola è spesso associata a squilibri mentali, una condizione che potrebbe spiegare alcune delle bizzarrie attribuitegli, come la famosa leggenda secondo cui avrebbe voluto nominare senatore il suo cavallo. Questi comportamenti, veri o esagerati, alimentarono le paure di coloro che temevano che l’Impero Romano si trasformasse in un regime autocratico di stampo orientale. Le tensioni interne aumentarono al punto che si cercò di bilanciare la crisi con una politica estera più attiva: in Palestina, ad esempio, venne concessa una tetrarchia ad Agrippa, e il regno di Commagene fu restituito ad Antioco IV per decisione di Caligola.

Nonostante questi sforzi, molte delle iniziative di Caligola si rivelarono fallimentari. La spedizione sul Reno rimase incompiuta e il tentativo di conquistare la Britannia si trasformò in un clamoroso fiasco. Le fonti dell’epoca, pur limitate, riportano dettagli su come Caligola dissipò il patrimonio accumulato da Tiberio, spendendo enormi somme in donazioni per spettacoli e distribuzioni al popolo, ma anche per soddisfare le sue eccentricità. Questo comportamento consolidò la percezione del suo governo come una tirannia ispirata ai modelli orientali, una prospettiva che suscitava il disprezzo del Senato, il quale nutriva diffidenze simili già dai tempi di Augusto.

«Divenuto adolescente, era abbastanza resistente alle fatiche, ma qualche volta, colto da un’improvvisa debolezza, poteva a mala pena camminare, stare in piedi, e a stento poteva ritornare in sé e reggersi. Lui stesso si era accorto del suo disordine mentale e più di una volta tanto che pensò spesso di ritirarsi e curare il proprio cervello.» (Svetonio, Gaio Cesare, 50)

La politica giudiziaria di Caligola può essere suddivisa in due fasi distinte. Nella prima, il suo approccio fu relativamente liberale e favorevole al popolo, cercando anche di ottenere il sostegno del Senato. Successivamente, però, si trasformò in un sovrano sempre più autoritario, concentrando il potere nelle sue mani e adottando uno stile di governo improntato a un assolutismo monarchico. Questo gli permise di accumulare ricchezze e di esercitare un controllo arbitrario sul destino dei cittadini romani.

Con l’ordine equestre in declino numerico, Caligola chiamò a raccolta da tutto l’impero, anche da fuori Italia, uomini di alto lignaggio e grande patrimonio, integrandoli nell’ordine equestre. Per alcuni, desiderosi di accedere al Senato, anticipò addirittura l’assegnazione della toga senatoria, bypassando le cariche magistratuali tradizionalmente richieste. Tentò inoltre di ridare alle assemblee popolari un ruolo almeno formale, permettendo alla plebe di riunire nuovamente i comizi.

Tuttavia, il suo regno fu segnato da violenze contro gli oppositori e da azioni politiche che avevano come obiettivo l’umiliazione del Senato e della nobiltà romana. Famosissimo è l’aneddoto, riportato da Svetonio e Cassio Dione, secondo cui Caligola progettava di nominare console il suo cavallo prediletto, Incitatus, un gesto provocatorio che, pur non concretizzandosi, simboleggia il suo disprezzo per le istituzioni tradizionali.

Il suo comportamento tirannico e imprevedibile portò a una serie di complotti, tutti sventati tranne l’ultimo. Negli ultimi anni del suo regno, il suo stato mentale peggiorò visibilmente, accompagnato da un probabile declino fisico dovuto a una malattia degenerativa. La sua gestione dell’Impero diventò insostenibile, fino a quando, il 24 gennaio del 41 d.C., fu assassinato in una congiura orchestrata dai pretoriani, guidati dai tribuni Cassio Cherea e Cornelio Sabino. Nell’attacco furono uccise anche la sua consorte, Milonia Cesonia, e la figlia, Giulia Drusilla.

