Skip to content
6 Dicembre 2019
Ultimo:
  • L’impero alla fine del V secolo
  • Le Res gestae di Augusto
  • Il modello cittadino in epoca romana
  • Da Costantino a Valentiniano e Valente
  • Una nuova vita per lo schiavo: Il Liberto
Capitolivm

Capitolivm

La Storia e l'Arte di Roma

  • Home
  • Storia romana
    • Italia Preromana
    • Ab Urbe Condita
    • Età Regia
    • Repubblica
    • Impero
      • Impero d’Oriente
    • Civiltà romana
      • Società romana
      • Architettura romana
    • Esercito romano
    • Grandi battaglie
    • Festività e celebrazioni romane
  • Personaggi
  • Arte romana
    • Arte romana
    • Meraviglie di Roma
    • Fori imperiali di Roma
    • Ai confini dell’Impero
  • News
    • Eventi
    • Scavi archeologici
    • Accadde oggi
    • Meteo Italia
  • VisitaRoma
    • Chiese e luoghi di culto
    • Palazzi storici
    • Musei d’arte
    • Ville e giardini
    • Fontane di Roma
    • Teatri
    • Tradizioni e curiosità
    • Cucina romana
  • Speciali
    • Costantino: l’uomo, il potere, la fede
    • Vintage Rome
    • Sondaggi
  • Multimedia
    • Roma a 360°
    • Mappa interattiva di Roma
    • Sala degli Imperatori
    • Capitolivm Giochi
    • Le Gif animate di Capitolivm
    • Capitolivm TV
  • Info

Società romana

Liberto
Società romana 

Una nuova vita per lo schiavo: Il Liberto

Liberto, Schiavitù, Società romana

I liberti erano gli schiavi liberati dal padrone, ed erano numerosissimi, perché i ricchi Romani liberavano facilmente quegli schiavi che

Leggi il seguito
La villa rustica e la villa urbana
Società romana 

La villa rustica e la villa urbana

Impero romano, Roma, Roma antica, Società romana, villa rustica, villa urbana

Esistevano due tipi diversi di ville romane: la villa rustica e la villa urbana, le quali strutture non sempre rispondevano

Leggi il seguito
Società romana 

La domus romana

Domus, Società romana

Nell’antica Roma si distinguevano diverse tipologie di abitazioni: la Domus romana era un’abitazione privata situata all’interno dell’area urbana; la Villa suburbana era un domicilio privato

