Tiberio, l’imperatore che tenne Roma lontana da sé

Tiberio

Secondo la storiografia antica, incarnata in particolare da Tacito e Svetonio, sembrerebbe che Tiberio sia stato un imperatore incapace di gestire il potere e l’Urbe, incapace di seguire il solco tracciato dal predecessore Augusto, la cui figura soppiantò completamente quella del ragazzo adottato dal primo princeps romano. Ma Tiberio non fu solo l’imperatore che lasciò Roma per dilettarsi in vari modi nella sua villa a Capri (sempre secondo alcune fonti antiche a lui particolarmente avverse), e non fu solo l’uomo che fece in modo di far cadere l’Urbe sotto le mani dello spietato Seiano, poiché Tiberio fu molto, molto di più (non solo il secondo imperatore di Roma): un uomo addolorato per i lutti in famiglia, un uomo costretto dalla politica e dalla ragion di stato a scelte difficili da digerire, un uomo forse troppo mite e poco deciso quando si trattava di gestione amministrativa e statale di un impero, un uomo che si fidò delle persone sbagliate.

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Moneta raffigurante Tiberio e sul retro la madre Livia Drusilla. Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1831379

NASCITA E ORIGINI FAMILIARI: COME TIBERIO DIVENNE UN OTTIMO GENERALE

Tiberio nacque nel 42 a.C. da Tiberio Claudio Nerone e Livia Drusilla, e le gesta del padre non avrebbero mai potuto prevedere che, alla fine, il piccolo Tiberio Claudio Nerone (omonimo dunque del genitore) sarebbe stato l’erede designato di Augusto. Il padre, infatti, se in un primo momento era stato un vero cesariano, successivamente si avvicinò tantissimo a Marco Antonio, in un periodo in cui tra lui ed il giovane Ottaviano non scorreva buon sangue. Siamo nel biennio 41-40 a.C., quando nella penisola italica il fratello di Marco Antonio, Lucio, coadiuvato dalla moglie del primo, Fulvia, contribuirono a creare un clima di aperta rivolta contro Ottaviano, che aveva in gestione il territorio italico. In questo frangente, che sfociò nella cosiddetta Guerra di Perugia, vinta proprio dal giovane erede di Cesare, Tiberio Claudio Nerone decise di patteggiare per Marco Antonio, sancendo così le sue disgrazie ma, indirettamente, spianando la strada al figlio. Successivamente infatti, per ristabilire un minimo di equilibrio politico e un poco per trovare un punto di contatto ed una sorta di pace politica, Tiberio Claudio Nerone fu praticamente costretto a divorziare dalla moglie Livia, la quale nel 38 a.C. si sposò con Ottaviano legando per sempre la gens Claudia a quella degli Ottavi, a cui Augusto apparteneva. Questa intrico di famiglie e motivazioni politiche furono alla base dell’educazione, ma anche delle fortune, del piccolo Tiberio, che fu subito adottato da Ottaviano a seguito del matrimonio, quando dunque il piccolo aveva solo quattro anni. Cinque anni dopo il padre morì, sancendo definitivamente il distacco tra Tiberio ed il suo genitore naturale, un legame che forse non cessò mai di esistere e che, probabilmente, ebbe anche un peso nelle decisioni future di colui che divenne ufficialmente il secondo imperatore di Roma. Sappiamo che Tiberio, che alla morte del padre fu dunque costretto ad andare a vivere con la madre, si occupò direttamente della laudatio funebris sui Rostra del Foro Romano, l’elogio funebre che, alla sola età di nove anni, pronunciò dinanzi ai cittadini romani in onore del padre. Questo aneddoto ci dice di come Tiberio fosse in un certo qual senso un predestinato, dotato di ottime doti oratorie e giuridiche, capace di districarsi nella vita pubblica di Roma e di adempiere a tutti i doveri di un perfetto cittadino romano.

