Nell’Antica Roma, l’hortus originariamente designava un piccolo appezzamento di terra utilizzato per la coltivazione di ortaggi essenziali per il sostentamento dei contadini. Tuttavia, durante il periodo di Marco Terenzio Varrone (116 a.C. – 27 a.C.), il concetto di hortus subì una trasformazione significativa, evolvendosi in un ornato giardino che circondava le ville padronali. Questi giardini erano pensati per arricchire esteticamente l’abitazione e includevano elementi come siepi, fontane, piccoli boschi, statue, aiuole e viali, riflettendo i gusti personali del proprietario e gli standard estetici dell’epoca.
Plinio il Vecchio fu il primo autore a menzionare un hortus romano nei suoi scritti, riferendosi al giardino di Tarquinio il Superbo, l’ultimo re di Roma. È noto che gli Etruschi, predecessori culturali dei Romani, avevano una predilezione per giardini e parchi, tanto che le loro aree cimiteriali erano spesso adornate con alberi, aiuole e fiori, e curate da giardinieri dedicati. Attraverso le descrizioni di Plinio, emergono dettagli su come i Romani non si limitassero alla mera coltivazione di piante, ma le modificassero artisticamente per creare composizioni geometriche che evocavano forme di animali e oggetti vari. Questa pratica di modellare piante e arbusti in forme particolari è conosciuta come ars topiaria. Spesso, le piante venivano guidate a crescere secondo forme predeterminate mediante l’uso di supporti metallici. L’arte topiaria raggiunse il suo apice durante l’era Flavia, culminando con la costruzione del Tempio della Pace (Templum Pacis), iniziato da Vespasiano nel 74 d.C. e completato da Domiziano.
Lucio Licinio Lucullo fu uno dei primi a trasformare gli horti in elementi puramente decorativi per la propria residenza. Costruì la sua villa sulle pendici della collina che oggi conosciamo come Pincio, creando un complesso di terrazze collegate da scalinate monumentali.
La varietà di specie vegetali impiegate dai Romani per abbellire i loro giardini era vasta. Essi facevano distinzione tra gli arbores silvestres, ovvero gli alberi che crescevano spontaneamente nei boschi, e gli arbores urbanae, alberi più adatti alla vita cittadina per il loro aspetto estetico o la loro capacità di produrre frutta. Tra gli arbores silvestres troviamo specie come il leccio, il castagno, il pioppo, il faggio, il pino silvestre e la quercia. Per quanto riguarda gli arbores urbanae, i Romani prediligevano l’olmo, il cipresso, l’olivo, il pino fruttifero e la palma. I giardinieri dell’epoca erano maestri nell’utilizzo di queste piante per scolpire figure geometriche, rappresentazioni di divinità e forme animali, e i più talentuosi tra loro erano capaci di creare anche intricate scene di caccia e paesaggi mitologici.
A Roma, esistevano anche giardini pubblici destinati al relax e alle passeggiate dei cittadini. Diversamente dai giardini privati, quelli pubblici mantenevano uno stato più naturale e, durante l’epoca repubblicana, consistevano principalmente in prati attraversati da semplici sentieri, privi di ornamenti. Tra questi si annoverano i Prata Flaminia, originariamente situati sul Palatino, e quelli sull’Aventino, che sparirono in epoca imperiale quando l’area fu trasformata in zona edificabile, lasciando spazio a sontuose ville patrizie. Nel III secolo d.C., gli horti coprivano circa un decimo dell’area di Roma, formando un anello verde intorno al centro urbano, con piante come bosso, cipresso, leccio, ligustro, quercia, tasso, carpino e faggio, nonché siepi e arbusti di mirto, alloro, rosmarino, pruno e altre specie tipiche della macchia mediterranea. Gradualmente, molti dei grandi parchi, soprattutto quelli attorno al nucleo centrale della città, entrarono nelle proprietà imperiali. Durante l’Alto Impero, i giardini appartenenti al demanio imperiale erano generalmente chiusi al pubblico, rendendo i parchi pubblici gli unici spazi verdi accessibili alla cittadinanza.
Molti esponenti dell’élite romana dell’ultimo periodo repubblicano possedevano residenze e giardini sul Pincio. Tra questi, Scipione Emiliano e, forse, Pompeo possedevano terreni in quella zona. Certa è la presenza dei possedimenti di Lucullo, noti come Horti Lucullani, dove successivamente fu uccisa Messalina, moglie di Claudio. Questi giardini furono realizzati con il bottino ottenuto dalla vittoria su Mitridate nel 63 a.C. Inoltre, vi erano gli Horti Sallustiani, inizialmente di proprietà dello storico Sallustio, e poi fusi con gli Horti Lucullani in un’unica grande proprietà chiamata Horti in Pincis durante l’era imperiale, oltre agli Horti Pompeiani e agli Horti Aciliorum, di proprietà degli Acilii. Per via di queste numerose residenze, l’area era conosciuta nell’antichità come il Collis Hortulorum, ovvero il colle dei giardini.
Le rappresentazioni di giardini negli affreschi delle case romane ci forniscono un’immagine dettagliata di come i Romani arricchissero gli horti, non solo con piante, ma anche con statue di divinità su colonne e vasi fioriti. Lucio Licinio Lucullo, ad esempio, creò splendidi giardini pubblici, gli Horti Caesaris, che erano così estesi e lussuosi da includere edifici, portici, templi, biblioteche, e varie decorazioni come ninfei, aiuole e statue. Questi giardini, che donò alla città nel suo testamento, erano un regalo per il popolo di Roma, offrendo uno spazio di passeggio coperto, protetto dalle intemperie.
Nonostante l’uso diffuso di piante e alberi nei giardini, i Romani non mostravano un particolare interesse per la coltivazione dei fiori, sebbene rose e viole fossero comuni, le prime usate nei templi e le seconde nei riti funebri.
L’arte della topiaria, ovvero la pratica di potare piante per modellarle in forme artistiche, è uno degli eredità culturali più durature dell’antica Roma, influenzando l’arte giardiniera per secoli fino ai nostri giorni.
Durante l’era augustea, Roma vantava numerosi horti illustri, tra cui gli Horti Aciliorum, Horti Agrippinae, Horti Antoniniani, e molti altri, sparsi in diverse regioni della città, da Via Lata al Transtiberim, dimostrando la passione romana per questi magnifici spazi verdi urbani.