Le Idi di Marzo

Idi di Marzo

La battaglia di Munda (45 a. C.) vide trionfare definitivamente Giulio Cesare sui repubblicani conservatori vicini alle posizioni dell’ormai defunto Pompeo. Ciò permise allo stesso Cesare di non avere più rivali a Roma. In assenza di forti oppositori politici, il 14 febbraio del 44 a. C. Cesare venne nominato dittatore a vita.

Iniziò quindi un nuovo processo di riforme che portò a una tangibile diminuzione del potere del Senato a favore delle assemblee popolari. Sebbene i senatori fossero aumentati, passando da 600 a 900 effettivi, il loro potere decisionale diminuì. Lo stesso Cesare rivestì diverse cariche pubbliche, accumulando su di sé molto potere.

Oltre al numero dei membri del Senato, aumentò anche quello dei pretori e dei questori. Per migliorare l’apparato burocratico, il dittatore fondò anche nuove colonie sia nelle province orientali che in quelle occidentali, estendendo il diritto di cittadinanza. Le continue modifiche nel corso di pochi anni della sua posizione giuridica furono il segno tangibile della difficoltà di collocare l’eccezionalità del suo potere all’interno della Repubblica. La posizione di Cesare e del suo governo autoritario cominciò quindi a cozzare presto con i valori della res publica.

Sebbene Cesare avesse nelle sue mani il controllo totale dell’Urbe, non si fece mai proclamare re. Durante la festa dei Lupercali (festività romana che si celebrava dal 13 al 15 febbraio in onore del dio Luperco), il suo fidato generale Marco Antonio gli offrì la corona per tre volte. Le cronache dell’epoca affermano che il popolo, in seguito alla proposta di Marco Antonio, cominciò a rumoreggiare. Cesare rifiutò la proposta del generale e il popolo applaudì il dittatore. La decisione di Cesare di non farsi proclamare re fu una mera mossa politica: la monarchia si concluse in maniera brusca con la cacciata di Tarquinio il Superbo e il popolo romano, memore dei racconti leggendari sulla sua figura, erano contrari all’instaurazione di una nuova forma di governo monarchica. Sebbene non possedesse la corona, Cesare assunse di fatto i poteri di un monarca.

Durante il suo anno da dittatore, Cesare si attirò ben presto diversi malumori, in particolare da parte dell’oligarchia senatoria. Cesare, infatti, con la sua riforma politica ed economica cercò di ridimensionare fortemente le vecchie classi dominanti e favorire nuove forze popolari. Cesare rappresentava quindi un potere popolare, attento alle esigenze del popolo romano e lontano dai privilegi acquisiti nel corso dei secoli dai senatori. Ma la politica del dittatore poteva sembrare in qualche modo populista, tanto che la massa era facilmente manovrabile attraverso le sue azioni autoritarie. Non esitò inoltre ad utilizzare il suo esercito personale per raggiungere i suoi obiettivi. L’oligarchia senatoria non poteva accettare tutto ciò.

Per ciò che concerne il rapporto col popolo, Cesare fece edificare diverse splendide opere pubbliche (come ad esempio una nuova curia, un foro presso l’Argileto e uno stadio per i lottatori nel Campo Marzio). In questo modo la plebe e gli sfaccendati poterono trovare lavoro nell’edificazione e nel restauro di numerosi edifici pubblici. Le donazioni di frumento però, che fino a pochi anni prima furono lo strumento principale del successo politico di Cesare, cominciarono a diminuire drasticamente. Ciò causò un certo malcontento tra la popolazione.

Notevoli malumori si generarono soprattutto all’interno del partito dei cesariani. Alcuni dei più fidati collaboratori di Cesare, come i generali Marco Antonio e Gaio Trebonio, erano stati esclusi dalla campagna militare in Spagna contro i sostenitori di Pompeo o posti in secondo piano durante le azioni belliche, e cominciarono a serbare per questo motivo del risentimento nei confronti del loro stesso comandante, al quale, fino a quel momento, erano sempre stati fedeli.

Tutto questo malcontento nei confronti di Cesare si tramutò in una congiura ai suoi danni. Le fonti dell’epoca narrano che la morte di Cesare fosse stata preceduta da diversi presagi negativi. Vennero infatti scorti per Roma fuochi celesti e udite grida notturne. Svetonio, nella sua opera De vita Caesarum, racconta diversi particolari al riguardo. Il giorno prima dell’attentato a Cesare, sua moglie Calpurnia sognò che la casa le crollava addosso, uccidendo suo marito. Il giorno stesso dell’assassinio Calpurnia pregò Cesare di non recarsi al Senato, ma invano.