Leggi il seguito

TRADUZIONI

EnglishFrenchGermanItalianPortugueseRussianSpanish

FACEBOOK

Instagram

SVETONIO
DE VITA CAESARUM

LIBRO PRIMO • CESARE

1 Aveva quindici anni quando perse il padre; nell’anno successivo gli fu conferita la carica di Flamendiale.
Separatosi da Cossuzia, donna di famiglia equestre, ma molto ricca, alla quale era stato fidanzato fin dalla più giovane età, sposò Cornelia, figlia di Cinna, quello stesso che era stato eletto console per quattro volte. Da lei ebbe una figlia, Giulia, e neppure Silla poté costringerlo a divorziare; allora il dittatore lo privò della sua carica sacerdotale, della dote
della moglie e dell’eredità familiare, inserendolo quindi nella lista dei suoi avversari. Cesare fu costretto così a starsene
nascosto, a cambiare rifugio quasi ogni notte, quantunque ammalato piuttosto gravemente di febbre quartana.
Finalmente, per intercessione sia delle Vergini Vestali, sia di alcuni suoi parenti, ottenne la grazia. Si dice che Silla, rifiutatosi a lungo di accogliere le preghiere dei suoi più illustri amici e oppostosi tenacemente alle insistenti richieste, alla fine, vinto, abbia esclamato, non si sa bene se per intuizione o per uno strano presentimento: «Esultate e tenetevelo stretto, ma sappiate che colui che volete salvo ad ogni costo un giorno sarà la rovina del partito aristocratico che voi avete difeso insieme con me. In Cesare, infatti, sono nascosti molti Mari.»
2 Fece il servizio di leva in Asia, presso lo stato maggiore di Marco Termo. Mandato da costui in Bitinia per cercare una flotta, si attardò presso Nicomede e qui corse voce che si fosse prostituito a quel re. Egli stesso alimentò questa diceria quando, pochi giorni più tardi, ritornò in Bitinia con la scusa di ricuperare un credito concesso ad uno
schiavo affrancato, divenuto suo cliente. Tuttavia gli ultimi anni della sua campagna militare gli procurarono una fama
migliore e Termo, in occasione della conquista di Mitilene, gli fece assegnare la corona civica.
3 Prestò servizio anche in Cilicia, agli ordini di Servilio Isaurico, ma per poco tempo. Era giunta infatti la notizia della morte di Silla e allora, con la speranza di qualche nuova discordia, che già si profilava per opera di Marco Emilio Lepido, si affrettò a rientrare a Roma. Qui tuttavia, nonostante le vantaggiose proposte, si guardò bene dal far lega con
lo stesso Lepido, perché diffidava delle sue capacità e soprattutto perché gli sembrava che le circostanze fossero meno favorevoli di quanto avesse immaginato.
4 Quando la discordia civile fu domata, Cesare incriminò per concussione Cornelio Dolabella, un ex console che
aveva meritato il trionfo. Poiché l’imputato era stato assolto, decise di andarsene a Rodi, un po’ per sottrarsi ad eventuali vendette, un po’ per seguire durante quel periodo di inattività e di riposo, le lezioni di Apollonio Molone, a quel tempo il più celebre maestro di oratoria. Durante la navigazione verso Rodi, avvenuta nella stagione invernale, fu fatto
prigioniero dai pirati presso l’isola di Farmacusa, e rimase con loro, non senza la più viva indignazione, per circa quaranta giorni, in compagnia di un medico e di due schiavi. I compagni di viaggio, infatti, e tutti gli altri servi erano stati inviati immediatamente a Roma per raccogliere i soldi del riscatto. Quando furono pagati i cinquanta talenti
stabiliti, venne sbarcato su una spiaggia e allora, senza perdere tempo, assoldò una flotta e si lanciò all’inseguimento dei pirati: li catturò e li condannò a quel supplizio che spesso aveva minacciato loro per scherzo. Mitridate, intanto,
devastava le regioni vicine al suo regno e Cesare, per non apparire inattivo, mentre altri si trovavano in difficoltà, da Rodi, dove era giunto, passò in Asia con un certo numero di truppe che aveva raccolto, scacciò dalla provincia il luogotenente del re e ridiede fiducia alle popolazioni incerte e dubbiose.
