Nel 71 a.C., seimila schiavi furono crocifissi lungo la via Appia, tra Roma e Capua. Questo atroce episodio segnò la fine della rivolta di oltre 70.000 schiavi che avevano osato opporsi al trattamento disumano cui erano sottoposti. I loro corpi vennero lasciati esposti per lungo tempo sulle croci, come monito per coloro che avessero pensato di ribellarsi.
Questa scena, che oggi susciterebbe orrore, non destava alcuna reazione tra gli antichi Romani. Gli schiavi potevano essere destinati a diversi ruoli: alcuni servivano nelle domus delle famiglie nobili, altri erano impiegati nei lavori agricoli, e talvolta venivano addestrati come gladiatori per intrattenere la città. Servire in una dimora nobiliare garantiva una vita relativamente più dignitosa, quasi come membri aggiunti della famiglia, mentre chi lavorava nei campi affrontava un’esistenza particolarmente dura e logorante.
Chi erano gli schiavi
Nelle società antiche, quasi tutti i popoli riservavano ai prigionieri di guerra due possibili destini: venivano uccisi o ridotti in schiavitù. Anche i Romani adottarono questa pratica, trattando i prigionieri di guerra come schiavi. Questi ultimi diventavano proprietà dello Stato, che poteva venderli a privati cittadini. Durante le guerre di conquista, i Romani catturarono migliaia di prigionieri, aumentando significativamente il numero degli schiavi. Si stima che nel primo secolo a.C. la Repubblica romana ospitasse circa due milioni di schiavi.
Tuttavia, non tutti gli schiavi a Roma erano prigionieri di guerra. Secondo la legge romana, anche i disertori e coloro che non riuscivano a pagare i propri debiti venivano ridotti in schiavitù. In particolare, i debitori insolventi diventavano schiavi dei loro stessi creditori.
Schiavi «pubblici» e schiavi «privati»
Gli schiavi venivano assegnati a diverse mansioni in base alle loro competenze. Alcuni rimanevano sotto il controllo dello Stato e svolgevano lavori di interesse pubblico, come la costruzione di strade, ponti, acquedotti e edifici; questi erano noti come schiavi “pubblici”. Altri, invece, lavoravano per privati cittadini e venivano quindi chiamati schiavi “privati”.
Le famiglie romane, a seconda delle loro disponibilità economiche, potevano avere uno o più schiavi al loro servizio. Le famiglie più facoltose arrivavano a possederne addirittura migliaia. L’insieme degli schiavi privati di un unico padrone costituiva quella che veniva chiamata “famiglia”. Da questo termine è derivata la parola “famigli”, utilizzata fino a tempi recenti per indicare i domestici nelle case nobili.
I lavori degli schiavi «privati»
Gli schiavi “privati” si occupavano di tutte le faccende domestiche, ognuno con un incarico specifico: alcuni erano responsabili della pulizia delle stanze, altri si dedicavano alla cucina, altri ancora servivano a tavola o si occupavano degli abiti dei padroni. Alcuni schiavi accompagnavano il padrone durante le sue uscite, lo trasportavano in lettiga e gli ricordavano i suoi impegni.
Anche i lavori agricoli più gravosi erano affidati agli schiavi “privati”, il cui compito era quello di massimizzare la produttività delle terre del loro padrone. Tra gli schiavi, c’erano anche quelli che si distinguevano per intelligenza e cultura, e a questi venivano assegnati compiti più complessi: amministravano le proprietà del padrone, gestivano la corrispondenza e copiavano libri. Alcuni schiavi erano persino medici o insegnanti e potevano lavorare presso altre famiglie, sebbene i guadagni delle loro attività dovessero essere consegnati al loro padrone senza possibilità di trattenerli.
Come erano trattati
“Il padrone detiene un potere assoluto sullo schiavo, compreso il diritto di vita e di morte su di lui.” Queste parole della legge romana evidenziano immediatamente la terribile condizione in cui vivevano gli schiavi. Essi potevano subire i trattamenti più crudeli senza alcuna possibilità di difendersi. Gli schiavi impiegati nelle campagne erano quelli che soffrivano maggiormente. Costretti a lavorare incatenati per impedirne la fuga, ricevevano una scarsa alimentazione a base di cibi di bassa qualità e dormivano in dormitori sotterranei, umidi e insalubri. La loro vita era governata da una disciplina rigidissima: ogni infrazione era punita con estrema severità. Le infrazioni minori erano punite con la verga, mentre quelle più gravi comportavano l’uso dello staffile, una frusta composta da una corda con nodi in cui erano inseriti ossi e uncini, progettati per lacerare la carne durante la fustigazione. Molti schiavi non sopravvivevano a questa tortura straziante. La punizione più estrema rimaneva comunque la condanna a morte.
I “liberti”
L’unica speranza che uno schiavo poteva nutrire per migliorare la sua miserabile esistenza era ottenere la libertà dal proprio padrone. La legge romana consentiva al padrone di liberare il suo schiavo, seguendo una procedura specifica chiamata “manumissio”, ovvero liberazione. Questa procedura poteva essere eseguita in diversi modi: attraverso una dichiarazione ufficiale di libertà fatta dal padrone davanti a un magistrato, con l’iscrizione del nome dello schiavo tra i cittadini, o tramite una disposizione testamentaria. Una volta liberato, l’ex schiavo prendeva il nome di “liberto”.
Essere un liberto rappresentava un notevole miglioramento rispetto alla condizione di schiavo. Il vantaggio principale per il liberto era la possibilità di lavorare e di mantenere i guadagni derivanti dalla propria attività. Tuttavia, i liberti non godevano di tutti i diritti riservati ai cittadini liberi. Ad esempio, potevano votare ma non potevano accedere alle cariche pubbliche. Durante l’epoca imperiale, la condizione dei liberti migliorò significativamente, tanto che alcuni di loro ricevettero incarichi di grande responsabilità, come il governo di province o il comando di flotte imperiali. Tuttavia, tra l’immensa popolazione di schiavi, solo pochi ebbero la fortuna di diventare liberti. La maggioranza continuava a vivere e morire sotto il pesante fardello della schiavitù.