«Di giorno… parlava in segreto con Giove Capitolino, ora sussurrando e porgendo a sua volta l’orecchio. Ora a alta voce e senza risparmiargli rimproveri. Infatti si sentirono le sue parole di minaccia. o tu elimini me o io te, finché non si lasciò persuadere – a sentir lui – dall’invito a condividere la sede e collegò i palazzi imperiali del Palatino al Campidoglio con un ponte che passava sopra il tempio del Divino Augusto» (Svetonio, Vite dei Cesari, Gaio Cesare, XXII)

DIDRACMA DI CLAUDIO – Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10392201

Claudio

«Dopo l’uccisione di Caligola… Claudio suo zio… cinquantenne… divenne imperatore per uno strano caso. Infatti, trascurato dagli uccisori di Caligola, avendo quelli portato via il numero dei congiunti e dei servi di questo, egli s’era nascosto in una sala di nome Ermeo. Non molto dopo, spaventato dal rumore della porta, proseguì verso il vicino solarium e si nascose dietro alle tende davanti all’ingresso. Qui, essendosi tenuto nascosto ancora, un soldato semplice, visti i piedi lo tirò fuori mentre Claudio si inginocchiava per il timore, ma riconosciutolo, lo salutò imperatore. Poi lo condusse dagli altri soldati, esitanti e frementi. Posto dai suoi sulla lettiga, fu portato nell’accampamento, triste e trepidante, mentre la folla che incontravano lo commiserava, quasi stesse per essere giustiziato pur essendo innocente. Ricevuto entro il vallo, pernottò tra le tende dei soldati, temendo più che sperando. Invero all’indomani, reclamando il popolo una guida per lo Stato, fu salutato da tutti imperatore.» (Svetonio, Vite dei Cesari, V, 10.)

Claudio (41-54 d.C.) fu il primo imperatore romano a salire al potere grazie a un colpo di Stato di natura militare, orchestrato da un gruppo di pretoriani che lo proclamarono imperatore mentre il Senato era impegnato a discutere sulla successione di Caligola. La scelta di Claudio sembrava dettata principalmente dalla necessità di garantire la continuità dinastica, poiché non godeva di una buona reputazione, essendo noto più per la sua dedizione agli studi che per l’impegno politico. Tuttavia, durante il suo regno, Claudio si rivelò un sovrano competente, riuscendo a consolidare l’autorità imperiale. Pur non avendo esperienza amministrativa o politica, dimostrò capacità come riformatore, semplificando la burocrazia e curando l’edilizia pubblica.

Claudio si impegnò attivamente anche nell’ambito legislativo, partecipando con regolarità ai tribunali e promulgando un gran numero di editti, in alcuni casi decine in un solo giorno. Sul fronte religioso, si mostrò generalmente tollerante, restaurando il collegio degli haruspices e celebrando i Ludi Saeculares in occasione dell’ottocentenario della fondazione di Roma, nel 47 d.C. Nel 49, ampliò il pomerio, includendo l’Aventino e parte del Campo Marzio. Nonostante la sua apertura verso i culti provinciali, fu severo con il druidismo, che soppresse completamente, mentre con gli ebrei adottò una politica ambivalente: se da un lato ripristinò la libertà di culto e li esentò dal culto imperiale, dall’altro espulse la comunità ebraica da Roma a causa di conflitti interni.

Tra le opere pubbliche realizzate durante il suo regno, spiccano il completamento degli acquedotti iniziati da Caligola, l’Aqua Claudia e l’Anio Novus, e il restauro dell’Aqua Virgo. Claudio promosse anche la costruzione di infrastrutture come strade e canali, tra cui un canale navigabile lungo il Tevere che terminava a Portus, il nuovo porto a nord di Ostia. Questo porto, dotato di moli semicircolari, granai e un faro monumentale, divenne un simbolo della città.

In politica estera, Claudio si distinse per l’avvio della conquista della Britannia nel 43 d.C., un’impresa che consolidò l’espansione dell’Impero. Tuttavia, il suo regno fu segnato da conflitti con la nobiltà, che lo portarono a condannare a morte diversi senatori, erodendo il consenso tra le élite.

La sua vita privata fu altrettanto turbolenta. La terza moglie, Messalina, fu giustiziata con l’accusa di aver complottato contro di lui, mentre la sua quarta moglie, Agrippina, passò alla storia come una figura manipolatrice. Secondo le fonti, sarebbe stata proprio Agrippina a orchestrare la sua morte per avvelenamento nel 54 d.C., al fine di garantire l’ascesa al trono del figlio Nerone, avuto da un precedente matrimonio.

SESTERZIO DI NERONE – Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17226971

Nerone

Nerone (54-68 d.C.) è ricordato come uno dei peggiori imperatori romani. Gli storici dell’epoca, come Tacito e Svetonio, ci offrono il ritratto di un uomo profondamente disturbato, il cui equilibrio mentale, già fragile, fu ulteriormente compromesso dall’ascesa al potere a soli 17 anni. La sua giovane età, unita al violento stratagemma con cui succedette a Claudio, influenzò profondamente il suo regno, alimentando in lui una paranoia costante che lo portò a vivere nel timore per la propria sicurezza.

