Dopo la morte misteriosa di Valentiniano II nel 392 d.C. a Lione, Flavio Eugenio venne proclamato augusto d’Occidente. Il suo potere era sostenuto dal Magister militum franco Arbogaste e, per la sua fede pagana, ottenne anche l’appoggio politico della fazione pagana della nobiltà romana, in particolare di Virio Nicomaco Flaviano, che Eugenio nominò prefetto del pretorio di Roma.
Eugenio tentò di stabilire relazioni con Teodosio, augusto d’Oriente, inviando ambascerie e cercando una riconciliazione diplomatica tra le due metà dell’Impero. Tuttavia, Teodosio, deciso difensore del cristianesimo, aveva avviato una politica di repressione contro i culti non cristiani, specialmente il paganesimo. Eugenio, al contrario, promosse una politica di tolleranza religiosa, consentendo il culto cristiano ma riaprendo anche i principali templi di Roma e ristabilendo la celebrazione dei Saturnali. La sua avanzata in Italia, ormai ridotta a provincia sotto l’influenza del vescovo di Milano, Ambrogio, spinse quest’ultimo a rifugiarsi a Costantinopoli, nella parte orientale dell’Impero.
Teodosio, forse su consiglio di Ambrogio e certamente in linea con gli editti religiosi emessi negli anni precedenti, non accettò l’”usurpatore” Eugenio come capo della pars occidentalis dell’Impero. Così radunò un esercito di circa 100.000 uomini per affrontarlo, composto in gran parte da foederati barbari, tra cui Alani, Goti e Iberici del Caucaso. A queste truppe, Teodosio garantì un ingresso massiccio nei territori imperiali e, come ricompensa dopo la battaglia, concesse loro numerosi privilegi e terre.
Sant’Agostino, in De civitate Dei (V, 26), racconta che “i soldati presenti riferirono che il vento soffiava violentemente dalla parte delle schiere di Teodosio, strappando giavellotti e dardi dalle mani dei nemici, i quali addirittura venivano colpiti dalle proprie frecce spinte contro di loro.” Claudiano, poeta non cristiano, scrisse nel panegirico che il favore divino aveva inviato un “ciclone in armi” per assistere Teodosio in battaglia.
Da parte loro, Abrogaste ed Eugenio, pur disponendo di un esercito numericamente inferiore, riuscirono a radunare una forza composta quasi interamente da legionari romani e da contingenti di Franchi e Alemanni. Schierarono le truppe in posizione vantaggiosa lungo le Chiuse delle Alpi Giulie, le fortificazioni costruite da Aureliano nel secolo precedente per difendere l’Italia dalle incursioni del nord.
Il 5 e 6 settembre 394, le forze di Teodosio ed Eugenio si scontrarono sul fiume Frigido, vicino all’attuale Gorizia. La prima giornata si rivelò disastrosa per l’esercito di Teodosio, nonostante la superiorità numerica: la disposizione iniziale dei Goti in prima linea e la difficoltà del terreno impedirono un efficace schieramento, portando a ingenti perdite di oltre 10.000 Goti e di numerosi altri alleati, lasciando l’esercito teodosiano quasi completamente accerchiato.
Durante la notte, un soldato alemanno disertò dall’esercito di Abrogaste e passò a Teodosio, attratto dalla promessa di un cospicuo compenso. Inoltre, la Bora, un vento freddo e violento, si alzò la mattina seguente, ostacolando le forze difensive che non riuscivano più a lanciare frecce e giavellotti. Questo evento favorì l’avanzata delle truppe orientali, che con la loro superiorità numerica sopraffecero le forze romane di Eugenio. Alla fine, Eugenio venne catturato e decapitato dai soldati di Costantinopoli; Abrogaste, dopo due giorni di fuga sui monti, si tolse la vita, mentre Virio Nicomaco Flaviano fece lo stesso. A Roma, il sogno di un ritorno al paganesimo e di una pace religiosa si infranse definitivamente.
Sant’Agostino, nel De civitate Dei (V, 26), scrisse: “Dopo la vittoria, Teodosio abbatté gli idoli di Giove, i quali erano stati volutamente consacrati in vista della sconfitta nemica, e li donò agli inviati di Costantinopoli, scherzando, giacché essi erano d’oro e dicevano di voler essere colpiti dai fulmini che quegli idoli rappresentavano.”
Le conseguenze di questo conflitto furono gravi: le fortificazioni alpine non vennero mai più ricostruite, e questo consentì ai Goti — gli stessi che avevano combattuto in questa battaglia — di invadere l’Italia anni dopo, devastare la Grecia, assediare e infine saccheggiare Roma.
Ambrogio tornò a Milano e proseguì con la demolizione dei templi pagani e la cristianizzazione delle terre sotto la sua influenza, attribuendo la devastazione dell’Italia non alla sua politica, ma alla collera divina contro i “pagani usurpatori” e alla cattiva gestione dei contingenti federati.