La civiltà romana deve la sua grandezza non solo ai letterati, ai militari e agli uomini di potere, ma anche al contributo significativo di artigiani e artisti che hanno sviluppato competenze e specializzazioni in vari settori.
Medici
I medici dell’antica Roma esercitavano la loro professione visitando i pazienti accompagnati da numerosi discepoli, utilizzando così l’opportunità di insegnare la medicina direttamente sul campo, a spese del malato. Poiché a Roma non esistevano scuole specifiche per la formazione medica, chiunque poteva esercitare questa professione: bastava avere una minima conoscenza dell’argomento e una certa abilità oratoria per convincere i pazienti dell’efficacia delle cure proposte. Queste cure erano preparate e somministrate dallo stesso medico, e spesso consistevano in miscele, unguenti, decotti e infusi a base di erbe e altre sostanze naturali: ad esempio, le radici di anemone erano utilizzate per il mal di denti, per la congiuntivite si preparavano infusi di mammole, mirra e zafferano, mentre per le ferite si applicavano impiastri a base di miele, pane e radici di narciso. In alcuni casi, venivano impiegati anche prodotti di origine animale: per combattere la carie, si consigliava di sciacquare la bocca con sangue di tartaruga, mentre per prevenire la caduta dei capelli si applicava sulla testa un infuso di aceto, vino, laserpizio, zafferano, pepe e sterco di topo, dopo averla strofinata con della soda.
Sebbene le medicine dell’epoca non fossero sempre efficaci, i medici romani, grazie alla loro abilità persuasiva, riuscivano comunque ad ottenere grandi guadagni. Alcuni di loro, specialmente gli specialisti in campi come l’oculistica, l’odontoiatria o la chirurgia, accumularono persino milioni di sesterzi. Nonostante la loro grande richiesta e i lauti compensi, i medici, al pari di architetti, ingegneri, musicisti, scultori e pittori, non godevano di particolare stima nella società romana. Infatti, anche le professioni più libere e intellettuali erano considerate di rango inferiore per un cittadino romano. Per questo motivo, molti professionisti e artisti erano stranieri, e talvolta persino schiavi o liberti.
Questa scarsa considerazione spiega la mancanza di informazioni sui nomi dei grandi architetti, pittori o musicisti romani. Chi fu l’ideatore delle straordinarie e imponenti strutture dell’Anfiteatro Flavio? Ammiriamo questo capolavoro immortale dell’architettura, ma ignoriamo chi lo progettò. Lo stesso vale per molte altre opere, poiché i Romani non facevano distinzione tra la figura del progettista o dell’artista e quella degli esecutori materiali. Per loro, erano tutti considerati semplici funzionari, impiegati o dipendenti.
Avvocati
Nel mondo romano, tre professioni erano considerate di rango superiore: la carriera politica, quella militare e la professione di avvocato. Per un patrizio romano dell’età repubblicana, dedicarsi all’attività forense non era solo un impegno, ma quasi un dovere morale. Questa attività doveva essere svolta senza richiedere alcun compenso, quindi in modo completamente gratuito.
All’alba, nell’atrio della sua dimora, il patrizio accoglieva i suoi clienti; essi si riunivano intorno a lui, lo salutavano e cercavano i suoi consigli, che egli era in grado di offrire grazie alla sua conoscenza del diritto. Poteva spiegare loro come avviare e gestire una causa, come tutelare un diritto violato o come stipulare un contratto. Il patrizio offriva spiegazioni, forniva consigli e, se lo riteneva opportuno, si assumeva personalmente la difesa del suo cliente. Quale vantaggio ne traeva? Il patrizio sapeva che più offriva generosamente questi servizi ai cittadini, più il suo nome sarebbe diventato popolare e apprezzato. Di conseguenza, il popolo lo avrebbe sostenuto nelle elezioni, lo avrebbe acclamato durante i suoi discorsi e lo avrebbe supportato nelle sue battaglie politiche.
Considerando che le attività praticate dai patrizi non erano mestieri o professioni che garantivano un guadagno immediato, è naturale chiedersi: da dove proveniva il loro denaro? La risposta è semplice e comune a tutti: vivevano di rendita, ovvero dai redditi generati dai loro vasti possedimenti terrieri e dagli incarichi pubblici che ricoprivano. Questi privilegi venivano spesso concessi dallo Stato come ricompensa per particolari imprese o meriti.
Oltre ai patrizi, c’era un’altra categoria di cittadini romani che viveva senza un lavoro specifico e senza i problemi che affliggevano i patrizi, sempre coinvolti in complesse lotte politiche: erano i numerosi plebei mantenuti dall’Annona, il sistema statale di distribuzione di beni alimentari. Questi cittadini non avevano altro compito che recarsi, in un determinato giorno del mese, presso l’ufficio competente per ritirare la tessera dell’Annona, che dava loro diritto a ricevere gratuitamente il cibo per sé e per le loro famiglie.
Ma perché lo Stato romano si preoccupava tanto di soddisfare questa necessità del popolo? La risposta sta in una strategia politica: garantire il sostegno e mantenere il favore di questa vasta parte della popolazione. Tuttavia, con una città come Roma, che contava più di un milione di abitanti, rimane la domanda: cosa facevano tutti gli altri cittadini?
Commercianti
I principali commercianti e industriali romani possedevano ricchezze comparabili a quelle dei patrizi, e per i loro affari erano in grado di costruire o noleggiare intere flotte navali. Importavano una vasta gamma di merci: grano dall’Egitto, frutta, verdura e vino dall’Italia, legname e lana dalla Gallia, marmi dalla Toscana e dalla Grecia, olio, piombo, argento e rame dalla Spagna, ambra dal Baltico, vetro dalla Fenicia, incenso dall’Arabia, datteri, papiri e avorio dall’Africa, e spezie, coralli, gemme e sete dall’Asia.