5 Durante il suo tribunato militare, la prima carica che ottenne con il suffragio popolare dopo il suo ritorno a Roma, appoggiò vigorosamente coloro che volevano ripristinare l’autorità tribunizia, da Silla indebolita. Fece poi votare la legge Plozia che concedeva il ritorno in patria a L. Cinna, fratello di sua moglie, e a quelli che, con lui, al tempo della
sommossa civile, prima avevano seguito Lepido e poi, alla sua morte, si erano rifugiati presso Sertorio. Sull’argomento tenne addirittura una pubblica arringa.
6 Quando divenne questore, dalla tribuna dei rostri pronunciò, secondo la consuetudine, il discorso funebre in onore della zia Giulia e della moglie Cornelia che erano morte. Proprio nell’elogio della zia riferì di lei e di suo padre
questa duplice origine: «La stirpe materna di mia zia Giulia ha origine dai re, quella paterna si congiunge con gli dei immortali. Infatti da Anco Marzio discendono i Marzii, e tale fu il nome di sua madre. Da Venere hanno origine i Giulii, alla cui gente appartiene la nostra famiglia. Vi è dunque nella stirpe la santità dei re, che si innalzano sugli uomini, e la solennità degli dei, sotto il cui potere si trovano gli stessi re. Rimpiazzò poi Cornelia con Pompea, figlia di Quinto Pompeo e nipote di L. Silla; da lei divorziò più tardi, sospettandola di adulterio con Publio Clodio. Si andava dicendo che Clodio si era introdotto da lei, in vesti femminili, durante una pubblica cerimonia religiosa. Il Senato dovette ordinare un’inchiesta per sacrilegio.
7 Sempre come questore gli fu assegnata la Spagna Ulteriore; qui, con delega del pretore, percorse i luoghi di riunione per amministrare la giustizia, finché giunse a Cadice dove, vista la statua di Alessandro Magno presso il tempio di Ercole, si mise a piangere, quasi vergognandosi della sua inettitudine. Pensava infatti di non aver fatto nulla
di memorabile all’età in cui Alessandro aveva già sottomesso il mondo intero. Allora chiese subito un incarico a Roma
per cogliere al più presto l’occasione di compiere grandi imprese. Nello stesso tempo, turbato da un sogno della notte precedente (aveva sognato infatti di violentare sua madre) fu incitato a nutrire le più grandi speranze dagli stessi indovini che gli vaticinarono il dominio del mondo quando gli spiegarono che la madre, che aveva visto giacere sotto di lui, altro non era che la terra stessa, considerata appunto madre di tutti.
8 Lasciata dunque, prima del tempo, la provincia, si recò a visitare le colonie latine che lottavano per ottenere i
diritti di cittadinanza. Molto probabilmente avrebbe tentato qualche grosso colpo se i consoli, prevenendo i suoi
progetti, non avessero trattenuto per un po’ di tempo le legioni arruolate per un’operazione militare in Cilicia.
9 Non di meno anche a Roma tentò qualcosa di più grande: infatti pochi giorni prima di accedere alla carica di
edile venne sospettato di aver complottato con l’ex console Marco Crasso, d’accordo con Publio Silla e con L. Autronio, condannati per broglio elettorale, dopo essere stati designati consoli. Il piano prevedeva di attaccare il riservate
esclusivamente alle donne, ma evidentemente Clodio non aveva scrupoli di nessun genere. Senato al principio dell’anno
e uccidere tutti quelli che avevano preventivamente stabilito. Compiuta la strage, Crasso sarebbe divenuto dittatore,
Cesare sarebbe stato da lui nominato maestro della cavalleria e, organizzato lo Stato a loro piacimento, sarebbe stato riconferito il consolato a Silla e Autronio. Fanno menzione di questa congiura Tanusio Gemino, nella sua storia, Marco
Bibulo nei suoi editti, e C. Curione, il padre, nelle sue orazioni. Anche Cicerone, in una lettera ad Axio, sembra alludere a questo complotto quando dice che Cesare, una volta console, si assicurò quella sovranità che si era promesso come
edile. Tanusio aggiunge che Crasso, o perché pentito, o perché timoroso, non si fece vedere il giorno stabilito per la
