La pittura romana che ci è pervenuta è costituita principalmente da pitture murali, o picturae. Tuttavia, Plinio il Vecchio, nelle sue tabulae, considerava la pittura su cavalletto come l’unica forma artistica degna di vera considerazione: «non c’è gloria se non per gli artisti che dipinsero quadri» (XXXV, 118). Queste opere, realizzate con particolare maestria, venivano esposte sia negli spazi pubblici sia nelle collezioni private, con una forte predilezione per i lavori degli artisti greci. Plinio osserva, tuttavia, che la qualità della tecnica pittorica era già in declino ai suoi tempi, portando a una preferenza per la pittura murale, destinata principalmente alla decorazione architettonica. Questa forma d’arte era realizzata da artigiani, di cui non ci sono giunti i nomi, che lavoravano in squadre ben organizzate, con una gerarchia precisa: il tector, responsabile della preparazione delle superfici, e i pictores, che si occupavano della decorazione.
In mancanza di fonti più dettagliate, l’individuazione delle diverse officine e delle mani degli artisti si basa prevalentemente sull’analisi stilistica. Ad esempio, la bottega dei «Vettii» è ben documentata nelle decorazioni di residenze patrizie e edifici pubblici a Pompei prima della sua distruzione. In particolare, è stata identificata una bottega nel quadrante «I.9, 9» [regio e insula], dove sono stati trovati circa centocinquanta contenitori di pigmenti, suggerendo un’attività significativa in quella zona.
Le decorazioni ad affresco spesso rappresentavano quadri figurati che venivano successivamente posizionati sul campo della parete entro telai di legno, un chiaro segno della popolarità delle tabulae. Sin dalla metà del I secolo a.C., si diffondeva l’uso di dipingere quadri, sia di piccolo che di grande formato, all’interno di sportelli o elaborate cornici, anche nel contesto della pittura parietale, come evidenziato dal cubicolo «B» della Villa della Farnesina.
Il valore delle tabulae è testimoniato anche da una fonte precedente a Plinio, ovvero la raccolta in due volumi delle Imagines (o Eikónes, come riportato nei manoscritti) del retore greco Filostrato di Lemno, vissuto tra il II e il III secolo d.C., figura prominente della «Seconda Sofistica». Filostrato strutturò il suo testo come un dialogo con giovani allievi, descrivendo le impressioni di una visita ai quadri esposti nel portico di una villa vicino a Napoli, città fortemente influenzata dalla cultura greca. Il testo offre un’ékphrasis (descrizione dettagliata) di sessantaquattro opere realizzate da “numerosi pittori” (di cui non cita volutamente i nomi), principalmente di soggetto mitologico. Questi dipinti erano apprezzati per i loro effetti illusionistici e per le iconografie che intrecciavano temi retorici e letterari, con l’intento di stimolare l’immaginazione di un pubblico colto. Nel proemio, Filostrato sottolinea la sua preferenza per la pittura, affermando che «pittura e poesia mostrano entrambe la stessa inclinazione per le gesta e le immagini degli eroi», poiché il colore, secondo lui, era capace di evocare emozioni e caratteri dei personaggi in modo più efficace delle arti plastiche.
Tuttavia, gli studiosi non sono unanimi sull’effettiva esistenza di queste pitture descritte da Filostrato. È possibile che tali opere siano frutto della sua immaginazione, elaborazioni basate sulla sua formazione retorica e ispirate dalla sua memoria visiva e dalla cultura figurativa del suo tempo.
Tecnica pittorica
Le moderne analisi fisico-chimiche hanno rivelato che la pittura murale romana era prevalentemente realizzata con la tecnica dell’affresco, sebbene fossero conosciute anche altre tecniche come la tempera e l’encausto. Questa tecnica era strettamente legata alla preparazione della superficie, che veniva trattata con uno strato di intonaco fresco composto da calce e sabbia. Durante l’asciugatura, la reazione chimica tra l’anidride carbonica presente nell’aria e la calce spenta portava alla formazione di una pellicola di carbonato di calcio, che sigillava i pigmenti, garantendo loro una lunga durata. Al contrario, nella tecnica a tempera veniva utilizzato un legante per fissare il colore.