Le campagne di Tiberio e del suo legato, Gaio Senzio Saturnino, in Germania nel 4 – 6. Di Cristiano64 – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2560004

Politicamente parlando Tiberio dovette molto alla madre Livia Drusilla ed alle sue conoscenze, ma forse fu proprio grazie alla donna che il figlio riuscì ad avere un animo attento e sensato, attitudini ottime quando ci si doveva occupare di politica e di bene comune. Una prova della sua assennatezza la abbiamo quando il giovane nel 22 a.C., all’età di 20 anni circa, divenne questore dell’annona. In quest’ultimo caso dovette fronteggiare la sempre difficile distribuzione di grano ed altri generi alimentari, una distribuzione che doveva essere la più equa possibile per evitare ribellioni e rivolte, e pare che si mosse in maniera ben più che egregia. Comprò il grano di tasca proprio, soprattutto acquistandolo da uomini che lo acquistavano a basso costo lasciandolo nei magazzini, per poi rivenderlo a prezzo pieno o maggiorato. Il grano da lui ottenuto fu dato gratuitamente alla popolazione, rendendo Tiberio una sorta di eroe popolare e dandoci un esempio di come anche lui, come il patrigno, fosse bene attento agli umori del popolino e delle classi sociali meno elevate e ricche. Il compito era pur sempre delicato, in quanto migliaia e migliaia di persone contavano, per la loro sopravvivenza, proprio sulla distribuzione gratuita di grano. Per comprendere ancora meglio quanto il cursus honorum del giovane fu ampiamente rispettato, per meriti propri o per leve politiche derivanti dalla sua posizione, da ricordare come la magistratura dell’annona fu data a Tiberio cinque anni prima dell’età minima prevista per ricoprire tale carica. Ma il giovane continuò a farsi un nome anche in altri ambiti, soprattutto in quello militare in cui brillò particolarmente per coraggio e sagacia. Alla fine del 21 a.C. Tiberio fu a capo di una legione di macedoni ed illirici che si doveva dirigere in Armenia per riprendere il controllo di una fetta di territorio molto importante, in quanto posto tra Roma ed i Parti, un territorio che dopo la caduta di Marco Antonio tornò sotto l’influenza partica. L’arrivo di Tiberio, così come quella di Augusto con l’esercito a Samo, fece tornare i governatori armeni sotto il controllo di Roma, tanto che quando Tiberio arrivò nel paese orientale partecipò direttamente alla grande cerimonia che vide l’incoronazione di Tigrata a re cliente dell’Urbe. Questo bastò per renderlo un eroe, un uomo capace di pacificare l’oriente e di dare la possibilità a Roma di vivere un periodo di relativa pace e stabilità, obiettivi che lo stesso Augusto seguì con decisione nella costruzione della sua idea di impero. Tiberio, tornato a Roma, fu omaggiato e celebrato e, sebbene Augusto si prese la scena con un trionfo vero e proprio (anche a seguito del recupero, da parte del principes, dei prigionieri di guerra e delle insegne militari perse da Crasso nel 53 a.C. nella guerra contro i Parti), in molti salutarono Tiberio come un valente generale. Insomma, il giovane si stava già facendo un nome, e forse Augusto stesso cominciò a pensare a lui come suo successore, tanto che il nome di Tiberio comparve anche nella Res Gestae Divi Augusti, il testamento augusteo che conosciamo e che, ad esempio, vediamo in parte sul muro esterno dell’edificio che contiene l’Ara Pacis. Augusto, infatti, lasciò scritto che Pur potendo fare dell’Armenia maggiore una provincia dopo l’uccisione del suo re Artasse, preferii, sull’esempio dei nostri antenati, affidare quel regno a Tigrane, figlio del re Artavaside e nipote di re Tigrane, per mezzo di Tiberio Nerone, che allora era mio figliastro”. Purtroppo per Tiberio lui non era l’unico figliastro di Augusto, in quanto la madre Livia diede alla luce, poco dopo le nozze con il primo imperatore di Roma, un altro figlio: Druso, fratello minore di Tiberio. In tandem il fratello Tiberio sconfisse alcune tribù in Gallia nel 15 a.C., perseguendo nell’opera di pacificazione di quelle terre che Augusto volle con decisione.

Busto di Druso maggiore, fratello di Tiberio (Roma, Museo dell’Ara Pacis, calco dell’originale di età tiberiana conservato ai Musei Capitolini di Roma. Di G.dallorto – Opera propria, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3882611