strage, e di conseguenza neppure Cesare diede il segnale che si era convenuto secondo gli accordi. Curione dice che, come segnale, Cesare avrebbe dovuto far cadere la toga dalla spalla. Lo stesso Curione, ma anche M. Actorio Nasone affermano che aveva pure cospirato con il giovane Gneo Pisone, al quale, proprio perché sospettato di una congiura a
Roma, sarebbe stata assegnata, in via straordinaria, la provincia spagnola. Si sarebbero accordati per provocare una
rivoluzione, nello stesso tempo, Pisone fuori e Cesare a Roma, facendo insorgere gli Ambroni e i Galli Traspadani. La
morte di Pisone mandò a monte il duplice progetto.
10 Quando era edile adornò non solo il comizio, ma anche il foro e le basiliche di portici provvisori per esporvi
una parte delle molte opere d’arte che possedeva. Organizzò, o con la collaborazione del collega in carica, o per conto proprio, battute di caccia e giochi; così avvenne che anche delle spese sostenute in comune si ringraziava soltanto lui. E
il suo collega Marco Bibulo non nascondeva che gli era toccata la stessa sorte di Polluce: come infatti il tempio dei due fratelli gemelli, eretto nel foro, veniva indicato soltanto con il nome di Castore, così la generosità sua e di Cesare solo a
Cesare era attribuita. Per di più Cesare offrì anche un combattimento di gladiatori, tuttavia meno grandioso di quello
che aveva progettato. La verità era che i suoi nemici si erano preoccupati perché aveva raccolto da ogni parte una enorme quantità di gladiatori: per questo si stabilì che a nessun cittadino fosse lecito possederne in Roma più di un certo numero.
11 Guadagnatosi il favore del popolo, con l’aiuto di alcuni tribuni brigò per farsi assegnare, attraverso un
plebiscito, la provincia dell’Egitto; vedeva là l’occasione di ottenere un comando straordinario, perché gli abitanti di Alessandria avevano scacciato il loro re, che il Senato aveva dichiarato amico e alleato. L’atto di rivolta era stato
disapprovato a Roma. Tuttavia, per l’opposizione degli ottimati, non ottenne lo scopo; allora, per ridurre in qualunque
modo possibile la loro influenza, ripristinò i trofei delle vittorie di Mario su Giugurta, sui Cimbri e sui Teutoni, a suo
tempo rimossi da Silla. Trattando poi la questione dei sicari, considerò tali anche coloro che, durante il periodo delle proscrizioni, avevano ricevuto denari dall’erario per essere stati delatori di alcuni cittadini romani. E ciò nonostante le
eccezioni previste dalle leggi Cornelie.
12 Convinse anche qualcuno a trascinare in giudizio Gaio Rubinio per alto tradimento. Grazie al suo aiuto, infatti,
il Senato, alcuni anni prima, aveva represso un tentativo di sedizione del tribuno Lucio Saturnino. Sorteggiato come
giudice del colpevole, ci mise tanto impegno a condannarlo che Rubinio, appellatosi al popolo, trovò la sua miglior difesa proprio nella severità del suo giudice.
13 Deposta la speranza di avere il comando di una provincia, si diede da fare per ottenere la dignità di pontefice massimo, naturalmente con grandi elargizioni di denaro. Così, pensando all’enormità dei suoi debiti, sembra che,
avviandosi alle elezioni, abbia detto alla madre che lo abbracciava: «Non tornerò a casa se non con la carica di
pontefice.» In tal modo batté due competitori assai potenti, che lo superavano sia per età, sia per dignità, anzi ottenne
più suffragi nelle loro tribù che quei due in tutte le altre messe insieme.
14 Era pretore quando venne scoperta la congiura di Catilina e mentre compatto il Senato decretava la pena di
morte per i congiurati, lui solo sostenne che si doveva imprigionarli separatamente nelle città municipali e confiscare i loro averi. A furia di mostrare che il popolo romano avrebbe in seguito provato invidia per loro, gettò un tal panico tra i fautori della severità ad oltranza, che il console designato Decimo Silano non si vergognò di dare un’interpretazione più
addolcita della sua sentenza, proprio perché sarebbe stato vergognoso cambiarla. Disse che era stata presa in un senso
