L’alimentazione e la cucina dell’antica Roma si distinguono per la loro straordinaria varietà: partendo da pasti semplici e frugali, ben presto si evolsero in sontuosi banchetti dove si assaporavano pietanze complesse, arricchite da spezie e aromi provenienti da ogni angolo dell’impero. Un’evoluzione continua dei gusti, che oggi potrebbe sorprenderci per la sua particolarità.
Tradizione culinaria nell’antica roma
La tradizione culinaria romana spesso celava gli ingredienti dei piatti, modificandone il sapore per stupire piacevolmente i commensali. Questa pratica serviva anche a camuffare il gusto non sempre gradevole di alimenti che, a causa della mancanza di tecniche di conservazione avanzate, non erano sempre freschi. Per raggiungere questo obiettivo, venivano impiegate spezie, erbe aromatiche e una vasta gamma di condimenti, capaci di alterare il sapore e nascondere gli odori meno piacevoli.
Fino al III secolo a.C., l’alimentazione dei romani era piuttosto semplice e basata sui prodotti della terra e della pastorizia. La dieta quotidiana comprendeva principalmente erbe selvatiche, verdure, legumi, olio, vino, uova, e carne ovina e suina, mentre la carne bovina era raramente consumata poiché i buoi erano riservati esclusivamente ai lavori agricoli. Tuttavia, con l’espansione territoriale e lo sviluppo dei commerci, i romani iniziarono a scoprire e utilizzare nuovi ingredienti nelle loro ricette, in particolare le spezie: il pepe, che progressivamente sostituì le bacche di mirto, divenne un elemento quasi onnipresente nelle pietanze. L’introduzione di nuovi ingredienti favorì anche l’emergere di abili cuochi specializzati in piatti complessi e portò alla stesura dei primi libri di cucina.
Un’importante testimonianza dei gusti gastronomici romani è il “De re coquinaria”, un autentico manuale culinario attribuito al patrizio Marco Gavio Apicio, vissuto nel I secolo a.C., che spese gran parte delle sue ricchezze per soddisfare la sua passione per la buona tavola. Questo libro descrive piatti a base di verdure, formaggi e legumi, ma anche ricette insolite con ingredienti esotici come pavoni, fenicotteri e gru. Alcune tecniche di cottura prevedevano la preparazione della selvaggina in diverse fasi: prima nell’acqua, poi nel latte, nell’olio e infine in salse speziate. Alcuni ingredienti erano indispensabili nella cucina romana: il garum, una salsa a base di interiora di acciughe, era tanto apprezzato che divenne un condimento fondamentale per piatti a base di pesce. Il succo di silfio, ottenuto da una pianta simile al finocchio oggi estinta, era talmente prezioso da essere venduto a prezzi elevatissimi.
I Romani avevano una predilezione speciale per le spezie, come zenzero, pepe e zafferano, che impiegavano abbondantemente nella preparazione di quasi tutti i loro piatti. Analogamente a oggi, i pasti principali dell’antica Roma erano tre. La giornata iniziava con lo ientaculum, consumato intorno alle otto del mattino, che consisteva in un bicchiere di latte o un biscotto intinto nel vino. Col tempo, si diffuse l’abitudine di fare una colazione salata, arricchita con formaggi e olive. Il pranzo, chiamato prandium, si consumava poco prima di mezzogiorno; era un pasto rapido, spesso consumato in piedi, e solitamente consisteva in avanzi freddi del giorno precedente. La cena rappresentava il momento principale della giornata: i patrizi la consumavano sdraiati sui triclini attorno a tavole imbandite con ricchezza. Si mangiava principalmente con le mani, che venivano sciacquate tra una portata e l’altra, mentre le zuppe venivano gustate con cucchiai.
I banchetti solenni, che iniziavano dopo le quattro del pomeriggio, erano suddivisi in tre fasi: la gustatio, un antipasto pensato per stuzzicare il palato, accompagnato da vino dolcificato con miele; la cena vera e propria, con piatti a base di pesce, selvaggina o maiale, serviti con vini robusti; e infine le secundae mensae, ovvero i dessert, tra cui frutta, creme e crustula (biscotti), accompagnati da vini dolci e leggeri. La preparazione dei cibi era affidata agli schiavi, ma i più ricchi si avvalevano anche di cuochi pagati, talvolta assunti appositamente per l’occasione (il capo cuoco era chiamato archimagirus). Durante la serata, gli ospiti erano intrattenuti con danze, musica e spettacoli improvvisati da attori. Le Candidae puellae, ovvero le schiave dalla pelle chiara e delicata, erano le compagne più ricercate durante i banchetti, mentre flautiste e ballerine erano spesso liberte di origine greca. Gli schiavi si occupavano di preparare i tavoli e servire le portate durante questi sontuosi banchetti.
Marziale ci descrive come, durante i sontuosi banchetti romani, quando gli ospiti erano ormai sazi, si dava inizio alla seconda parte della serata, nota come commissatio. Già durante la cena, il vino, spesso addolcito con miele, era stato consumato in abbondanza, e successivamente si continuava a bere vino diluito con acqua. La conclusione del banchetto prevedeva una cerimonia particolare in cui gli ospiti, seguendo le indicazioni del cerimoniere della commissatio, bevevano rapidamente una serie di coppe. Disposti in cerchio, iniziando dal più eminente tra loro, si passavano la coppa brindando, oppure dedicavano un brindisi collettivo a un ospite scelto, bevendo tante coppe quante erano le lettere che componevano i suoi tre nomi romani.
