Commedie e tragedie del Teatro latino

Teatro latino

In Grecia il teatro era un rito incentrato sui valori politici e religiosi della polis. I Greci si riunivano in questo luogo per celebrare i miti antichi, puntualmente rivisitati dai diversi drammaturghi. Lo spettatore, quindi, a teatro imparava la storia degli Dei e degli eroi, e con essa i principi morali dell’esistenza, per rafforzare il senso della comunità civica. Il teatro latino è nato nelle campagne laziali molti secoli prima che si possa parlare di una vera e propria attività teatrale in Roma (ciò che avvenne nel IV sec. a. C.).

Analogamente a quanto accadeva in molte altre culture della penisola italica, i contadini, in occasione di importanti ricorrenze del calendario agricolo, quali l’aratura o la mietitura, concludevano le loro fatiche celebrando delle feste, ovvero i ludi. Il termine ludi riassume in sé l’insieme delle processioni, dei sacrifici, delle gare (equestri o atletiche), e d’ogni altra azione rituale compiuta in onore degli dei e per divertimento degli uomini nel corso di una determinata festa. Tra le azioni rituali che completavano il cerimoniale c’era molto spesso una rudimentale forma di teatro. In questi contesti rituali, nacque la «licenza fescennina», cioè la libertà di parola propria dei fescennini. I fescennini erano dei contrasti, cioè degli alterchi tra personaggi: in versi improvvisati, e perciò metricamente scorretti, pieni di insulti e di volgarità, accompagnati da una mimica elementare ma allo stesso tempo comicamente aggressiva e intonata all’oscenità delle parole.

L’origine contadina della comicità rituale ci aiuta a cogliere una caratteristica essenziale della festa antica. Essa era infatti un momento (o periodo) di distacco dal quotidiano, un’attività che l’uomo dedicava non già a sé stesso, bensì agli dei. Nel tempo speciale della festa l’uomo “lavorava” per il dio, tutto ciò che faceva era per la divinità: ivi compreso il lasciarsi andare senza freno allo sfogo del represso, vale a dire di tutti quegli elementi che il comportamento “civile” tende normalmente a rimuovere dalla prassi quotidiana.

L’evento decisivo per l’introduzione ufficiale delle rappresentazioni teatrali nei ludi a Roma cade, secondo la tradizione, nel settembre del 365 a. C. In quell’anno – racconta lo storico Tito Livio – era scoppiata in città una violentissima pestilenza. Per scongiurare un’ira divina che pareva implacabile, si fece ricorso, in un primo tempo, alla cerimonia del lectisternium, che consisteva nell’imbandire un sontuoso banchetto agli dei maggiori, i quali, in figura di statue o simboli equivalenti, «si sdraiavano», o meglio «venivano fatti sdraiare sui letti [da tavola]» a loro destinati. Tale cerimonia era giudicata così solenne ed efficace, che era stata celebrata, in precedenza (cioè dalla fondazione di Roma), solo altre due volte. Ma questo non servì a placare la violenza dell’epidemia, e si dovette ricorrere a forme rituali straniere.

Ed ecco che entrano in gioco gli Etruschi, dai quali il teatro romano prese alcuni elementi. Giunsero a Roma quindi dei ballerini (ludiones) dall’Etruria, i quali, muovendosi al suono del flauto, eseguirono con «somma grazia» una danza di purificazione: ancora un altro esempio di performance mimico-musicale utilizzata in una circostanza religiosa a difesa della comunità, questa volta per riottenere dagli dei una benevolenza temporaneamente perduta. Nemmeno questo tentativo risultò essere efficace, infatti la pestilenza continuò anche l’anno successivo.

Ma a qualcosa quella danza etrusca era comunque servita. Si tramanda infatti che i giovani romani, sino ad allora dediti a private quanto estemporanee improvvisazioni fescennine, avessero preso ad imitare i ballerini etruschi. E, unendo ai propri rudimentali versi alterni e alla propria mimica l’abilità ed eleganza di movimenti (anche con accompagnamento musicale) di cui quegli stranieri avevano dato l’esempio, si diceva che avessero creato un nuovo genere di spettacolo, detto satura, che in poco tempo s’impose ai gusti del pubblico e fu ufficialmente accolto nell’ambito dei ludi. A quel tempo gli unici ludi autorizzati ad accogliere spettacoli teatrali erano i ludi Romani, i più importanti, in onore di Giove Ottimo Massimo, a metà settembre.