più rigoroso di quanto egli stesso intendesse. Cesare avrebbe ottenuto lo scopo perché erano già passati dalla sua parte moltissimi senatori, tra i quali anche Cicerone, il fratello del console, ma il discorso di M. Catone convinse finalmente il
Senato indeciso. Anche allora, tuttavia, egli non rinunciò alla sua opposizione, finché una schiera di cavalieri romani
che se ne stava in armi attorno alla curia per sorvegliare, lo minacciò di morte, per la sua eccessiva insistenza, dirigendo contro di lui le spade sguainate; coloro che gli erano seduti vicino si allontanarono e a stento alcuni amici riuscirono a proteggerlo, prendendolo fra le braccia e riparandolo con la toga. Veramente spaventato, questa volta, non solo desistette, ma per il resto dell’anno non si fece più vedere in Senato.
15 Il primo giorno della sua pretura citò davanti al popolo Quinto Catulo per un’inchiesta sulla ricostruzione del Campidoglio, presentando nello stesso tempo un progetto di legge che affidava ad un altro l’appalto di quei lavori;
troppo debole, però, di fronte alla coalizione degli ottimati che, abbandonato il servizio d’onore ai nuovi consoli, vedeva correre numerosi e decisi a resistere alle sue intenzioni, lasciò cadere anche questo proposito.
16 Ma quando Cecilio Metello, tribuno della plebe, volle far passare, contro il parere dei colleghi, alcune leggi
chiaramente sovversive, se ne mostrò il più grande sostenitore e il più costante difensore, finché tutti e due, per decreto
del Senato, furono rimossi dalle loro funzioni politiche. Ciò nonostante ebbe il coraggio di restare in carica e di
continuare ad amministrare la giustizia. Quando poi venne a sapere che si stavano preparando per impedirgli ogni attività con la forza delle armi, congedati i suoi littori e deposta la sua pretesta, si ritirò segretamente in casa, deciso, per il momento critico, a starsene tranquillo. Arrivò perfino, due giorni dopo, a placare la folla che si era spontaneamente riunita sotto la sua casa per promettergli rumorosamente di aiutarlo a riprendere la sua carica. Poiché il fatto avvenne
contro ogni aspettativa, il Senato, che in fretta si era riunito proprio a causa di quell’assembramento, lo ringraziò attraverso i cittadini più in vista, lo fece chiamare in curia, lo lodò con belle parole e lo reintegrò nelle sue cariche, dopo aver revocato il precedente decreto.
17 Ma incorse ancora in un altro inconveniente quando venne denunciato come complice di Catilina, prima
davanti al questore Novio Negro, su delazione di Lucio Vettio, poi davanti al Senato, su delazione di Quinto Curio. A
costui erano stati assegnati premi pubblici perché aveva svelato per primo i piani dei congiurati. Curio sosteneva di aver
saputo da Catilina la complicità di Cesare e Vettio arrivava a promettere di mostrare un biglietto autografo, scritto da
Cesare per Catilina. Pensando di non dovere in nessun modo sopportare una simile accusa, Cesare dimostrò, invocando
la testimonianza di Cicerone, che proprio lui aveva svelato al console alcuni dettagli della congiura e fece in modo che nessuna ricompensa fosse assegnata a Curio. Quanto a Vettio, gli si inflisse un sequestro, si presero i suoi mobili, fu maltrattato e quasi messo alla berlina, in piena assemblea, davanti ai rostri; dopo di che Cesare lo fece mettere in
prigione. Con lui vi cacciò anche il questore Novio, perché aveva permesso che davanti a lui venisse accusato un
magistrato di grado superiore.
18 Allo scadere del suo mandato di pretore, gli fu assegnata la Spagna Ulteriore; i suoi creditori, però, non lo lasciavano partire, ma si sbarazzò di loro con l’aiuto di gente che garantisse per lui. Quindi, contrariamente alla consuetudine e alle leggi, partì prima ancora che le province fossero dotate di tutto il necessario. Non è ben chiaro se lo fece per timore di un processo che gli si stava intentando privatamente, o per recare aiuto con più tempestività agli alleati che lo invocavano. Pacificata la provincia, con altrettanta rapidità, senza attendere il suo successore, tornò a