I PROBLEMI IN FAMIGLIA

Questo fu il periodo in cui in seno alla famiglia di Augusto cominciarono ad addentrarsi nebbie composte da conflitti, invidie e, forse, omicidi. Anche Druso, seguendo il percorso già adottato da Tiberio, cominciò ad essere visto come un ottimo generale, sebbene però fu il secondo a prendere il controllo dell’esercito nel 12 a.C., a seguito della morte di Agrippa, ottenendo vittorie a ripetizione in Pannonia, lungo il confine danubiano. La campagna militare proseguì in Dalmazia e poi in Illiria, dove Tiberio risolse alcuni focolai di ribellione, prima di tornare a Roma per ottenere un’ovazione. Differente dal trionfo vero e proprio, anche l’ovazione era comunque un riconoscimento molto gradito e sentito, tanto che a Tiberio fu comunque concesso di passare lungo la Via Sacra su di un carro con ornamenti vari. Dopotutto soprattutto l’operazione in Dalmazia, che divenne ufficialmente una provincia stabile, confermò agli occhi del popolo che Tiberio era un’abile stratega ed un ottimo generale, un ragazzo con tanta esperienza alle spalle e che, per sua fortuna da un certo punto di vista, aveva una persona in meno da cui guardarsi le spalle nella sua corsa al potere ed al posto di Augusto, che all’epoca non aveva ancora riconosciuto l’erede ufficiale di quel nuovo impero che stava costruendo. Il fratello Druso, a seguito di una caduta da cavallo, si fratturò il femore e morì. Nel 9 a.C. Tiberio, ancora una volta, fu chiamato per una laudatio funebris sui Rostra, esattamente come fece per il padre naturale. Ma non soltanto i lutti funestarono la vita privata di Tiberio poiché anche la politica, soprattutto ad alti livelli, portò a delle rinunce che gravarono molto sull’animo del giovane figliastro di Augusto, il quale nel 16 a.C. sposò Vipsania Agrippina, figlia del grande Agrippa. Immaginiamoci dunque il dolore che Tiberio subì alla morte del suocero ma, soprattutto, il rifiuto che lo stesso avrebbe voluto manifestare quando, nel 12 a.C., fu costretto a divorziare dalla moglie per sposare Giulia Maggiore, figlia di Augusto. Il problema vero fu che, probabilmente, Tiberio amasse la prima moglie, senza mai riuscire a legare con la nuova consorte, datogli in sposa per cementare ancor di più il rapporto tra Augusto ed il figliastro il quale, agli occhi del popolo, si stava ormai avviando a diventare il successore del pater patriae. Non solo, poiché nel 6 a.C. Augusto concesse a Tiberio anche la tribunicia potestas, una magistratura antichissima e di origini plebee che, però, dava praticamente un potere illimitato a chi la possedeva. Sebbene essa durasse per cinque anni, chi otteneva la potestà tribunizia aveva diritto di veto, poteva decidere ed avere parola sulle condanne capitali ma, soprattutto, vedeva la sua persona diventare inviolabile e quasi divina. Tiberio, dunque, divenne un intoccabile, un uomo a cui nessuno avrebbe mai potuto torcere un capello e che mai avrebbe dovuto subire critiche o avere rifiuti, in quanto divenne quasi una emanazione divina.

La processione della famiglia di Augusto sul lato sud dell’Ara Pacis.

