Agricoltura e alimentazione della Roma arcaica

La conformazione geografica del territorio in cui sarebbe sorta Roma ha avuto un’influenza diretta sull’origine e sviluppo della città solcata a metà dal Tevere che costituiva linea di demarcazione tra il versante nord, popolato dagli etruschi, e quello sud propriamente laziale. La differenza tra culture divenne percepibile solo a partire dal IX-VIII secolo a.C., sebbene l’importanza del sito della futura Roma, in quanto crocevia culturale e logistico tra mare e entroterra, resta in tutta la sua evidenza. Per esempio, il commercio e trasporto del sale estratto alla foce del Tevere avveniva per un tratto lungo il corso del fiume e continuava sul percorso della futura via Salaria (via del sale) per raggiungere la Sabina.
Le trasformazioni dell’Italia nella prima età del Ferro si attuarono attraverso alcuni passaggi fondamentali come la riorganizzazione dell’economia pastorale che avvenne tra X e IX secolo a.C. Questo processo implicò tempi e modalità diverse a seconda delle regioni, ma risultò sostanzialmente compiuto attorno all’VIII secolo a.C., con il passaggio da uno stato di seminomadismo, con transumanza disorganizzata, a forme di crescente organizzazione con una transumanza in altura scandita da modalità e spazi meglio definiti, secondo caratteri riscontrati in particolare tra le genti umbro-sabelliche che, a partire da quest’epoca, iniziarono a porre le basi della loro cultura. Nell’immaginario dei popoli Italici era ben radicato, persistendo fino in epoca tarda, il senso «primavera sacra», che costituiva la memoria della trasmigrazione verso i pascoli estivi, divenuta successivamente la necessità di stanziarsi in modo permanente da parte di quelle popolazioni i cui luoghi di origine erano inospitali.
La pratica agricola nella Roma arcaica era limitata dal terreno poco idoneo e le scarse conoscenze delle tecniche di coltivazione e similmente tutto il Lazio arcaico era caratterizzato da un’economia povera. Gli studi nell’ambito della paleobotanica hanno dimostrato come diverse specie di cereali, soprattutto farro e orzo, fossero associate tra loro anche con leguminose, come la veccia che i Latini chiamavano farrago. La farrago assicurava la sussistenza rispetto a possibili calamità naturali che potevano danneggiare un raccolto ed è interessante verificarne il ciclo storico ad oggi noto. Infatti, da quello che tramandano gli scrittori di agricoltura romani, questa pianta, che era stata anticamente usata per l’alimentazione umana, fu riservata alla sola alimentazione animale in un’età più evoluta, tornando poi ad essere consumata dall’uomo in età medievale. Il farro era il cereale maggiormente coltivato in età arcaica e, mancando testimonianze dirette per ciò che riguarda la resa del seme, ogni tentativo di quantificazione ha solo il valore di ipotesi fondandosi su una comparazione con dati tratti da epoche diverse. Il farro veniva seminato più del grano ma la sua resa era inferiore determinando ovviamente minor produzione di farina. La scarsa produttività era aggravata dalla modesta estensione di terreno coltivabile e per questo motivo nella Roma arcaica l’approvvigionamento alimentare rappresentava un grande problema. Il farro veniva macinato solo dopo che era stato abbrustolito e battuto e la sua farina non sembra essere stata usata per la panificazione, venendo invece impiegata nella mola salsa (una specie di farina di grano tostato e salato) e soprattutto della puls, per molti secoli considerato il piatto tipico romano (in misura uguale agli odierni spaghetti) tanto che Romani erano chiamati dai Greci «mangiatori di puls».
Era sostanzialmente un piatto liquido o semiliquido, a metà tra una pappa e una farinata, costituendo un antenato diretto della nostra polenta. Nel contesto economico della Roma arcaica allevamento, di bestiame grande e piccolo, e agricoltura di sussistenza convivono e sono legate alle specificità del territorio in quanto attività interdipendenti e complementari: gli animali producevano il concime per preparare i terreni prima della semina ed erano anche impiegati per aiutare l’uomo nel lavoro. D’altro canto le rappresentazioni rese dai Romani delle attività dei loro avi non possono considerarsi rispondenti alla realtà e le fonti letterarie necessitano di un vaglio critico. Ad esempio, Varrone, nel suo trattato “L’agricoltura” del I secolo a.C., contribuì alla creazione del mito di Roma pastorale:
Chi nega che il popolo romano abbia avuto un’origine pastorale? Chi è che non sa che il pastore Faustolo fu la balia che allevò Romolo e Remo? Il fatto stesso che essi scelsero proprio i Parilia [il 21 aprile, giorno della fondazione di Roma, era una festa legata al mondo della pastorizia] come data per fondare la città non dimostra che erano pastori essi stessi? (Varrone, L’agricoltura II, 1, 9)
L’autore nei fatti è molto attento al rapporto reale tra agricoltura e pastorizia come si evidenzia in altri passaggi, in cui si legge la polemica nei confronti dei suoi immediati predecessori e contemporanei, a suo dire responsabili di aver attribuito un valore preminente all’agricoltura a favore della pastorizia. Varrone nei suoi scritti mostra l’influenza delle teorie greche sull’incivilimento umano: La Roma Repubblicana, all’indomani della sua instaurazione nel V secolo a.C., soffrì infatti una crisi dipesa della povertà di risorse agricole dell’area prossima alla città e il primo secolo di vita della Repubblica fu l’unico periodo in cui lo Stato romano non riuscì non riuscì a trarre vantaggio dalle sue conquiste per fare fronte ai bisogni alimentari dei cittadini. L’arrivo Volsci nel Lazio meridionale, fu un altro fattore che inasprì la situazione, in quanto privò Roma del controllo dell’agro pontino che costituiva l’unico territorio che potesse garantire rifornimenti di derrate alla Repubblica. La carestia e tensione sociale conseguenti a questo episodio cessarono un secolo dopo, quando lo Stato riuscì ad appropriarsi dell’area.