Roma, per chiedere contemporaneamente sia il trionfo, sia il consolato. Le elezioni, però, erano già state indette e quindi non si poteva tener conto della sua candidatura, a meno che non fosse entrato in città come privato cittadino.
Brigò per ottenere una deroga dalla legge, ma molti gli si opposero. Così, per non essere escluso dal consolato, fu costretto a differire il trionfo.
19 Dei due competitori al consolato, Lucio Luccio e Marco Bibulo, egli si associò al primo, con il patto che,
essendo quello inferiore per prestigio, ma stimabile per patrimonio, promettesse a tutte le centurie, in nome di tutti e due, notevoli elargizioni di denaro, che avrebbe concesso attingendo dai propri fondi. Risaputo l’accordo gli ottimati,
presi dal timore che Cesare, una volta ottenuta la massima carica, si sarebbe permesso di tutto, con il consenso e
l’appoggio del collega, raccomandarono a Bibulo di fare promesse dello stesso genere, e molti misero a disposizione i denari. Perfino Catone sostenne che tali elargizioni giovavano allo Stato. Fu così che Cesare venne eletto console
insieme con Bibulo. Per questa stessa ragione gli ottimati si diedero da fare perché ai futuri consoli venissero assegnate province di poco conto, più precisamente zone di boschi e di pascoli. Colpito profondamente da queste ingiustizie, Cesare si mise a corteggiare in mille modi Gneo Pompeo, che dal canto suo era irritato con i senatori perché tardavano a
ratificare i suoi atti dopo la vittoria sul re Mitridate. Cesare riuscì a riconciliare Marco Crasso con Pompeo, separati da
un’antica rivalità fin dai tempi in cui esercitarono il consolato nel disaccordo più completo: insomma strinse con loro un’alleanza, in base alla quale non si doveva fare niente, nell’ambito dello Stato, che potesse dispiacere a uno dei tre.
20 Entrato in carica, Cesare per prima cosa stabilì che tutti gli atti, sia del Senato sia del popolo, venissero resi pubblici. Ristabilì inoltre l’antica usanza, secondo la quale nel mese in cui non disponeva di fasci, fosse preceduto da un
messo e subito seguito dai littori. Promulgò poi una legge agraria, e quando il suo collega tentò di opporsi, lo fece
cacciare dal foro con le armi. Il giorno dopo Bibulo si lamentò in Senato, ma non trovò nessuno che osasse fare un
rapporto su un simile atto di violenza e proporre misure che già erano state prese in circostanze di ben minor gravità. Fu talmente scoraggiato, che, per tutta la durata della sua carica, se ne stette nascosto in casa, limitandosi a manifestare la sua opposizione solo per mezzo di comunicati. Da quel momento Cesare regolò da solo, e a suo piacimento, tutti gli
affari dello Stato: fu così che alcune persone spiritose, dovendo datare un atto per renderlo autentico, scrivevano che era
stato redatto non durante il consolato di Bibulo e Cesare, ma di Giulio e Cesare, nominando due volte la stessa persona,
prima con il nome, poi con il soprannome. Ben presto insomma cominciarono a correre tra il popolo questi versi:
«Non Bibulo, ma Cesare ha fatto la tal cosa; Non ricordo che Bibulo, da console, abbia fatto qualcosa.»
Il campo di Stella, consacrato dagli antenati, e l’Agro Campano, che era rimasto soggetto ad imposte per i bisogni dello Stato, furono divisi da Cesare, senza estrazione a sorte, tra ventimila cittadini che avevano tre o più figli.
Quando gli esattori delle imposte vennero a chiedere un alleggerimento del canone di appalto, condonò loro un terzo,
ma raccomandò anche pubblicamente di non essere sfrenati nell’aggiudicare nuove imposte. Per il resto elargiva favori a
chiunque glieli chiedesse, senza che nessuno facesse opposizione, e se qualcuno ci si provava, lo minacciava fino a spaventarlo. Marco Catone gli si oppose, ed egli lo fece uscire dalla curia per mezzo di un littore e condurre in prigione.
Lucio Lucullo, con eccessivo ardimento, provò a resistergli: Cesare gli gettò addosso una tale paura con insinuazioni calunniose che spontaneamente quello si gettò ai suoi piedi. Cicerone, durante un processo, deplorò le condizioni dei tempi: Cesare, nello stesso giorno, alle tre del pomeriggio, fece passare Publio Clodio, nemico personale dell’oratore,