Sembrava che Tiberio avesse tutto, e che avrebbe dovuto essere contento di ciò che aveva ottenuto sino ad allora, ma le cose non sempre vanno nel verso giusto. Pensateci: Tiberio sin da piccolo aveva adempiuto ad ogni singolo dovere, si era ben distinto sui campi di battaglia ottenendo elogi pubblici ed ovazioni, aveva politicamente e militarmente aiutato Augusto a rendere non solo più saldo il trono ed i confini del nuovo impero, facendogli prendere la forma desiderata dal patrigno, ma sottostò a tutte le decisioni prese da lui. Perse un fratello che comunque amava, abbandonò sua moglie, la figlia di Agrippa con cui il rapporto pareva davvero forte e speciale, sposò la figlia del patrigno che aveva un carattere completamente opposto a quello pacato, gentile e premuroso di Agrippina (Giulia Maggiore amava molto gli eccessi, aveva un atteggiamento lussurioso e vanaglorioso, non adatto ad un uomo dall’animo comunque mite come quello di Tiberio). Dulcis in fundo pare che, nonostante tutto questo, nonostante le lodi e la potestà tribunizia, Augusto preferisse come eredi i figli di Giulia Maggiore, Gaio e Lucio Cesare, invece che Tiberio, quell’uomo che stava sacrificando tutto per la causa e per il patrigno, senza apparentemente avere nulla in cambio. Fu così che nel 6 a.C., all’età di 36 anni, in aperta polemica con le scelte di Augusto Tiberio se ne andò da Roma per stabilirsi a Rodi. Nel suo soggiorno rodiano Tiberio diede comunque prova di aver mantenuto quel carattere fermo ma rispettoso che gli si confaceva, un carattere sempre attento alle sfumature che, a volte, sfociò anche in contesti ironici e divertenti. Svetonio ci racconta di un aneddoto che ebbe origine proprio nel periodo passato sull’isola greca. Lo storico scrisse: “Un giorno, mentre era in esilio a Rodi, il futuro imperatore chiese una conferenza particolare al grammatico Diogene che teneva lì le sue lezioni il quale, però, non lo volle ricevere subito e gli fece dire da uno schiavo di attendere il settimo giorno. Diventato imperatore Tiberio, un giorno il grammatico Diogene trovandosi a Roma si presentò alla sua porta per rendergli omaggio. L’imperatore non lo volle ricevere e gli fece dire semplicemente da uno schiavo di ripassare dopo sette anni”. A parte questo curioso aneddoto che però rivela qualcosa del carattere di Tiberio, è certo che quest’ultimo visse una vita tranquilla nel suo volontario esilio a Rodi: al di fuori dei riflettori, non fu mai protagonista di alcuna scandalo o diceria, conducendo dunque un’esistenza morigerata e tranquilla, come tra l’altro si confaceva al carattere di un uomo che era un leone in battaglia ma che, nella sfera privata, stava passando alla storia come un uomo giusto ed equilibrato. Si immagini che l’esilio durò per ben otto anni, e pare che, almeno all’inizio, sia Augusto che Livia tentarono in tutti i modi di fargli cambiare idea. Nonostante tutto, però, politicamente parlando il suo fu un vero e proprio schiaffo alla persona del patrigno, che con difficoltà si stava costruendo l’immagine di un uomo incorruttibile e portatore di pace, quella pax che, a quanto pareva, non albergava però in seno alla sua stessa famiglia. Ancora oggi si dibatte assai sulle vere motivazioni che spinsero Tiberio a lasciare Roma ed i suoi intrighi ed obblighi politici, tanto che anche gli autori antichi danno indicazioni diverse. Svetonio scrisse: […] è dubbio se per disgusto di sua moglie, che non osava né ripudiare né incriminare, ma che non poteva sopportare più oltre, o se, invece, per affermare o anche accrescere, con la lontananza, la sua autorità, nel caso che lo stato avesse bisogno di lui, evitando di stancare con la sua continua presenza. Certi stimano che, essendo allora adulti i figli di Augusto, cedette loro il passo spontaneamente, come se il secondo rango fosse stato un patrimonio a lungo usurpato, seguendo così l’esempio di Marco Agrippa che, quando aveva visto Marco Marcello chiamato a incarichi pubblici, si era ritirato a Mitilene per non sembrare, con la sua presenza in Roma, atteggiarsi a suo concorrente o a suo censore. Questa è, del resto, la versione che diede egli stesso, ma solo più tardi”, lasciando intendere che, quasi con magnanimità, Tiberio si fosse tolto di mezzo per evitare ad Augusto ulteriori problemi per la successione al trono, in quanto lui non pareva essere preso in considerazione. Per Cassio Dione, invece [Augusto] poiché volle in qualche modo frenare le intemperanze di Lucio e di Gaio, conferì a Tiberio la potestà tribunizia per cinque anni, e gli assegnò l’Armenia, che dopo la morte di Tigrane era diventata ostile. Gli toccò però entrare inutilmente in urto sia con i nipoti che con Tiberio, con i primi perché ritennero di essere stati declassati, con il secondo perché iniziò a temere il risentimento di loro. In ogni caso Tiberio fu mandato a Rodi con la scusa di aver bisogno di un periodo di insegnamento, […] affinché fosse lontano da Lucio e da Gaio, sia dalla loro vista sia dalla loro portata. […] Questa è la ragione più vera del suo allontanamento, anche se c’è una versione in base alla quale fu anche la moglie Giulia il motivo per cui aveva fatto ciò, dato che non riusciva più a sopportarla. […] Altri dissero che Tiberio era indispettito per il fatto che non aveva ricevuto anche il titolo di Cesare, mentre secondo altri ancora era stato cacciato da Augusto stesso sulla base del fatto che stava ordendo un complotto contro i suoi figli [Gaio e Lucio]”, lasciando intendere che la scelta di Tiberio non fosse volontaria, bensì subordinata alla volontà di Augusto di tenere lontani i nipoti di quest’ultimo, eredi al trono, e quel Tiberio che legittimamente avrebbe potuto avanzare pretese. In entrambe le versioni torna, però, il rapporto non idilliaco tra Tiberio e la seconda moglie Giulia, figlia di Augusto mai del tutto digerita né sopportata da Tiberio. Solo nel 2 a.C. le cose cambiarono quando Giulia Maggiore fu spedita a Ventotene in esilio forzato, e quando dunque Tiberio cominciò a muoversi per chiedere perdono e ritornare all’Urbe. Nonostante i tentativi di fermare il suo ritorno, perpetrati soprattutto dai figliastri Gaio e Lucio Cesare alla fine Tiberio tornò a Roma portandosi dietro, però, la nomea di qualcuno che tramava nell’ombra. Proprio tra il 2 ed il 4 d.C., infatti, improvvisamente Gaio e Lucio Cesare, nominati successori al trono da parte di Augusto, morirono non senza portare nella tomba il sospetto che la morte non fosse stata per niente naturale. Malelingue parlarono di un intervento decisivo da parte di Livia, che forse volle forzare i tempi ed i modi per far ottenere al figlio Tiberio il tanto sospirato trono. Purtroppo per lei, e per lui, alla fine quest’ultimo fu obbligato da Augusto ad adottare Germanico, figlio del già citato fratello Druso Maggiore, e questo nonostante Tiberio avesse già un figlio, Druso Minore, praticamente della stessa età. Nonostante questo, però, nel 4 d.C. ci fu finalmente l’investitura ufficiale: Tiberio fu adottato da Augusto diventando così l’erede designato del princeps, che forse fu quasi costretto a scegliere in questo modo. All’orizzonte di Tiberio, però, le sorprese non erano finite, e neanche le minacce che, volontariamente o meno, gli arrivarono da membri della sua stessa famiglia.

