I Lupanari, le case d’appuntamento romane

Sin dall’inizio è importante chiarire che nell’antica Roma la prostituzione era un’attività regolamentata e completamente legale. Considerata un’aspetto routinario della vita quotidiana, la prostituzione non era vista negativamente dalla società romana, a differenza di quanto spesso accade oggi. Anche i membri della classe patrizia, desiderosi di mantenere l’anonimato, non esitavano a frequentare bordelli, camuffandosi se necessario. Persone di ogni status sociale, quindi, potevano liberamente frequentare prostitute, uomini o donne, senza temere ripercussioni morali, purché si comportassero con moderazione e autocontrollo.

Le regole che governavano la prostituzione miravano più al profitto che alla morale. Le lavoratrici e i lavoratori del sesso dovevano registrarsi presso l’ufficio dell’edile fornendo nome, età, luogo di nascita e pseudonimo. Un’aspirante prostituta che sembrava giovane e rispettabile poteva essere dissuasa dal funzionario incaricato, che tuttavia, in assenza di cambiamenti, le concedeva la licenza per esercitare la professione. Questo includeva la determinazione del prezzo e l’inserimento del suo nome nell’elenco ufficiale delle professioniste.

Pur essendo praticata da entrambi i generi, le testimonianze storiche indicano che la prostituzione femminile era più prevalente. Coloro che frequentavano i bordelli non erano visti come immorali, ma le prostitute stesse spesso subivano un marcato degrado sociale. Molte erano schiave o cittadine romane classificate come infami, ovvero individui privati della maggior parte dei loro diritti civili.

Di Chfono – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22540439

Quali erano i metodi con cui si praticava questa “professione”? In alcuni casi, una prostituta poteva operare in modo indipendente, affittando una stanza per svolgere il suo lavoro. Altre volte, poteva vivere sotto la protezione di una ruffiana o lena (termine da cui deriva “lenocinio”) o persino lavorare sotto la supervisione della propria madre. Questi arrangiamenti indicano che molte prostitute iniziavano la loro carriera come donne libere che, spinte da gravi difficoltà finanziarie, si orientavano verso la prostituzione. Altre lavoravano in bordelli o taverne gestite da un ruffiano, responsabile di attrarre clienti. Tuttavia, è importante notare che un notevole numero di queste donne erano schiave o ex schiave, rendendo ambigua la loro libertà di scelta in questo mestiere.

Come si identificavano le prostitute? Un distintivo peculiare delle prostitute romane era l’uso della toga, un indumento formalmente riservato ai cittadini maschi di Roma. In contesti più privati, le cortigiane potevano indossare vestiti colorati e lussuosi di seta trasparente. Secondo alcuni scrittori romani, le prostitute di estrazione sociale inferiore si presentavano quasi completamente nude ai loro clienti, con la nudità che, oltre a simboleggiare il piacere sessuale, era anche un segno di schiavitù, rappresentando la perdita della privacy personale.

Esaminiamo ora i “luoghi di lavoro”. I bordelli dell’epoca, noti come Lupanari (dal latino “lupa”, che significa prostituta), erano dedicati esclusivamente al piacere sessuale. La maggior parte dei lupanari consisteva in una singola stanza situata dietro una locanda. Le camere, chiamate cellae meretriciae, erano spartane, contenendo solitamente un letto di muratura con un materasso robusto. L’unico elemento decorativo erano le pitture murali erotiche che adornavano l’entrata. Ogni camera aveva sulla porta il nome della prostituta e una lista dei prezzi. Se la stanza era occupata, un cartello avvisava i clienti di attendere il loro turno.

I lupanari attiravano principalmente la plebe, ma non mancavano visite da parte dei patrizi. Gli ambienti erano malsani, spesso poco igienici e riempiti dal fumo delle lanterne.

Di Jerzy Strzelecki – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=89442117

Per garantire la visibilità del lupanare ai potenziali clienti, venivano esposte all’esterno insegne molto suggestive e provocatorie. Ad esempio, si poteva vedere un fallo disegnato con accanto la scritta “Hic habitat felicitas”, che significa “Qui abita la felicità”. Un’altra insegna mostrava quattro falli accompagnati da un bussolotto per giocare a dadi. Per attrarre ulteriormente la clientela, era pratica comune posizionare davanti al bordello alcune prostitute in abiti seducenti o addirittura in semi-nudità.

I lupanari erano particolarmente diffusi in specifiche zone di Roma, come la Suburra, un’area densamente popolata situata tra le pendici del Quirinale e del Viminale e le estremità dell’Esquilino. Vicino al Circo Massimo si trovavano altri bordelli, mentre l’imperatore Caligola ne gestiva uno esclusivo sul Palatino, frequentato dai romani più abbienti che preferivano evitarne di più affollati e meno igienici, dove si trovavano donne di alto rango e giovani liberi.

Il bordello più noto è probabilmente quello di Pompei, situato all’intersezione di due strade secondarie. Questo edificio si sviluppava su due piani: il piano terra e un primo piano raggiungibile tramite una scala stretta. Si ritiene che la costruzione risalga agli ultimi anni della città: una delle celle, infatti, ha conservato l’impronta di una moneta datata all’anno 72.

Il lupanare di Pompei presentava due ingressi che conducevano a una sala centrale, attorno alla quale si disponevano cinque stanze al piano terra e altrettante al primo piano, tutte dotate di letti in pietra e materassi, con porte in legno. Il piano terra era destinato alle classi meno agiate e agli schiavi, mentre il primo piano era riservato a clienti più facoltosi. Particolarmente interessanti erano i dipinti erotici situati sulle porte delle stanze, che illustravano i vari servizi offerti, con i relativi prezzi, variabili tra due e otto assi. Gli introiti andavano al proprietario del bordello, poiché le prostitute non avevano riconoscimento legale.

Oltre ai dipinti, sono state ritrovate numerose incisioni e graffiti sulle pareti delle celle, sia da parte dei clienti che delle prostitute. Tra le 120 iscrizioni scoperte, vi sono commenti volgari, reclami di clienti che lamentavano malattie veneree e i nomi di donne, spesso di origine orientale o greca. All’ingresso dei lupanari, incluso quello di Pompei, era possibile acquistare preservativi fatti con intestini di pecora essiccati, utilizzati principalmente per prevenire la trasmissione di malattie veneree. Questi presidi erano parte dell’equipaggiamento dei soldati romani, impiegati nelle campagne militari per proteggerli dalle malattie che potevano decimare interi eserciti.

Fonte: wikimedia.org

Le Spintriae erano gettoni romani molto specifici, impiegati per i pagamenti all’interno dei lupanari, ossia le case d’appuntamento dell’antica Roma. Su questi gettoni erano comunemente incise scene di natura erotica ben definite. Utilizzati per compensare le attività sessuali offerte dalle prostitute, questi gettoni venivano tipicamente fabbricati in ottone o bronzo e avevano le dimensioni simili a quelle di una moneta da 50 centesimi di euro attuale. Su un lato dei gettoni erano rappresentate fino a 15 diverse posizioni sessuali, incluse scene di coito e fellatio, mentre sull’altro lato erano incisi numeri romani da I a XVI. È interessante notare che su alcune di queste spintriae si può osservare la lettera “A”, che si ritiene indicasse il prezzo delle prestazioni in assi. Questi gettoni sono frequentemente scoperti durante scavi archeologici, particolarmente in aree vicine ai lupanari.

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