Gli acquedotti di Roma

Gli acquedotti sono tra le opere più imponenti e significative di tutta l’epoca romana. Con essi si arrivò ad una vera e propria cultura del trasporto delle acque, un sistema idrico tecnologicamente sofisticato unico nel mondo antico. In tutto il territorio dell’impero ne furono costruiti oltre duecento e solo a Roma ne esistevano ben undici. Alla fine del I secolo d.C. la tecnologia portò Roma ad immagazzinare quasi un milione di metri cubi di acqua potabile che giungeva ogni giorno in città, quasi mille litri per abitante.
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Nel video che segue Alberto Angela ci svelerà i segreti dell’approvvigionamento delle acque nella capitale dell’impero, attraverso i secoli, fino ai giorni nostri.
Lo scrittore e politico Giulio Sesto Frontino nel 96 d. C., nel suo De aquaeductu urbis Romae (Sugli acquedotti della Città di Roma), ci fornisce un rapporto ufficiale sullo stato degli acquedotti di Roma redatto in due libri. È l’unico rapporto ufficiale di un’indagine fatta da un illustre cittadino sulle opere di ingegneria romana che sia sopravvissuto ai giorni nostri.
Non a caso Frontino era stato nominato curator aquarum dall’imperatore Nerva proprio nel 96 d.C..
Grazie anche ai suoi scritti, possiamo ancora oggi tracciare una mappa degli acquedotti romani e delle loro caratteristiche (architettoniche e funzionali).
Gli acquedotti di Roma furono strutture imponenti e sofisticate, tali da renderle, anche a distanza di 1.000 anni dalla caduta dell’Impero, ineguagliate sia a livello tecnologico che qualitativo. Frontino arrivò addirittura a scrivere che gli acquedotti romani fossero: «la più alta manifestazione della grandezza di Roma».
In precedenza, per diversi secoli, il Tevere, le sorgenti ed i pozzi furono in grado di soddisfare il fabbisogno idrico della città, ma con lo sviluppo urbanistico e la crescita demografica è stato necessario ricorrere ad altre fonti: fu allora che, grazie all’abilità dei suoi costruttori, si realizzarono gli acquedotti. Da quel momento in poi, ovvero dal 312 a.C., affluì a Roma una quantità enorme di acqua potabile. Con ogni probabilità nessun’altra città del mondo antico, ma forse di ogni epoca, ricevette mai una quantità d’acqua del genere; questo valse a Roma il titolo di regina aquarum, ossia “regina delle acque”.
Ma come iniziava il lavoro di realizzazione di un acquedotto? Innanzitutto, bisognava scegliere la sorgente e le vene acquifere da utilizzare, le quali dovevano essere molto alte per fornire la giusta pendenza alla conduttura che doveva trasportare l’acqua fino a Roma (era essenziale ovviamente anche la qualità dell’acqua). Una volta selezionata la sorgente, iniziava la costruzione dell’acquedotto, detto caput aquae. All’inizio come alla fine dell’acquedotto vi erano le cosiddette camere di decantazione o piscinae limariae, nelle quali l’acqua subiva un processo di purificazione grazie al deposito delle impurità più grossolane. Dalla piscina partiva il canale di conduzione, lo speco (specus): costruito in pietra o in muratura e foderato di cocciopesto, lo speco doveva mantenere una pendenza costante per assicurare il continuo flusso dell’acqua. Inoltre, la maggior parte del percorso della condotta era sotterraneo, per evitare che nel periodo estivo l’acqua si surriscaldasse troppo (era eccezionalmente a cielo aperto quando attraversava dorsali collinari, corsi d’acqua o vallate).
Per far fronte ai dislivelli causati da zone depressive o da vallate, i Romani utilizzavano il sistema del sifone, o “sifone rovescio”: l’acqua aumentava la propria pressione all’interno di una “torre” posta all’estremità della valle da attraversare, a quel punto scendeva in condotta forzata per risalire all’estremità opposta della valle con una pressione tale da consentire la prosecuzione del flusso.