Durante l’epoca di Traiano, sembra che la maggior parte delle donne a Roma non fosse impegnata in attività particolari al di fuori dell’ambito domestico. Le donne di modesta condizione si dedicavano principalmente alle faccende domestiche, mentre le matrone più ricche, servite da numerosi schiavi, erano libere da obblighi domestici e potevano disporre del loro tempo come desideravano, frequentando le terme, passeggiando o visitando le amiche.
Nella città di Roma, esistevano grandi strutture di stoccaggio, chiamate horrea. Questi magazzini ospitavano diverse merci ed erano spesso affiancati dalle botteghe dei mercanti all’ingrosso. Da questi punti di distribuzione partiva una vasta rete di lavoratori: dai negozianti al dettaglio ai manovali che si occupavano della manutenzione degli edifici dei magazzini, fino ai laboratori degli artigiani che lavoravano e raffinavano le materie prime prima di destinarle alla vendita.
Bottegai e artigiani
Nella Roma antica, bottegai e artigiani spesso coincidevano nella stessa persona; chi creava un prodotto, infatti, lo vendeva direttamente al pubblico. Possiamo immaginare questa moltitudine di uomini e donne impegnati a lavorare, discutere, faticare, ridere, vendere, comprare, contrattare, litigare e chiacchierare. Percorrendo le strade della Suburra, il quartiere più popolare di Roma antica, o quelle del vecchio centro come il Vicus Tuscus e il Vicus Lugarius, ci troveremmo in vie strette e sempre affollate, piene di vita. Qui, bambini intenti a giocare, venditori ambulanti e ciarlatani contribuivano al frastuono e alla confusione.
Camminando per queste strade, ci troveremmo tra file ininterrotte di negozi: orefici, fabbri, vasai, mobilieri, tintori, cuoiai, venditori di specchi, oggetti in avorio, corone di fiori, sandali, mantelli, cosmetici e medicinali. Avremmo incontrato anche panettieri, pasticceri, macellai, pescivendoli e osti. Inoltre, avremmo visto venditori ambulanti di acqua, vino e salsicce, e sarebbero stati visibili i cantieri dove capomastri, muratori, stuccatori e mosaicisti lavoravano instancabilmente.
Il termopolio: l’antico bar romano
Nelle fredde giornate invernali, anche nella Roma dal clima mite, i passanti cercavano rifugio dal freddo in luoghi accoglienti. Proprio come oggi ci si rifugia in un bar per una bevanda calda, così duemila anni fa i romani trovavano ristoro nel termopolio, un’antica bottega simile ai nostri bar. Qui, si poteva sorseggiare una tazza di vino o altre bevande calde.
Il termopolio, che si affacciava direttamente sulla strada, presentava un bancone rivestito di marmi colorati. Sul piano del bancone si trovavano dei fori circolari, simili a quelli dei vecchi banchi dei gelatai, dove venivano inserite le anfore da cui l’oste serviva le bevande ai clienti. A un’estremità del bancone, si ergevano gradini in muratura che fungevano da vetrina per la pasticceria, esponendo dolci come pasticci di miele e cacio, di miele e farina, e di mosto cotto.
Dietro al bancone, spesso c’era un piccolo locale con tavolini, dove i clienti, perlopiù appartenenti alle classi più umili, come artigiani e gladiatori, si riunivano per chiacchierare animatamente o per sfidarsi in lunghe e accese partite ai dadi.
Le Botteghe dei Tonsores: I barbieri dell’antica Roma
Marziale, con il suo tipico sarcasmo, non risparmiava critiche ai tonsores, i barbieri dell’antica Roma: «Le cicatrici che vedete sul mio mento, simili a quelle di un vecchio pugile, sono tutte opere del rasoio del barbiere e della sua mano maldestra. Solo il caprone, tra gli esseri viventi, è saggio: conserva la sua barba e sfugge al boia.» Le sue parole, pur esagerate, contengono una dose di verità: gli strumenti utilizzati dai tonsores erano davvero rudimentali. Le forbici, prive del perno che unisce le due lame e degli anelli per le dita, funzionavano più per fortuna che per abilità. I rasoi, fatti di ferro e affilati su pietre, non erano certo paragonabili alle moderne lame. Il loro materiale spiega anche perché ne siano stati ritrovati pochi: molti si disintegrarono per la ruggine. Sono invece numerosi i rasoi etruschi e di altre antiche civiltà, realizzati in bronzo.
Si narra che i primi tonsores a Roma provenissero dalla Sicilia e che le loro botteghe abbiano iniziato a diffondersi intorno al III secolo a.C. Fino ad allora, gli uomini romani lasciavano crescere liberamente capelli, barba e baffi. Con il tempo, la moda di radersi e tenere i capelli corti prese piede e si mantenne fino al II secolo d.C. Le botteghe di tonsore divennero numerose; le più economiche addirittura operavano all’aperto. Possiamo immaginare quanto fosse complicato eseguire un lavoro così delicato in mezzo al frastuono dei passanti.
Attorno alla bottega, i clienti in attesa si sedevano su panche, mentre il “fortunato” di turno si posizionava al centro. Senza alcuna insaponatura o unzione per ammorbidire i peli, iniziava il trattamento, che spesso somigliava più a una scorticatura che a una rasatura. Al massimo, si inumidiva il viso con acqua fredda. Nonostante tutto, la sosta dal tonsore non era poi così spiacevole: era un’occasione per ritrovarsi, discutere delle ultime elezioni consolari, delle vittorie al Circo Massimo o delle imprese militari, in un clima di continua conversazione e pettegolezzo. Anche il tonsore partecipava alle discussioni, prolungando così le sedute per ore intere.