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Asse di Tiberio, con Druso e Germanico. Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10582213

ASCESA AL TRONO E REGNO DI TIBERIO

Tiberio partecipò attivamente alle campagne belliche intraprese da Roma, soprattutto nell’Illirico e nei territori germanici, continue guerre e scaramucce che avevano, come unico scopo, quello di rafforzare i confini imperiali. Nel 9 d.C., però, ci fu la disfatta delle legioni romane a Teutoburgo, che suscitò clamore e molte paure in seno al neonato impero, a causa di una sconfitta di vaste proporzioni a cui Tiberio tentò di rimediare applicando una tattica attendista e prudente. Dopotutto con ciò che accadde a Teutoburgo in molti ebbero la consapevolezza che la penetrazione romana nei territori selvaggi germanici si sarebbe dovuta arrestare. Successivamente fu proprio Germanico a vendicare quell’atroce sconfitta, il figlio adottivo di Tiberio (il quale ricordiamolo fu costretto ad adottarlo), che si affiancò al secondo imperatore romano già in precedenza, quando lo stesso Tiberio, nella campagna dell’Illirico di un paio di anni prima, fu accusato di optare per una strategia troppo poco aggressiva. La disfatta di Teutoburgo, forse, in un certo senso fu un vantaggio per Tiberio, in quanto probabilmente Augusto accusò maggiormente l’urgenza di dover trovare davvero e definitivamente il suo erede, per designare così un futuro solido alla sua nuova Roma.