Per la manutenzione dei condotti (in particolare per eliminare l’accumulo di calcare che a lungo andare poteva ostruire lo speco), vi erano dei tombini muniti di piccole scale che garantivano la discesa degli addetti ai lavori nel canale.
Come accennato prima, la condotta principale terminava in un “castello” (castellum aquae), una imponente costruzione a forma di castello, al cui interno vi erano camere di decantazione e una vasca, che avevano il compito di depurare l’acqua per poi immetterla nelle condutture urbane. Dal castello partivano le diramazioni urbane verso castelli secondari. Molto spesso presso il castello terminale veniva innalzata una “mostra d’acqua”, una fontana monumentale creata per celebrare lo sbocco dell’acquedotto in città.
Cominciamo ora con l’elencare gli acquedotti romani, seguendo l’ordine cronologico pervenutoci da Frontino.
L’acquedotto Appio (Aqua Appia) fu il più antico costruito a Roma per far fronte alla penuria d’acqua che si verificò in seguito all’aumento della popolazione. Ideato e impostato dal censore C. Claudius Venox, scopritore delle sorgenti tra l’VIII e il IX miglio della via Prenestina, fu invece costruito da Appio Claudio Cieco (lo stesso che creò la Via Appia) nel 312 a. C., suo collega di consolato. Molti ritengono che la sorgente fosse nei pressi della località detta “La Rustica”, ma non vi è la certezza assoluta, poiché ormai prosciugata. Il condotto, lungo più di 16 km, era quasi del tutto sotterraneo, tranne per un breve tratto nei pressi di Porta Capena. Questi entrava a Roma nella località ad Spem Veterem (“presso la Speranza Antica”), situata dove oggi vi è Porta Maggiore. Da qui, dopo aver superato l’avvallamento tra i colli Celio e Aventino, terminava presso Porta Trigemina nell’area del Foro Boario, dove circa venti “castelli” smistavano l’acqua all’utenza pubblica. Fu restaurato tre volte: nel 144 a.C. da Quinto Marcio Re, nel 33 a.C. da Agrippa e tra l’11 ed il 4 a.C. da Augusto. L’acquedotto Appio aveva una portata di 876 litri al secondo.
Il secondo della lista è l’Aniene Vecchio (Anio vetus), edificato circa 40 anni dopo il primo, nel 272 a. C.. Costruito dai censori Manio Curio Dentato e Flavio Flacco, due magistrati appositamente nominati dal Senato, il suo nome evidenzia la sua origine dall’Aniene nella località di San Cosimato, tra Vicovaro e Mandela. Il suo condotto era lungo circa 63 km e, dopo aver percorso i territori di Tivoli e Gallicano, fiancheggiava la via Prenestina, raggiungeva la via Latina, entrava in città in località Spes Vetus e attraversava l’Esquilino, per poi terminare nelle vicinanze della stazione Termini. La qualità dell’acqua dell’Anio Vetus non fu mai molto apprezzata dai Romani a causa della sua frequente torbidezza, tanto che successivamente, quando vennero condotte in Roma acque migliori, questa fu destinata prevalentemente ad usi non potabili, quali l’irrigazione e l’alimentazione delle fontane di ville e giardini (come ad esempio gli Horti Asiniani).
Il terzo è l’acquedotto Marciano, o Acqua Marcia (Aqua Marcia), che venne costruito dal pretore Quinto Marcio Re nel 144 a. C.. La sua acqua proveniva sempre dall’Aniene ma, diversamente dall’Anio Vetus, non attingeva direttamente dal fiume, bensì da sorgenti abbondanti e di ottima qualità situate nei pressi di Marano Equo. Il percorso dell’acquedotto prevedeva una parte sotterranea e una su arcate, per una lunghezza complessiva di 91 km. Per la prima volta si ricorse all’uso degli archi, con una fila ininterrotta di 9 km, che fiancheggiavano la via Latina, fino allo Spem Veterem. Seguiva poi le Mura Aureliane, arrivava alla Porta Tiburtina e raggiungeva poi il “castello” vicino a Porta Collina. Un ramo secondario forniva l’Aventino e il Celio. Plinio il Vecchio definì la sua acqua come «clarissima aquarum omnium»; infatti era reputata dai Romani probabilmente come la migliore. Resti dell’Aqua Marcia sono oggi visibili soltanto presso il Casale di Roma Vecchia o Villa dei Quintili, in vicolo del Mandrione, a Porta Maggiore ed a porta Tiburtina.
