La Battaglia del Trebbia (218 a.C.)

La Battaglia del Trebbia (218 a.C.)

Nel 218 a.C., un giovane generale cartaginese, dotato di straordinarie abilità strategiche, riuscì a portare il suo esercito nel cuore dell’Italia, in territori controllati dagli alleati di Roma. Il suo nome era Annibale Barca.

Annibale superò le Alpi in pieno autunno, marciando a una velocità impressionante e riuscendo così a eludere le forze romane, che avevano tentato di intercettarlo a Marsiglia. Sconfisse le tribù celtiche delle montagne e riuscì a convincere le tribù galliche cisalpine a schierarsi contro Roma. Con una pianificazione meticolosa e determinazione implacabile, Annibale minacciava ora la Repubblica, facendo tremare il senato romano davanti a questa imminente sfida.

Sul fiume Ticino, Annibale trovò ad attenderlo il console Publio Cornelio Scipione, noto alla storia come il padre di Scipione l’Africano, futuro vincitore di Annibale nella battaglia di Zama, vicino a Tunisi, nel 202 a.C., sedici anni dopo.

La vera forza segreta di Annibale era la cavalleria numidica, composta da cavalieri leggeri armati di scudo e giavellotto, che montavano cavalli piccoli ma incredibilmente agili. La loro velocità di attacco e ritirata era implacabile. Il primo scontro con l’avanguardia delle legioni romane fu sanguinoso e traumatico per i Romani, e lo stesso Publio Cornelio Scipione rimase ferito. Preoccupato dall’idea di affrontare i numidi in una battaglia campale, il console decise di ritirarsi verso Piacenza, per sfruttare le colline a sud del fiume Po come difesa naturale.

La situazione era disperata, e il Senato decise di richiamare l’altro console, Tiberio Sempronio Longo, per supportare il ferito comandante dell’esercito, Publio Cornelio Scipione.

Pochi giorni prima del solstizio d’inverno, lungo le rive del Trebbia vicino a Piacenza, i due eserciti si fronteggiavano, pronti alla battaglia. I comandanti romani erano divisi: Sempronio, bramoso di gloria prima della scadenza del suo mandato, voleva attaccare subito, mentre Scipione, ancora indebolito e consapevole della forza dell’avversario, preferiva un approccio più cauto.

All’alba, la cavalleria numidica di Annibale lanciò una serie di incursioni e ritirate strategiche oltre il fiume. Sempronio, impaziente, ordinò ai suoi 40.000 soldati, inclusi 4.000 cavalieri, di attraversare il Trebbia e prepararsi allo scontro. I legionari, appena svegli in una gelida mattina di dicembre e ancora a digiuno, entrarono nel fiume con l’acqua fino al petto; molti già cedevano per il freddo e la fatica. Ma una volta oltre il fiume, si prepararono a combattere. Annibale aveva circa 20.000 fanti, inclusi frombolieri e arcieri, insieme a 10.000 cavalieri e 37 elefanti. La vista dell’esercito cartaginese diede ai Romani una breve speranza di vittoria. La cavalleria romana si dispose sui fianchi per proteggere la fanteria pesante, con i velites in prima linea pronti a contrastare gli elefanti.

Improvvisamente, alle spalle dei Romani, si udì uno squillo di trombe. Annibale aveva inviato suo fratello, con mille fanti e altrettanti cavalieri, lungo i lati della pianura del Trebbia, nascondendoli tra la vegetazione e le canne palustri. Ora, il contingente cartaginese colpiva i Romani alle spalle, bloccando la loro ritirata e isolandoli dal grosso delle forze di Cornelio. Con un’altra mossa strategica, Annibale posizionò gli elefanti sul fianco sinistro, chiudendo l’accesso verso Piacenza. I cartaginesi avevano già mangiato, si erano scaldati e preparati a sopportare il freddo ungendosi d’olio.

Ne seguì un massacro.

La cavalleria numidica colpì i Romani da tutti i lati, annientando le prime linee e la retroguardia e comprimendo i fianchi romani verso il centro. Le coorti romane vennero quasi completamente disperse, e solo 10.000 fanti pesanti riuscirono a sfondare e rifugiarsi a Piacenza. Gli altri furono uccisi o catturati. Annibale, al contrario, subì poche perdite, eccezion fatta per gli elefanti, di cui solo Surus, il pachiderma personale del generale cartaginese, sopravvisse alla battaglia.

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