Nella cucina romana, il mosto o vino cotto veniva utilizzato frequentemente, spesso mescolato con miele, acqua o aceto, per conferire ai cibi una caratteristica colorazione scura durante la cottura. I piatti destinati ai più ricchi erano spesso complessi e richiedevano lunghe preparazioni in pentole. Tuttavia, proprio questi metodi di cottura, che facevano uso di pentole in alluminio o piombo, portavano frequentemente a disturbi gastrici tra le classi più agiate, che in alcuni casi sfociavano in malattie gravi o addirittura fatali. Ironia della sorte, l’alimentazione dei meno abbienti risultava paradossalmente più salutare, poiché si basava su cibi semplici, spesso consumati crudi.
I Romani preparavano bevande anche a partire dalla frutta, facendo fermentare pere, cotogne, melograni e datteri. Una delle bevande più rinfrescanti era l’idromele, noto anche come aqua mulsa, ottenuto mescolando una parte di miele con due parti d’acqua. Nelle abitazioni romane, lo spazio dedicato alla cucina era generalmente ridotto, tranne nelle grandi ville patrizie. In queste cucine vi era un piccolo forno per cuocere pane e focacce, un acquaio e alcuni fornelli inseriti in una struttura di mattoni che occupava una parete. I cibi venivano cotti su fornelli alimentati a legna o carbone. Gli strumenti utilizzati per cucinare comprendevano coltelli, spatole, cucchiai realizzati in legno, metallo o osso, frullini, setacci, spiedi, graticole, mortai e vari recipienti di diverse forme e dimensioni, realizzati in terracotta, argilla o bronzo. Le provviste venivano conservate in dispense e magazzini, mentre vino, olio, mosto e salse di pesce erano immagazzinati in anfore di terracotta. Le orci, invece, venivano utilizzate per conservare olive, frutta secca, legumi secchi, oltre a verdure e frutta.
Marco Gavio Apicio
Marco Gavio Apicio (25 a.C.-37 d.C.) è stato uno dei più celebri gastronomi dell’antica Roma, la cui influenza sulla cultura culinaria è ancora ricordata oggi. La sua passione per la cucina lo spinse a comporre il De re coquinaria, un’opera che è considerata la principale testimonianza della gastronomia romana, contenente centinaia di ricette, condimenti e tecniche di preparazione. Ma chi era Apicio e cosa lo ha reso così leggendario?
Apicio era un uomo di grande ricchezza, noto per il suo amore per il lusso e la raffinatezza. Non esitava a spendere ingenti somme per organizzare banchetti straordinari e ricercati. Si dice che possedesse una fortuna di cento milioni di sesterzi, una cifra strabiliante per l’epoca. Viaggiatore instancabile e curioso di nuovi sapori, esplorava il mondo alla ricerca di ingredienti esotici. Una leggenda racconta che si recò in Africa per assaggiare i gamberi fenici, ma, deluso dalle loro piccole dimensioni, tornò subito indietro. Un’altra volta si imbarcò verso la Spagna per gustare un pesce raro, ma morì prima di raggiungere la destinazione.
Apicio era anche amico e ospite di figure di spicco come Mecenate, Druso minore e persino l’imperatore Tiberio. Innovatore e sperimentatore, cercava costantemente di creare piatti nuovi e originali. Si dice addirittura che abbia inventato il foie gras, alimentando le oche con fichi secchi per ottenere un fegato più ricco.
Nonostante la sua vita lussuosa, Apicio non trovò la felicità. Quando si rese conto che la sua fortuna era scesa a “soli” dieci milioni di sesterzi, si sentì devastato. Temendo di non poter più mantenere il suo stile di vita opulento e preoccupato di perdere la sua fama, scelse di porre fine alla sua vita, ingerendo del veleno.
Il nome di Apicio non scomparve con la sua morte. La sua opera, il De re coquinaria, fu trasmessa attraverso i secoli, diventando una risorsa inestimabile per comprendere la cucina dell’antica Roma. Questo libro non solo racchiude numerose ricette, ma offre anche consigli pratici su vari aspetti della cucina, come la conservazione degli alimenti, i metodi di cottura, la pulizia e la presentazione dei piatti. Inoltre, sottolinea l’importanza dell’equilibrio nei condimenti, che dovevano essere armoniosi e adattarsi alle stagioni, alle occasioni e ai gusti individuali.
Tra le ricette più rinomate di Apicio si trovano preparazioni che riguardano salse, pesce, carni, verdure e dolci. Ecco alcune delle sue creazioni più celebri:
- Ius diabotanon in pisce frixo: una salsa piccante composta da pepe, cumino, coriandolo, origano, ruta, aglio, aceto, carota, miele, vino, garum e olio, ideale per accompagnare il pesce fritto.
- Pullum elixum ex iure suo: pollo bollito in una salsa ricca di ingredienti come pepe, cumino, timo, finocchio, menta, ruta, aglio, aceto, carota, miele, garum, olio e uova.
- Porcellum oenococtum: un maialino cotto al forno e insaporito con una salsa a base di olio, garum, vino, acqua, porro, coriandolo, pepe, origano, sedano, aglio, vino passito, amido e piperato.
- Patina de piris: una torta di pere cotte e schiacciate, arricchita con pepe, cumino, vino passito, garum, olio e uova, cotta al forno e spolverata di pepe.
- Ova frixa oenogarata: uova fritte servite con una salsa composta da garum, olio, vino o aceto, pepe e aglio.
Queste ricette mostrano la raffinatezza e la complessità della cucina romana, così come la maestria di Apicio nel combinare sapori e aromi per creare piatti memorabili.