Il termine satura indicava senza dubbio uno spettacolo caratterizzato dalla sovrapposizione di “numeri” non legati tra loro da una trama comune, e neppure dello stesso genere: brevi sketch di attualità cittadina, canzoni, giochi di destrezza, scenette di vita contadina e provinciale, e simili.

L’avvento della satura, propiziato dai danzatori etruschi, segnò a Roma l’inizio di un teatro non improvvisato, e favorì il formarsi di una scuola di attori, ma anche di musicisti (Tito Livio sottolinea che si trattava di spettacoli «ricchi di melodie») e, si deve supporre, di autori: non si può infatti escludere che, per quanto brevi, i numeri della satura non ricorressero talvolta al sostegno di testi anche solo parzialmente scritti. Fu comunque nell’ambito della satura che i Romani cominciarono a prendere confidenza, prima attraverso la mediazione etrusca, poi direttamente, con la passione ellenistica per gli spettacoli musicali e, se non con tutti, almeno con alcuni dei metri drammatici greci. Con l’avvento del teatro “alla greca”, la satura, intesa come forma portante del teatro ufficiale latino, fu condannata al declino; ma non scomparve del tutto, in quanto circa cinquant’anni dopo divenne un genere letterario interamente scritto.

A Roma la condizione e ancora prima l’attività dell’attore a tempo pieno erano considerate indegne di un libero cittadino: non era stato invece così nel caso di quegli scambi fescennini improvvisati, prima nella piazza del villaggio, poi nel circo o accanto a un tempio nelle feste cittadine. Questo tipo di rappresentazione aveva infatti avuto il doppio pregio della spontaneità (intesa come espressione, anche, di autentica religiosità) e del decoro, dal momento che si esauriva all’interno dei ludi, senza togliere tempo prezioso al lavoro dei campi o alla milizia.

Teatro latino

Fu così che i giovani cittadini romani, lasciata la cura dei generi teatrali maggiori ad attori professionisti, tornarono ai fescennini di un tempo. Ne nacque una nuova forma, seppur molto “minore”, di teatro: una breve farsa modellata su un genere farsesco importato nel frattempo dalla cittadina osca di Atella (Campania), la cosiddetta fabula Atellana; e poiché tale farsa era posta solitamente a conclusione di una tragedia o di una commedia alla greca, fu detta anche exodium («spettacolo di uscita») Atellanicum.

L’exodium Atellanicum, che in qualche misura fu il più diretto discendente del fescennino e della satura, dovette esser caratterizzato da espedienti quali la volgare aggressività verbale, oscenità di ogni tipo e gagliarde bastonature. Fu caratterizzato, inoltre, dalla presenza di maschere fisse (che delineavano il carattere immutabile del personaggio).

Il teatro greco fu, come sappiamo, di grandissima ispirazione al teatro latino.

Il coturno (cothurnus) era, nel teatro attico, il calzare, a suola alta e allacciato sul davanti fino al ginocchio, caratteristico dei personaggi tragici, sia maschili che femminili. Ad esso si contrapponeva il socco, il calzare a suola bassa, simile al sandalo, tipico dei personaggi comici. Il coturno finì dunque per designare a Roma il genere tragico mutuato dal teatro attico, d’abito e argomento greco.

Livio Andronico, liberto di origini greche, che introdusse la fabula cothurnata sulle scene romane nel 240 a. C., fu un vero “maestro” della tragedia: indicò la via nella scelta dei soggetti, ampliò il repertorio ed uso latino dei metri drammatici greci; soprattutto contribuì ad elaborare un linguaggio tragico.

Dopo di lui, Nevio allargò la gamma dei soggetti tragici e proseguì nella sperimentazione metrico-musicale. Nevio non si limitò solo a questo, infatti inventò una tragedia in abito e d’argomento romano, genere che chiamiamo fabula praetexta: la pretesta era infatti la toga orlata di porpora usata dai magistrati romani in momenti sacrali molto solenni.

La versione latina della commedia greca era la fabula palliata (il pallium era il nome della mantellina squadrata, più ridotta della toga e facile da indossare, che indossavano i personaggi maschili nella commedia attica); mentre la fabula togata era la commedia ambientata nell’attualità romana (da “toga”, mantello tipico romano). Nella palliata vigevano dei ruoli fissi. Questo è l’elenco dei personaggi principali: c’era il senex, «vecchio», generalmente un padre di famiglia all’antica, tirchio, non di rado perseguitato da una moglie dall’aspetto fiero e dalla ricca dotte. Al senex si opponeva l’adulescens, «giovane», un “figlio di famiglia” sempre innamorato e sempre squattrinato. Vi era poi la meretrix, «meretrice», di cui il giovane era innamorato, per solito (in vista del lieto fine) al suo primo cliente, ma già in possesso di tutta la malitia propria del suo sesso e della sua categoria. Il rivale principale dell’adulescens era il leno, «ruffiano», da cui la meretrice dipendeva. C’erano poi il servus, «schiavo», che difendeva la causa dei padri e dei padroni; l’ancilla, «ancella», per lo più al seguito della meretrice di turno, ma a volte anche di un altro personaggio; e la matrona, «donna sposata», che si presentava come nemica naturale del senex di cui era uxor, «moglie», talvolta anche del figlio scapestrato, del quale però poteva diventare temibile alleata contro il marito traditore.