Il quarto acquedotto, l’ultimo dell’età repubblicana, era l’Aqua Tepula. Realizzato nel 125 a.C. dai censori Gneo Servilio Cepione e Lucio Cassio Longino, il suo nome gli fu attribuito a causa della temperatura “tiepida” dell’acqua che scaturiva dalle sorgenti identificate con quelle dette “delle Pantanelle” e “dell’Acqua Preziosa”, tra Grottaferrata e Marino. L’acquedotto Tepulo, sotterraneo fino ai tempi di Augusto, misurava circa 18 km ed era in parte comune a quello della Marcia. Fu ristrutturato nel 33 a. C. da Marco Vipsanio Agrippa. Anch’esso giungeva in città alla Spes Vetus, seguendo lo stesso percorso dell’acqua Marcia. La sua capacità era di 17.800 m3, una delle più basse.
C’era poi l’acquedotto Iulio (Aqua Iulia), che prese il nome dalla gens Iulia in onore di Augusto e fu creato da Agrippa nel 33 a.C.. La sorgente, che sgorgava nella via Latina al XII miglio, è identificata adesso nelle vicinanze del ponte degli “Squarciarelli”, a Grottaferrata. Il condotto correva unito a quello della Tepula in un condotto sotterraneo fino alla piscina limaria situata al VII miglio della “via Latina”, nell’odierna zona delle Capannelle. Qui la Iulia tornava indipendente dalla Tepula. Insieme i due acquedotti riuscivano a rifornire Quirinale, Campidoglio, Esquilino, Celio, Palatino e Foro Romano. Una diramazione dell’acquedotto alimentava la fontana nota come Trofei di Mario.
Il sesto acquedotto è l’Aqua Virgo. Come quello dell’Aqua Iulia, fu costruito da Agrippa e inaugurato il 9 giugno del 19 a.C.. La sua principale funzione doveva essere quella di rifornire le Terme di Agrippa, nella zona del Campo Marzio. Secondo un’antica leggenda raccontata da Frontino, l’acquedotto assume il nome di “Vergine” in onore di una giovane che indicò ai soldati, che ne andavano in cerca, il luogo delle sorgenti. Più verosimilmente lo si deve alla purezza ed alla leggerezza delle sue acque, all’epoca prive di calcare.
Le sorgenti erano situate all’VIII miglio della via Collatina, nell’odierna zona di Salone ed il percorso era lungo circa 20 km. Dopo un lungo ed ampio giro (attraversava via Collatina, via di Portonaccio, Pietralata, la Nomentana e la via Salaria), giungeva in città alle pendici del Pincio. Attualmente l’Aqua Virgo alimenta la Fontana di Trevi.
L’acquedotto Alsietino (Aqua Alsietina), o Aqua Augusta, venne costruito nel 2 a.C. da Augusto per il servizio della naumachia, il lago artificiale per gli spettacoli di combattimenti navali, che l’imperatore aveva appena fatto realizzare nella zona di Trastevere. La sua acqua (proveniente dai laghi di Martignano e di Bracciano) era infatti torbida ed insalubre, e quando non veniva utilizzata per la naumachia, era destinata per le colture e l’irrigazione delle fontane, come i “giardini di Cesare”, il parco che Cesare stesso rese pubblico dopo la sua morte.
Quasi completamente sotterraneo, il percorso (lungo circa 33 km) seguiva la via Cassia e la via Trionfale per giungere, infine, nell’area che oggi è occupata dalla Villa Doria Pamphili, entrando in città nei pressi di Porta San Pancrazio, proseguiva poi per Trastevere fino all’odierna piazza di San Pancrazio, dove era presente il bacino per la naumachia.