Nel 12 d.C. Tiberio, dopo anni, ritornò finalmente a Roma per ricevere un vero trionfo, un trionfo per le campagne in Dalmazia ed in Pannonia degli anni immediatamente precedenti, vittorie appannate però dalla grave sconfitta patita nella selva di Teutoburgo. In occasione del trionfo Tiberio si prostrò dinanzi ad Augusto, il quale gli rinnovò la tribunicia potestas e il cosiddetto imperium proconsulare maius, un potere legislativo su tutte le provincie romane ben superiore rispetto a quello dei semplici governatori, un potere praticamente illimitato che sino a quel momento era saldo, e solamente, nelle mani di Augusto. In questo modo, finalmente, il mondo romano intero, dal Senato ai cittadini, comprese chi sarebbe stato l’erede del pater patriae, il quale morì nel 14 d.C. Da quel momento cominciò per Tiberio, forse mai davvero amato dal suo predecessore, il suo regno, un regno il quale ebbe luci ed ombre e che l’imperatore, però, tentò in tutti i modi di portare avanti nel segno dell’equilibrio e dell’oculata gestione. Emblematiche sono le parole di Svetonio, che scrisse come “Tiberio era dotato di un discreto buon senso dello Stato. Ad alcuni governatori che cercavano di convincerlo ad aumentare le tasse nelle provincie, ironicamente rispose come il buon pastore dovesse tosare le proprie pecore, non scorticarle”. Ironia applicata alla ragion di Stato e, soprattutto, alla ricerca di un modo di governare che fosse simile, nel rapporto anche con gli strati sociali più disagiati, a quelli del predecessore. Nonostante tutto, però, forse Tiberio non accettò mai fino in fondo il titolo di princeps e di nuovo imperatore romano, se è vero che per molto tempo rifiutò la convocazione del Senato di Roma per legittimare ed ufficializzare il suo nuovo, importante, rango. L’esilio volontario precedente già dimostrò come, probabilmente, nell’animo del giovane Tiberio albergasse da una parte la ricerca, tutta romana, di seguire un cursus honorum inappellabile ed atto a raggiungere la vetta della scala sociale, e dall’altra la necessità, dettata anche dal suo carattere, di rimanere sempre un poco nell’ombra. Tentò di mantenere lo status quo determinato dal predecessore, sebbene però le origini di Tiberio e la sua vita sino ad allora fossero costellate da scelte dure da mandare giù, da un destino a cui lui non poteva sottrarsi. Forse da questo punto di vista, a causa di queste forzature si deve leggere il fatto che, alla morte della madre Livia (nel 29 d.C.), Tiberio si rifiutò di darle particolari onori, non presentandosi neanche ai funerali.

Scena antica (pittura di un certo Corinaldo), forse ispirata alla corte di Tiberio presso l’isola di Capri, XIX sec.

Non fu però l’unico punto di rottura, molto evidente, tra Tiberio e la sua larga famiglia, in quanto anche alla morte di Germanico l’imperatore non si presentò ai funerali, facendo rumore per la sua assenza e non solo. Difatti il figliastro, con le sue grandi vittorie militari che, in un certo senso, seguirono lo stesso percorso di quelle commesse dall’imperatore negli anni precedenti, stavano mettendo in ombra la gestione dell’impero di Tiberio, ed il princeps stesso. Dopotutto Germanico vendicò la sconfitta di Teutoburgo, riuscendo anche a riportare a Roma alcune delle insegne militari rubate durante il massacro subito da Roma. Non sarebbe strano pensare che, nell’Urbe, in molti potessero pensare che Germanico fosse l’uomo giusto, colui che avrebbe dovuto guidare un impero sempre più impelagato in guerre con tribù e popolazioni ad esso confinanti. Probabilmente proprio per allontanarlo da sé e da Roma, per allontanare dalla città la sua grande influenza, Tiberio inviò Germanico in Oriente ad occuparsi dei territori orientali dell’impero, affiancandogli però un uomo di assoluta fiducia: Pisone. Quasi con ovvietà si può comprendere come i due, Germanico e Pisone, non andassero per nulla d’accordo, litigando praticamente su ogni cosa. Addirittura il secondo arrivò a delegittimare le decisioni politiche del primo, giungendo anche alla scelta di lasciare tutto e tornare a Roma. Peccato che sulla via del ritorno si venne a sapere che, nel frattempo, ad Antiochia Germanico era morto a causa di una malattia e di febbri. Una volta a Roma tutti i sospetti caddero su PIsone e, di conseguenza, su Tiberio, il quale sarebbe dunque stato il mandante dell’omicidio del valente generale. Non sapremo mai come andarono le cose, ma se anche l’imperatore avesse davvero tramato contro Germanico non ci si dovrebbe sorprendere: quest’ultimo stava diventando sempre più ingombrante, una minaccia al suo stesso trono che doveva essere fermato solo con la morte. Siamo nel 19 d.C. e Tiberio aveva tante altre cose a cui pensare, tra cui un impero da gestire. Nonostante tutto la politica dell’imperatore e successore di Augusto fu sempre improntata su una certa moderazione, oltre che sul totale rispetto delle magistrature civili e pubbliche. I rapporti con il Senato erano buoni, tanto che Tiberio si consultava spesso con i patres prima di una decisione. Un clima di vera concordia che, però, venne spazzato via da un grave problema avuto anche da Augusto: la successione.