Questa sfiducia cronica lo rese patologicamente sospettoso, spingendolo a vedere potenziali nemici ovunque. Nessuno era immune alla sua crescente diffidenza: tra le sue vittime figuravano amici fidati, consiglieri, sua madre Agrippina e due delle sue mogli. La seconda, Poppea, perse la vita mentre era incinta, uccisa – secondo alcune fonti – direttamente per mano di Nerone stesso o per sua volontà esplicita. Questi episodi non solo segnarono la sua vita personale, ma contribuirono a consolidare la sua fama di sovrano crudele e instabile, lasciando un’impronta indelebile nella memoria storica.

«Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo» (Tacito, Annales, XV, 44)

Nerone è spesso ricordato come un artista frustrato e un sovrano il cui comportamento eccentrico e controverso ha sfiorato il grottesco. La sua presunta responsabilità nell’incendio del 64 d.C., che devastò gran parte di Roma, è simbolica della sua reputazione negativa: secondo la tradizione, avrebbe assistito all’incendio cantando e suonando, senza mostrare alcun segno di rimorso o preoccupazione. L’ultimo rappresentante della dinastia giulio-claudia fu anche l’artefice della prima persecuzione contro i cristiani, accusandoli di aver causato il disastro.

La storiografia moderna, tuttavia, ha cercato di approfondire il ritratto di Nerone, mettendo in luce anche le sue iniziative positive. Tra queste, si annoverano una riforma monetaria pensata per incentivare il commercio, il miglioramento degli approvvigionamenti alimentari e la ricostruzione di Roma dopo l’incendio. Cultore della civiltà orientale, Nerone sembra aver adottato un modello culturale improntato all’estetismo e a un esercizio del potere di stampo dispotico, caratteristiche che contribuirono sia al fascino che alla rovina del suo regno.

Le sue scelte politiche e personali lo resero inviso a tutte le classi sociali, dalla plebe agli aristocratici. Espropriò terreni nel cuore di Roma per erigere la monumentale Domus Aurea, un palazzo di lusso straordinario, ma i costi di questa costruzione furono coperti a scapito delle casse dello Stato, con tagli alla paga dei soldati e alla fornitura di grano per il popolo. Queste decisioni, unite a una crescente repressione dei suoi oppositori, consolidarono il malcontento generale. Personaggi di spicco come lo scrittore Petronio, il poeta Lucano e il filosofo Seneca – un tempo suo precettore e consigliere – furono vittime della sua vendetta.

In un momento di grande instabilità per il regno, Nerone si allontanò da Roma per trascorrere circa un anno e mezzo in Grecia, dove si dedicò alla partecipazione ai Giochi olimpici e a esibizioni artistiche come auriga, cantante, suonatore di lira e attore. Nonostante l’adulazione forzata che gli valse numerosi premi, questa assenza prolungata indebolì ulteriormente il suo governo. Durante la sua lontananza, una serie di rivolte scoppiò nelle province, trovando presto appoggio nel Senato e nella guardia pretoriana. Il culmine di questa crisi si ebbe nel 68 d.C., quando Nerone, abbandonato dai suoi sostenitori, scelse il suicidio, ponendo fine non solo alla sua vita, ma anche alla dinastia giulio-claudia.

«Morì a trentadue anni, nel giorno anniversario dell’uccisione di Ottavia e fu tale la gioia di tutti che il popolo corse per le strade col pileo. Tuttavia non mancarono quelli che, per lungo tempo, ornarono il suo sepolcro con fiori di primavera e fiori d’estate, e che esposero sui Rostri ora suoi ritratti con la pretesta addosso, ora degli editti, in cui, come se fosse ancora vivo, dichiarava d’essere in procinto di tornare per la rovina dei suoi nemici. E per di più, Vologeso, re dei Parti, quando mandò degli ambasciatori al Senato per riconfermare l’alleanza, pregò anche intensamente di onorare la memoria di Nerone. Infine, quando vent’anni dopo (io ero un adolescente), venne fuori un tale, di ignota estrazione, che si spacciava per Nerone, il nome di per sé godeva di tale favore presso i Parti che quest’uomo fu molto aiutato e che fu da loro riconsegnato a malincuore.» (Svetonio, Vite dei Cesari, Nero LVII)

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