Spesso, dettagli aggiuntivi venivano applicati successivamente “a secco” o “a mezzo fresco”, risultando più suscettibili al deterioramento. Vitruvio, nel suo trattato, spiega che il segreto per ottenere un intonaco durevole e di alta qualità risiedeva nella stratificazione: un primo strato grossolano sul muro, seguito da tre strati di malta con sabbia e altri tre con polvere di marmo. Nella pratica, i preparatori d’intonaco utilizzavano generalmente tre strati: i primi più grossolani e granulosi, composti da una miscela di calce, sabbia, pozzolana, paglia, e frammenti di tegole o intonaci macinati, e gli strati finali, più raffinati, che venivano applicati in prossimità della superficie pittorica. Quest’ultima veniva stesa su un sottile strato di intonachino composto da calcite o polvere di marmo.
I residui impressi sul retro del primo strato d’intonaco possono spesso aiutare a identificare strutture murarie ormai scomparse e a ricostruire decorazioni sopravvissute solo in frammenti. Per garantire un buon affresco, la preparazione del muro veniva organizzata in “giornate di lavoro”, lavorando dall’alto verso il basso, preferibilmente in fasce orizzontali coincidenti con la suddivisione del motivo decorativo, in modo da nascondere le giunture. Le coperture erano spesso realizzate con un’intelaiatura di canne, fissata alla muratura di volte e soffitti, su cui veniva steso l’intonaco per garantire una maggiore aderenza e protezione dall’umidità.
Sulla malta ancora fresca si tracciava il disegno preparatorio, utilizzando corde (di cui spesso si riconoscono le impronte), righe graffite o incisioni a mano libera o con l’aiuto di strumenti come squadre o compassi. Per composizioni più complesse si poteva impiegare un disegno preliminare in ocra, chiamato sinopia, prima di applicare i colori. Questi pigmenti erano di origine minerale (gialli, rossi, verdi, scuri), organica (come il nero, ottenuto dalla combustione di ossa e legno, e la porpora, estratta dal murice), o artificiale, come il rosso cinabro e il blu egizio, entrambi molto costosi. Questi ultimi due pigmenti erano utilizzati principalmente nella prima età imperiale, ma intorno alla fine del I secolo d.C., furono gradualmente sostituiti da ocre più economiche. Il blu egizio, noto anche come “fritta egiziana”, era un pigmento granuloso ottenuto dalla fusione di sabbia di quarzo, fiore di nitro e rame, e sebbene fosse originario di Alessandria, veniva prodotto anche in Italia.
Il cinabro (solfuro di mercurio), importato da Turchia e Spagna, richiedeva l’applicazione di cera fusa sul colore asciutto per evitare che l’esposizione alla luce e all’aria causasse la sua trasformazione in metacinabro, che lo avrebbe annerito. L’uso di uno strato protettivo di cera miscelata con olio d’oliva, applicato sulla superficie pittorica per proteggerla e lucidarla, creando un effetto “a specchio”, è stato riscontrato attraverso analisi sulle pareti del Capitolium di Brescia. Tuttavia, un effetto simile poteva essere ottenuto anche mediante una lucidatura finale con polvere di marmo.
Queste tecniche erano molto comuni durante l’età protoimperiale, ma con il passare del tempo e il declino della qualità delle decorazioni pittoriche, iniziarono gradualmente a scomparire.
Lo studio della pittura parietale ha compiuto notevoli progressi tra il XVIII e il XIX secolo, soprattutto grazie alle scoperte e alle campagne di scavo condotte a Ercolano e Pompei, città distrutte dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. e sepolte sotto uno spesso strato di ceneri che ha preservato intatti numerosi apparati decorativi, sia in edifici pubblici che privati. Nel 1882, August Mau pubblicò il primo studio sistematico sulla pittura parietale, basandosi sui ritrovamenti nell’area campana, e identificò l’esistenza di «quattro stili» che si svilupparono tra il II secolo a.C. e la data dell’eruzione.
Sebbene il termine «stile» possa essere considerato impreciso per descrivere schemi ornamentali anziché un insieme di caratteristiche stilistiche, e nonostante le scoperte archeologiche successive abbiano ampliato la comprensione della pittura antica, evidenziando la relativa provincialità dei siti campani rispetto a Roma, epicentro delle tendenze decorative, la classificazione di Mau rimane valida nelle sue linee principali. Anche se ha attraversato fasi di critica e rivalutazione, la sua suddivisione in «quattro stili» continua a essere un riferimento fondamentale nello studio della pittura parietale romana.