Carre, la disfatta dimenticata

Carre, la disfatta dimenticata

Il 9 giugno del 53 a.C., nelle calde pianure nei pressi della città di Carre (l’odierna Harran, in Turchia, Alta Mesopotamia), l’esercito romano subì una sconfitta devastante. I cavalieri iranici, guidati dal generale partico Surena, inflissero gravi perdite ai legionari romani e catturarono i sopravvissuti. In un’ulteriore umiliazione, i Parti si impossessarono delle insegne romane, e ci vollero anni di negoziati per riottenerle. Il comandante romano Marco Licinio Crasso, responsabile della spedizione, venne ucciso poco dopo la battaglia.

Per molto tempo, Carre non fu considerata dagli storici come una battaglia cruciale. Anche i Romani stessi cercarono di minimizzarla, descrivendola solo come un esempio di errore strategico, ma senza troppo approfondirla. Di solito, le sconfitte romane venivano interpretate come eventi collettivi, utili come monito e da studiare per evitare errori simili. Nel caso di Carre, tuttavia, la disfatta venne attribuita interamente a Crasso, rappresentato come un leader incapace, accecato dall’avidità e dall’ambizione, che aveva trascinato le sue legioni verso un disastro. Questo giudizio, probabilmente troppo severo, è stato ora rivalutato dagli storici. Le ragioni tecniche della sconfitta e il suo impatto sono oggi più chiari e mostrano che la battaglia fu più significativa di quanto a lungo si fosse pensato.

I Romani si trovarono completamente spiazzati dalla strategia dei Parti, che non si basava sulla fanteria ma su due tipi di cavalleria. A sfondare le linee nemiche erano i cavalieri “catafratti”, interamente coperti di armature pesanti e a cavallo di destrieri corazzati. Accanto a loro, i cavalieri armati di arco, abilissimi nel tirare frecce persino in corsa, usavano una tecnica nota come la “freccia del Parto”: fingevano di ritirarsi per poi voltarsi improvvisamente e colpire con grande precisione. Il loro attacco era reso ancora più letale dagli archi composti, fatti di legno, corno e colla, capaci di scoccare frecce a distanze molto superiori rispetto agli archi in uso nel Mediterraneo.

CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=601226

I legionari romani, armati delle tradizionali armi come il gladio (spada corta) e il pilum (giavellotto), si trovarono in difficoltà di fronte all’agilità degli arcieri a cavallo e alla protezione delle pesanti armature dei catafratti. La loro armatura, una tunica corta di maglia di ferro, non riusciva a resistere efficacemente ai colpi delle frecce nemiche. All’inizio dello scontro, i Parti tentarono un assalto frontale con i catafratti, ma i Romani risposero con la formazione a testuggine, dove le coorti formavano un quadrato difensivo coperto da scudi. Vedendo l’impenetrabilità della formazione, Surena ordinò agli arcieri a cavallo di girare intorno alle legioni, scagliando frecce senza sosta. Solo al calare del sole, con le truppe romane esauste e disidratate, Surena lanciò un nuovo attacco con la cavalleria pesante, e il massacro cominciò.

Nella notte tra l’11 e il 12 giugno del 53 a.C., Crasso tentò di fuggire, affidandosi ai consigli di Andromaco, i cui suggerimenti si rivelarono disastrosi, portando Crasso e un piccolo drappello di uomini a vagare senza meta in una palude. Non è chiaro se Andromaco fosse un traditore o solo un incompetente, ma il risultato fu che Crasso venne intercettato dal nemico e si rifugiò su una collina, dove fu raggiunto da Ottavio con 5.000 uomini. Cassio, nel frattempo, si ritirò verso Carre e proseguì verso la Provincia, lasciando Crasso a un destino incerto.

Surena, nel tentativo di abbreviare il conflitto, risalì la collina e propose un accordo di pace. I Romani, convinti della sincerità dei Parti, furono rassicurati dal rilascio di alcuni prigionieri a cui erano stati fatti discorsi ben architettati. Solo Crasso si mostrò sospettoso, intuendo l’inganno e cercando di incitare le sue truppe a resistere fino a sera. Ma i suoi uomini, stanchi e demoralizzati, pretesero che il generale accettasse la tregua. Quando Crasso si presentò a Surena, la verità venne presto a galla. Alcuni fedeli sostenitori, tra cui Ottavio, cercarono di difenderlo, ma tutti vennero uccisi, incluso Crasso, che cadde il 12 giugno del 53 a.C., ucciso da un soldato parto di nome Exatre. La sua testa finì tra i commensali di un banchetto di nozze, in cui Orode II celebrava il matrimonio tra suo figlio e la sorella del re armeno Artavasde, suggellando così una nuova alleanza. La leggenda narra che Orode versò oro fuso nella bocca di Crasso per simboleggiare l’avidità che lo aveva spinto e, infine, portato alla morte.

I Romani impararono dall’esperienza e iniziarono ad adottare armi più adatte a contrastare i catafratti, migliorando le corazze e aumentando il peso dei giavellotti. Inoltre, si resero conto che l’efficacia del loro esercito di fanteria, caricato da armi e armature, diminuiva drasticamente nei territori desertici, dove i nemici sfruttavano la mobilità garantita dall’uso massiccio di cavalli e cammelli. Tuttavia, ufficialmente, preferirono incolpare esclusivamente Crasso della sconfitta a Carre, cercando di minimizzare l’importanza della battaglia e di parlarne il meno possibile.

Lascia un commento