La Battaglia delle Forche Caudine (321 a.C.)

La Battaglia delle Forche Caudine


I romani stavano espandendo la loro influenza nella penisola italica. Non era ancora presente nei loro cuori quel desiderio di conquista che sarebbe poi sfociato nell’istituzione di un impero e di una programmatica sottomissione di ogni popolazione alla Repubblica ma già si intravedeva quel sistema di alleanze tipico della politica estera militare condotta da Roma per molto tempo.

I Sanniti, popolazione prevalentemente dedita alla pastorizia, occupava la fascia centro-meridionale dell’Italia antica, costituendo un blocco dal Mar Tirreno campano al Mar Adriatico pugliese; in quanto allevatori i Sanniti conoscevano molto bene la montagna appenninica su cui pascolavano i loro armenti. Quando i romani e i Sanniti vennero a conflitto si generò una situazione militare assai particolare: le truppe repubblicane riuscirono quasi immediatamente ad assicurarsi il controllo delle zone pianeggianti controllate dai Sanniti nell’attuale Campania, ma faticavano a superare i contrafforti montani. Le operazioni ben presto stagnarono e si attestò una linea di confine nelle valli del Liri e del Volturno.

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Nel 325 a. C. però un contingente romano tentò una vasta manovra di aggiramento: attraversati gli Appennini centrali nella zona del Lago Fucino, le legioni giunsero nelle valli costiere adriatiche, preparando una sortita alle “spalle” del fronte difeso dai Sanniti. Durante la traversata delle montagne i romani si allearono con i Marsi e con i Peligni e sottomisero, una volta giunti sul versante adriatico, la popolazione dei Vestini. I romani infatti volevano attaccare direttamente l’Apulia, cuore pulsante della confederazione di popoli appenninici. I Sanniti tuttavia, sapendo di giocarsi la partita nel corso di quello scontro, anticiparono la propria offensiva contro le file dei romani e riuscirono eroicamente a fermarne l’avanzata.

Quattro anni più tardi un contingente romano di circa 20 mila uomini (considerati anche gli alleati) partì da Capua deciso a trovare una via breve per giungere in Apulia e attaccare il centro nevralgico del dominio sannita. Ma nel passo delle Forche Caudine, una stretta gola fra due versanti molto ripidi, la coalizione romana cadde in un agguato e si trovò in una situazione estremamente sfavorevole che non vedeva altra soluzione che la resa incondizionata al nemico.

Il prezzo del riscatto fu altissimo: i soldati romani sconfitti dovettero sfilare sotto un gioco composto da lance vestiti solo della loro tunica. Inoltre, dopo l’umiliazione subita, i Sanniti tennero come ostaggio 600 cavalieri e presero possesso degli avamposti romani nelle valli del Liri e del Volturno.

«Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli ostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando […] Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi, sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore. » Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 5-6

BATTAGLIA DELLE FORCHE CAUDINE (321 a.c.) | romanoimpero.com

Per secoli le Forche Caudine divennero il simbolo dell’umiliazione al nemico e della sottomissione più grave e, nonostante non ci fossero state perdite umane, rimasero scolpite nella memoria dei romani come una delle più pesanti sconfitte subite nel corso della storia della Città Eterna.

«Già anche a Roma era giunta la fama della vergognosa disfatta. Dapprima avevano saputo che erano stati circondati; poi più doloroso che l’annuncio del pericolo era giunto quello della pace ignominiosa. Alla notizia dell’assedio si era cominciata a tenere la leva, ma quando si apprese che era avvenuta una resa così disonorante, fu interrotto l’allestimento dei rinforzi, e subito senza attendere alcuna decisione ufficiale il popolo unanime si abbandonò ad ogni manifestazione di lutto: furono chiuse le botteghe intorno al foro, e sospesi spontaneamente gli affari pubblici prima ancora che venisse dato l’ordine; furono deposte le toghe orlate di porpora e gli anelli d’oro; i cittadini erano quasi più addolorati che lo stesso esercito, e non solo erano adirati contro i comandanti e contro gli autori e i garanti della pace, ma odiavano pure i soldati innocenti, ed affermavano che non si dovevano accogliere nella città né dentro le case. Ma il risentimento degli animi fu troncato dall’arrivo dell’esercito, che suscitò la compassione anche dei più irati. Infatti entrati a tarda sera in città, non come gente che contro ogni speranza ritornava in patria sana e salva, ma con aspetto e volto di prigionieri, si rinchiusero nelle loro case, e né l’indomani né i giorni successivi nessuno di loro volle vedere il foro o la pubblica via. I consoli, nascosti nella loro abitazione, non compirono alcun atto inerente alla carica, tranne ciò che un decreto del senato aveva prescritto, di nominare un dittatore per presiedere i comizi. Nominarono Quinto Fabio Ambusto, e maestro della cavalleria Publio Elio Peto; ma essendovi stata un’irregolarità in questa nomina, furono sostituiti dal dittatore Marco Emilio Papo e dal maestro della cavalleria Lucio Valerio Flacco. Neppure questi ultimi tennero le elezioni, e poiché il popolo era insofferente di tutti i magistrati di quell’anno, si ebbe un interregno. Furono interré Quinto Fabio Massimo e Marco Valerio Corvo, il quale proclamò consoli Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore per la seconda volta, eletti col consenso unanime della cittadinanza, poiché erano i più insigni generali di quel tempo.» Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri, IX, 7, 7-15

Ma non ci furono unicamente risvolti negativi in conseguenza a tale famigerata battaglia: la pace “caudina” generò una sorta di riforma all’interno dell’esercito e nella società tribale da cui provenivano i combattenti. Come primo aspetto gli effettivi di fanteria aumentarono da due a quattro legioni, ciascuna composta da 4200 soldati, portando il loro totale a più di 15 mila guerrieri; considerando che una forza pari veniva reclutata tra le popolazioni alleate di Roma, il totale degli effettivi arruolabili durante una campagna giunse a 35/40 mila uomini, un numero stratosferico per il contesto italico del IV secolo a.C. Inoltre proprio durante i quattro anni di pace che seguirono le Forche Caudine si mise a punto l’ordinamento dell’esercito per manipoli (composti da due centurie, in totale 120 hastati e 60 triarii), vera e propria innovazione bellica di questo periodo, che permise ai romani una maggior capacità di manovra delle file armate. Infine furono fondate due nuove tribù, la gens Faleria e la Ufentina, cui furono affidati il controllo e il governo delle terre coltivabili della Campania settentrionale e del medio corso del Liri.

Dopo queste innovazioni i romani aprirono nuovamente le ostilità contro i Sanniti nel 316 (cinque anni dopo il trattato delle Forche Caudine) e nell’anno successivo tentarono nuovamente una manovra di aggiramento per giungere in Apulia, ma i loro piani furono mandati in fumo da una colonna volante del nemico che mosse da Fregelle (avamposto di fondazione romana sottratto ai nemici in seguito al 321) alla costa in modo da tagliare le linee di comunicazione tra Roma e Capua.

Ci vollero altri dieci anni di guerra per giungere alla conclusione di quella che passò alla storia come seconda guerra sannitica, ma nessun evento di tale conflitto diventerà più famoso e noto della resa delle Forche Caudine.

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