Aureo di Tiberio. Di cgb – http://www.cgb.fr/tibere-aureus,v34_0421,a.html, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30630108

IL NUOVO ESILIO E LA MORTE

Morendo Germanico, infatti, rimaneva solo un nome a cui Tiberio avrebbe affidato le redini dell’impero alla sua morte: Druso, l’unico suo figlio maschio. Tutto sembrava pronto, anche con l’avvento di Seiano come prefetto del pretorio, un uomo che era sì confidente di Tiberio e molto ascoltato dall’imperatore, ma che era arrivato sino alla nuova e rilevante posizione a suon di tradimenti ed omicidi. La sua ambizione non prometteva nulla di buono, ma apparentemente Tiberio non ebbe alcuna remora ad affidargli un incarico delicato come quello di prefetto del pretorio. Le cose precipitarono quando nel 23 d.C. il povero Druso morì e, a differenza di ciò che accadde con Germanico, in quel caso non ci furono dubbi di alcun genere: l’erede designato al trono fu semplicemente avvelenato. Addirittura si sospettò dello stesso Tiberio, ma è molto più probabile che ad uccidere il giovane fu Livilla, sorella di Germanico. Una vendetta? Un modo per fargliela pagare a quel Tiberio che avrebbe ordito, se non ordinato, la morte del fratello? Tiberio ancora non lo sapeva, ma qualche anno dopo, con un grado di relativa certezza, si venne a sapere che Druso morì per volere sia di Livilla che di Seiano, il quale dunque non perse assolutamente tempo nell’ordire la sua trama, fatta anche di tradimenti e morti, pur di arrivare lontano. Infatti alla morte del figlio Tiberio ebbe l’annoso problema che tutti i regnanti di ogni epoca avevano avuto prima di lui: la successione. Chi al posto di Druso? La posta in gioco era molto alta, e Tiberio pareva, inoltre, aver perso tutto il suo appeal. Il popolo rumoreggiava contro di lui, affermando che fosse l’imperatore in persona il cospiratore della morte del suo, amatissimo in verità, figlio. Dopotutto Druso era il frutto vivente dell’amore intercorso tra lui e la prima moglie, Vipsania, un’unione che, come scritto in precedenza, fu distrutto solo dalla ragion di stato. Fatto sta che, probabilmente anche su consiglio dello stesso Seiano, Tiberio cedette alle pressioni e lasciò Roma, in una sorta di nuovo auto esilio. Questa volta Tiberio scelse l’isola di Capri come zona in cui poter vivere in pace, lontano dagli intrighi di una corte imperiale che, a vedere i comportamenti adottati dall’imperatore, forse Tiberio non avrebbe mai voluto avere di fronte. L’esilio di Tiberio aprì un vuoto di potere, in quanto con il suo allontanamento, fisico ma allo stesso tempo politico, Seiano ebbe campo libero per poter agire liberamente spianandosi la strada verso il trono. Si ricordi che nel 29 d.C. Tiberio si rifiutò di tornare a Roma per commemorare la madre Livia, che morì ad 86 anni lasciando, ancor di più, un portone aperto a Seiano per ergersi a nuovo padrone dell’Urbe, arrivando ad eliminare fisicamente tutti i possibili oppositori politici e togliendo sempre più potere al Senato. Alla fine però Seiano fece i conti con l’animo di Tiberio, un uomo che, nonostante tutto, non sembrò essersi mai troppo abbandonato ad eccessi d’ira, a volontà di rovesciare completamente l’ordine sociale e religioso, a comportamenti poco rigorosi e corretti nei confronti delle istituzioni. Fu così che Seiano, probabilmente, non si aspettò di certo di essere il destinatario di una lettera, letta nel consesso senatoriale dinanzi ai patres, e scritta di proprio pugno da Tiberio, nel quale l’imperatore accusava il suo amico e prefetto del pretorio di tradimento. Fu dunque la fine politica di Seiano, ma non la conclusione dell’esilio di Tiberio che, anzi, continuò imperterrito a rimanere a Capri. Roma si tinse del rosso del sangue degli amici e dei sodali di Seiano, in una caccia senza esclusione di colpi che forse Tiberio non avrebbe mai permesso se fosse tornato nell’Urbe. Ma ciò non accadde, in quanto forse l’imperatore si era semplicemente stufato di quella vita che forse non gli era poi così congeniale. Alcuni storici e letterati dell’epoca descrissero la vita di Tiberio a Capri come un’esistenza corollata di festini ed orge, di giochi anche con bambini molto piccoli e di ossessioni, di feste e di bagordi, di divertimento sfrenato e tanto altro ancora. Possibile che un uomo come Tiberio, sempre politicamente corretto e senza che, in tutti quegli anni, si fosse mai macchiato nel privato di comportamenti così sconvenienti, fosse caduto in vizi del genere? Non lo sapremo mai, anche se sappiamo come per Tiberio, tra le mille difficoltà, continuò ad affacciarsi all’orizzonte sempre lo stesso dilemma: chi scegliere come successore al trono? Anche Seiano era morto, e così alla fine la scelta cadde sul giovane Gaio, figlio di quel Germanico che tanti problemi, apparentemente, aveva dato a Tiberio.