Con la progressiva espansione dell’Impero, la massa del popolo di Roma diviene più eterogenea, e le esigenze dello spettacolo romano, di conseguenza, cambiano. Commedia e tragedia decadono d’importanza, e vengono preferite composizioni più accessibili e intuitive, quali l’Atellana, la farsa, la satira politica e le oscenità.

Anche la danza e il mimo furono generi che si imposero al pubblico in concomitanza della crisi della tragedia e della commedia. Quest’ultimo consisteva nell’imitazione teatrale della vita quotidiana e dei suoi aspetti più grotteschi accompagnata da musica. Il verismo del mimo si oppone alla commedia anche nelle sue convenzioni: gli attori sono sprovvisti di maschera, ci sono attrici sul palco e non ci sono calzature per permettere di danzare al meglio. Il teatro latino è decisamente più realistico di quello greco. Per questo la maschera riduceva la visibilità degli occhi dell’attore da parte degli spettatori e quindi andava rimossa. La crescente voga di questi spettacoli rese obsolete agli occhi del pubblico le opere teatrali di Plauto, Ennio e Nevio (i cui attori indossavano ancora maschere).

Alle rappresentazioni e ai giochi potevano accedere tutti. A Roma le rappresentazioni teatrali erano finanziate direttamente dallo Stato. A differenza del teatro greco, un luogo dove la polis si riuniva per celebrare le antiche storie del mito, patrimonio comune della cittadinanza, il teatro romano serviva soprattutto per l’intrattenimento. Soprattutto in epoca imperiale, il teatro era un’occasione gaudente e di festa. L’ingresso a teatro era gratuito per tutti, ma era necessario avere un permesso di accesso (una tavoletta d’osso con segni incisi), cosicché gli addetti ai lavori potevano tenere il conto degli spettatori e condurli nei loro rispettivi posti. I posti erano assegnati in base al ceto sociale degli spettatori. I senatori, ad esempio, avevano diritto a sedere nella prima fila (con tanto di cuscini), mentre gli schiavi nei posti più in alto.

I Romani cominciarono a costruire edifici teatrali in muratura soltanto dopo l’88 a.C.. Nel periodo precedente, i luoghi degli eventi teatrali erano costruzioni di legno provvisorie spesso erette all’interno del circo o di fronte ai templi di Apollo e della Magna Mater.

Il teatro romano dell’età imperiale, invece, è un edificio costruito in piano e non su un declivio naturale come quello greco, e ha una forma chiusa, che rendeva possibile la copertura con un velarium, ed è l’esempio di teatro che più si avvicina all’edificio teatrale moderno.

Generalmente le rappresentazioni si tenevano tra aprile ed ottobre e poteva capitare che il sole “picchiasse” forte. Il velarium, steso sulla cavea (la platea semicircolare costituita da gradinate), diveniva quindi fondamentale. Talvolta, invece, si provvedeva a rinfrescare e profumare gli spettatori e il luogo tramite pioggerelle artificiali di acqua di rose o zafferano.

I Romani non tolleravano a teatro gli indisciplinati, tanto che gli addetti erano muniti di manganello e scudisci da usare contro chi non rispettava le regole. Dopo il suono di un flauto, un banditore annunciava il nome dell’opera a cui gli spettatori avrebbero assistito. A quel punto il sipario veniva arrotolato e lo spettacolo poteva cominciare.

Erroneamente molti studiosi hanno accusato il pubblico romano di aver causato la fine del teatro come genere letterario. Insensibile alle commedie delicate e fini di Terenzio, chiassoso e ignorante, il Romano è stato accusato di preferire i circhi al teatro. In realtà il teatro rimase vivo fino alla fine dell’Impero Romano, nonostante avesse perso d’importanza progressivamente. In realtà furono il cristianesimo e gli imperatori cristiani i principali responsabili della fine dei ludi scenici, in quanto legati alla cultura pagana.

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