Lungo la strada verso la Curia, secondo Plutarco, Cesare venne avvicinato da Artemidoro di Cnido, filosofo e indovino, che gli consegnò un libello nel quale lo ammoniva del pericolo imminente. La lettera non sarebbe stata mai letta, in quanto il dittatore avrebbe rimandato la sua lettura ad un momento più tranquillo (in quel momento era impossibilitato poiché attorniato dalla folla e dalla calca). Forse Artemidoro aveva ricevuto voci sulla congiura. Spesso i Romani chiedevano consiglio agli indovini per affrontare una qualsivoglia impresa; perciò queste figure erano a conoscenza di molte situazioni.

Ad organizzare la congiura fu Gaio Cassio Longino. Ufficiale di Pompeo nella battaglia di Farsalo, Cassio venne perdonato da Cesare e venne nominato praetor peregrinus. Deluso per non esser stato eletto al consolato (nel 44 a. C. Cesare nominò consoli sé stesso e Marco Antonio), cominciò a ordire un piano per eliminare il dittatore. Cassio trovò presto l’appoggio di molti uomini: si trattava di molti ex pompeiani, ma anche di molti (presunti) alleati di Cesare come Gaio Trebonio, Servio Sulpicio Galba, Decimo Lucio Basilo e Marco Giunio Bruto.

Cicerone, storico avversario politico di Cesare, decise di non prendere parte alla congiura, pur sperando nell’eliminazione del dittatore.

I congiurati furono inizialmente incerti se uccidere Cesare in Campo Marzio, oppure se avventarglisi contro all’ingresso del teatro o sulla via Sacra. Quando ci fu la convocazione del Senato per le Idi di marzo (15 marzo del 44 a. C.) nella Curia di Pompeo, i congiurati decisero di compiere l’omicidio in quel giorno e in quel luogo.

Portarono quindi le casse d’armi all’interno del Senato, fingendo che fossero documenti. Presero parte alla congiura più di 60 persone, ma ne parteciparono attivamente all’omicidio non più di 20. Ignaro di tutto, Cesare entrò nel Senato e si sedette al suo seggio. Venne avvicinato quindi dai suoi assassini che finsero inizialmente di chiedergli dei favori.

Mentre Decimo Bruto intratteneva Marco Antonio fuori la Curia per impedirgli di chiamare i soccorsi, al segnale, Publio Servilio Casca Longo sfoderò la lama e si avventò su Cesare, ferendogli superficialmente il collo. Cesare reagì estraendo il suo stilo colpendo al braccio Casca e, secondo Plutarco, esclamò: «Scellerato Casca, che fai?». Casca chiese aiuto al fratello e Cesare ricevette la seconda coltellata, questa volta al petto. Ne seguirono altre 21, per un totale di 23 coltellate.

Cesare cercò di difendersi in ogni modo, ma non appena vide l’amato figlio adottivo Marco Bruto avventarsi contro di lui, si lasciò andare, coprendosi la testa con la toga e abbandonandosi ai suoi assalitori. Cesare morì a 56 anni. Secondo Svetonio, l’ultima frase pronunciata dal dittatore prima di spirare fu riferita proprio a Bruto: «Tu quoque, Brute, fili mi!» («Anche tu, Bruto, figlio mio!»).

Subito dopo l’uccisione di Cesare, i congiurati si riversarono nel Foro, inneggiando alla libertà, per poi ritirarsi la sera sul Campidoglio. Ma la morte di Cesare non consentì un ritorno al passato, poiché il processo di trasformazione dello Stato era ormai inarrestabile. I cesaricidi credettero che il popolo romano li avrebbe acclamati come dei liberatori in quanto uccisori del tiranno, ma si sbagliarono. Le strade divennero deserte e i negozi vennero chiusi.

Pochi giorni dopo (il 19 marzo), Marco Antonio, scampato all’attentato, lesse davanti alla plebe il testamento di Cesare, nel quale venne reso noto che il dittatore lasciava 300 sesterzi a ogni cittadino romano. Il malcontento e la rabbia della popolazione contro i congiurati crebbero ulteriormente.

Fra le ultime volontà di Cesare, vi era la nomina del nipote, Gaio Ottaviano, quale suo erede universale.

Il Senato concesse l’amnistia a tutti i congiurati e decretò onoranze solenni per Cesare. Svetonio sottolinea però che nessun congiurato sopravvisse più di tre anni in seguito al cesaricidio. Molti di essi perirono infatti di morte violenta. La Curia, in cui Cesare venne ucciso, venne in seguito murata e le Idi di marzo vennero rinominate come “Giorno del parricidio”.

In memoria di Cesare, venne innalzata una colonna di marmo con l’iscrizione Parenti Patriae (ovvero “al padre della patria”). In seguito, la colonna venne rimossa e al suo posto fu costruito nel 29 a. C., per volere di suo nipote, l’imperatore Augusto, il tempio del Divo Giulio, dedicato alla figura dello zio, ormai divinizzata.

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