L’impero di Tiberio (14-37). Di Cristiano64 – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2641407

Nel 37 d.C. l’imperatore lasciò Capri diretto, probabilmente, proprio a Roma. Forse voleva riprendere davvero possesso del trono, riprendendo in mano quell’eredità politica e culturale lasciategli da Augusto. Ma alla veneranda età di 79 anni anche un fisico temprato come quello di Tiberio, che da giovane combatté strenuamente per aiutare il predecessore nei suoi disegni politici, venne meno. Quando, fermandosi a sette miglia dall’Urbe, Tiberio scelse di tornare indietro forse per timore di affrontare una rivolta popolare (il popolino non vedeva di buon occhio il ritorno di quell’imperatore che aveva abbandonato Roma), fu colto da malore. Tacito ci racconta alcune istantanee della vita che, a poco a poco, stava abbandonando Tiberio, certamente però lasciando intendere quanto il suo giudizio non fosse lusinghiero. Scrisse infatti nei suoi Annales che “La forza fisica e la vitalità andavano abbandonando Tiberio, ma non ancora la sua capacità di dissimulare; e restava la stessa la durezza d’animo; ancora lucido nel parlare e nelle espressioni del viso, cercava di nascondere talora con ricercata serenità un latente stato di debolezza”. Anche a pochi passi dalla morte, dunque, Tiberio voleva dimostrarsi forte, ma per Tacito quella fu solo un’ulteriore prova di un carattere spesso sfuggente e magari anche debole, un carattere che portò Tiberio a sottostare alle richieste di Augusto, a fronteggiare giorno dopo giorno le sfide della carica imperiale senza, però, impegnarsi mai sino in fondo. Un uomo che, forse distrutto dal dolore per la perdita del figlio naturale e non solo, preferì lasciare l’Urbe ad un uomo senza scrupoli come Seiano. Anche Svetonio ci narra degli ultimi scampoli di vita dell’imperatore, che dalle porte di Roma tentò disperatamente di ritornare indietro, nell’intimità di Capri. Svetonio scrive “tornando dunque in fretta in Campania, cadde infermo in Astura; riavutosi un poco, si spinse fino a Circeo, e, per non dar sospetto di essere ammalato, non soltanto intervenne ai giuochi militari ma anche colpì dall’alto con saette un cinghiale che era stato immesso nell’arena; subito dopo, venutagli una fitta nel fianco e, sudato qual era, colpito da un’aria fredda, ricadde in più grave malattia. Si sostenne però alquanto tempo, benché, di là trasportato fino a Miseno, nulla mutasse delle quotidiane abitudini, nemmeno i conviti e gli altri piaceri, un po’ per intemperanza, un po’ per dissimulazione”. Ancora una volta si evince quella dissimulatio che non sarebbe un pregio, agli occhi di autori come Tacito o Svetonio, bensì quel male che impedì a Tiberio di essere un imperatore retto e giusto. Ormai in punto di morte, ma non ancora defunto, Tiberio subì l’onta (sempre se in quegli ultimi momenti aveva la giusta lucidità), di vedere il figlio Germanico già proclamato imperatore. Ma quando ci si accorse che Tiberio non era ancora morto, allora non si andò molto per il sottile se è vero che, secondo Tacito, fu il nuovo prefetto del pretorio Macrone a soffocare con le coperte Tiberio, in modo da rendere davvero ufficiale la successione di Gaio (il futuro Caligola), del quale molti nutrivano belle speranze. Tiberio dunque morì, di certo non in pace e soffrendo dolori fisici ma anche psicologici, traumi provenienti soprattutto da quella famiglia che fu una vera spina nel fianco per il successore di Augusto, una famiglia che, tra le altre cose, a leggere la versione di Seneca riportata da Svetonio non si degnò neanche di assisterlo nel momento del trapasso.

Gianluca Pica

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