L’acquedotto Claudio (Aqua Claudia) venne fatto costruire dall’imperatore Caligola nel 38 d. C., ma venne terminato solamente nel 52 d. C. da Claudio. Con ogni probabilità è l’acquedotto più importante di Roma, sia per le tecnologie utilizzate che per l’ingente quantità di denaro spesa per la sua realizzazione.
La sua acqua proveniva dal XXXVIII miglio della via Sublacense, tra Marano Equo e Àrsoli, in prossimità delle sorgenti dell’Aqua Marcia. Il percorso di questo acquedotto era di 68 km (15 dei quali a cielo aperto). Il condotto seguiva il corso del fiume Aniene, giungendo a Tivoli e da qui andava verso la via Prenestina, la via Latina e verso i Colli Albani. Nella località di Capannelle, per più di 4 km, l’acquedotto aveva un andamento su arcate, tutt’oggi ancora in parte visibili nel Parco degli Acquedotti. Proprio le arcate vennero restaurate dai Flavi, da Adriano e soprattutto da Settimio Severo e da Caracalla nel 211 d.C.. In città l’acqua entrava sempre dalla zona di Spes Vetus, Porta Maggiore.
Anche l’Aniene Nuovo (Anio Novus) fu iniziato da Caligola nel 38 d. C. e terminato da Claudio nel 52 d. C., il quale decise di dedicare quest’acquedotto all’Aniene, con l’appellativo novus per distinguerlo da quello già in funzione che divenne Vetus (ossia “vecchio”). Questo acquedotto era lungo circa 87 km, mentre le sue sorgenti erano collocate presso l’alta valle dell’Aniene. L’acqua era prelevata direttamente dal fiume: questo significava che spesso giungeva a Roma piuttosto torbida. Per eliminare tale inconveniente, l’imperatore Traiano fece spostare la captazione, traendo l’acqua non più dall’Aniene, ma da un limpido laghetto presso Trevi (all’epoca conosciuta come Treba Augusta).
L’acquedotto Traiano (Aqua Traiana) fu costruito nel 109 d. C. da Nervia Ulpio Traiano per rifornire di acqua potabile la zona di Trastevere, visto che, come abbiamo già visto, l’acqua dell’acquedotto Alsietino era insalubre. Le sorgenti utilizzate erano quelle situate sul versante occidentale del lago di Bracciano. Il condotto, lungo 32 km, dopo aver attraversato Cesano, l’Olgiata, La Storta e La Giustiniana, raggiungeva il Gianicolo. L’acquedotto rimase in funzione fino all’arrivo dei Goti nel 537 d. C.. Nel XVII secolo fu completamente ristrutturato per volere di Papa Paolo V (che in realtà voleva portare acqua ai giardini della sua residenza) e, in suo onore, prese il nome di Acqua Paola.
L’ultimo degli undici acquedotti costruiti nell’antica Roma fu l’acquedotto Alessandrino. Edificato nel 226 d. C. dall’imperatore Alessandro Severo, lo scopo della sua costruzione era quello di rifornire di acqua le Terme Alessandrine. Le acque giungevano da Pantano Borghese (3 km da Colonna) e arrivavano a Roma dopo un percorso di 22 km, passando per la via Prenestina, via Labicana fino a Porta Maggiore. La sua piscina limaria, con ogni probabilità, si trovava nella zona delle Terme Eleniane. Da qui l’acquedotto passava per Termini e per il Quirinale, discendeva poi la valle e raggiungeva le Terme Alessandrine. Le sue arcate erano in laterizio, elemento potente e ma al tempo stesso leggero, che consentì di realizzare un percorso più rettilineo. Nel XVI secolo l’acquedotto fu riutilizzato da papa Sisto V per la costruzione dell’Acqua Felice, il primo acquedotto romano dell’età moderna.