21 febbraio – Feralia

Feralia

Secondo la maggior parte delle fonti antiche, con i Feralia, festeggiati il 21 Febbraio, si concludeva il periodo dei Dies Parentalis o Parentalia iniziato nove giorni prima.

Ovidio ha descritto un rituale compiuto per invocare la Dea Tacita Muta, in occasione di questa festa. Un’anziana donna, in rappresentanza della dea, stando seduta tra fanciulle giovani, doveva prendere con tre dita tre singoli grani d’incenso per lasciarli sotto la porta.  Dopodiché, l’anziana compiva un rito magico che iniziava masticando sette fave nere mentre univa alcuni fili di piombo a un fuso. Successivamente doveva cucire la bocca di un pesce, una menola, cospargerne la testa con della pece e poi con il vino, per poi trafiggere il pesce con un ago di bronzo e cuocerlo sul fuoco. Il vino rimasto veniva bevuto dalle donne che partecipavano al rituale, quella più anziana doveva infine lasciare il gruppo dopo aver pronunciato “ho incatenato lingue ostili e bocche nemiche”.

Gli oggetti e le azioni sopracitate avevano un preciso simbolismo: i grani d’incenso creavano un incantesimo di protezione dagli spiriti maligni, i fili di piombo rappresentavano i fili della vita e della morte degli esseri umani, i pesci dalla testa bruciata simboleggiavano le larve che infestavano il regno degli spiriti. Le fave nere venivano masticate per propiziare gli spiriti, non per allontanarli come durante il rito dei Lemuria.

Nel mito, la dea Tacita Muta era in origine una naiade, oppure una ninfa delle Camene secondo il culto istituito da Numa Pompilio, che forse si rifaceva al concetto pitagorico del silenzio, chiamata Lara o Lala.

Alla ninfa Lara venne tagliata la lingua da Giove, il quale voleva punirla rendendola muta, poiché lei aveva denunciato alla dea Giunone la tresca del dio con l’allora ninfa Giuturna. Oltre al tributo fisico, Giove dispose che Lara venisse portata negli Inferi. Il dio Mercurio, in qualità di psicopompo, fu incaricato di questo compito però, approfittò della disabilità della ninfa per violentarla durante il tragitto, e con essa concepì i Lari.

Tacita Muta divenne quindi una divinità infera, appartenendo al luogo silenzioso dove riposano i Taciti Manes, i defunti che non parlano. La dea veniva chiamata anche Acca, dal “suono” della lettera muta H, in qualità di madre dei Lari, che avevano il compito di vigilare sulle strade.

Gli antiquari romani indicano diverse ipotesi per l’origine del nome di questa festa. Una riporta il termine ferre, riconducibile all’usanza di portare il cibo ai morti. O alla parola inferiae, legata ai banchetti che venivano svolti nei pressi delle tombe dei propri cari e in loro compagnia, in una cerimonia dedicata agli Dei Mani (divinità infere); ma che può riferirsi anche al versare cibi e bevande sulle sepolture, dall’alto verso il basso. Oppure al verbo ferire (“colpire”), legato all’atto che si eseguiva durante i sacrifici di animali. O ancora dal sinonimo feralis, utilizzato in ambito religioso al posto di funereus per segnalare dei rituali funerari. Uno di questi era quello dei banchetti sulla tomba dei defunti, che si svolgevano di giorno, sia al momento della loro cremazione o inumazione, che per ogni anniversario della morte; poiché si credeva che in quei momenti i morti girovagassero fra i vivi.

Antonietta Patti
Archeologa


BIBLIOGRAFIA

  • Giovanni Lido, Liber de mensibus, III, 31;
  • A. Ferrari, Dizionario di Mitologia, UTET, Novara 2015;
  • Sesto Pompeo Festo, De verborum significatu, 57;
  • P. Ovidio Nasone, Fasti, libro II;
  • Plutarco, Βίοι Παράλληλοι (Vite parallele), Numa, VIII;
  • Lucio Anneo Seneca, Epistulae, CXXII;
  • Marco Terenzio Varrone,  De lingua Latina, libro VI, 13.

Foto anteprima: Di Sailko – Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=63741871

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