dalla classe dei patrizi a quella della plebe, favore che Clodio già in precedenza aveva tentato invano di ottenere. Infine contro tutti i nemici di diversa fazione cercò di ricorrere a un delatore che, corrotto dal denaro, si prestasse a dichiarare che era stato sollecitato da alcuni di loro ad uccidere Pompeo e salisse sui rostri per indicare, secondo i suoi suggerimenti, gli istigatori del crimine. Il disgraziato però cominciò a confondersi dopo aver pronunciato due nomi, cosa che fece sospettare la frode. Cesare allora cominciò a pensare che un’impresa così temeraria non avrebbe avuto
successo e fece sopprimere il delatore: pare con il veleno.
21 Nello stesso periodo di tempo sposò Calpurnia, figlia di Lucio Pisone, che gli sarebbe succeduto nel consolato, e diede in moglie a Gneo Pompeo la propria figlia Giulia, dopo averla fatta divorziare dal precedente marito Servilio
Cepione, con l’aiuto del quale, poco prima, aveva combattuto contro Bibulo. Stabilita questa nuova parentela, prese l’abitudine di chiedere per prima cosa il parere di Pompeo, anziché quello di Crasso, come era solito fare, benché fosse
tradizione che il console, durante tutto l’anno, chiedesse i pareri secondo l’ordine che aveva introdotto al primo di gennaio.
22 Così, con l’appoggio del suocero e del genero, fra le tante province, scelse le Gallie, pensando che vi avrebbe trovato non poche risorse e occasioni favorevoli per riportarvi trionfi. Tuttavia all’inizio gli fu assegnata soltanto la
Gallia Cisalpina con l’aggiunta dell’Illirico, in forza della legge Vatinia. Ben presto, però, il Senato vi unì anche la Transalpina, perché i senatori temevano che se gliel’avessero negata, l’avrebbe avuta dal popolo. Al colmo della gioia,
Cesare non seppe più contenersi e alcuni giorni più tardi si vantò, davanti a numerosi senatori, di aver ottenuto quello che desiderava, nonostante le opposizioni e le lagnanze dei suoi avversari, e che ormai da quel momento avrebbe potuto farsi beffe di tutti. Un senatore, con il preciso scopo di offenderlo, dichiarò che ciò non sarebbe stato facile per una donna, ma Cesare, con l’aria di stare allo scherzo, rispose che anche Semiramide aveva regnato in Siria e che le
Amazzoni avevano dominato su gran parte dell’Asia.
23 Allo scadere del consolato, i pretori Gaio Memmio e Lucio Domizio presentarono una relazione sui fatti dell’anno precedente: allora Cesare deferì al Senato l’istruzione dell’affare, ma poiché il Senato non se ne occupava, e tre giorni erano stati perduti in varie discussioni, se ne partì per la provincia. Subito il suo questore fu trascinato in giudizio sotto varie imputazioni, in vista di un’inchiesta pregiudiziale. Ben presto fu citato anche lui da Lucio Antistio, tribuno della plebe, e dovette alla fine appellarsi al collegio dei tribuni per ottenere di non essere accusato, dal momento che era assente per servizio di Stato. Così, allo scopo di garantirsi in avvenire la propria sicurezza, si diede da fare per legare a sé ogni anno i vari magistrati in carica e sostenere o lasciar giungere agli onori soltanto quei candidati che si fossero
impegnati a difenderlo durante la sua assenza. Di questo accordo non esitò a pretendere da alcuni un giuramento e perfino una dichiarazione scritta.
24 Ma quando Lucio Domizio, candidato al consolato, lo minacciò pubblicamente di realizzare come console ciò
che non aveva potuto fare come pretore e di togliergli il comando delle truppe, convinse Crasso e Pompeo, che aveva
convocato a Lucca, città della sua provincia, a concorrere per un altro consolato, allo scopo di ostacolare Domizio, e
riuscì, con l’appoggio di entrambi, ad ottenere la proroga del suo comando per un altro quinquennio. Forte di questo successo, aggiunse, a proprie spese, altre legioni a quelle che aveva ricevuto dallo Stato. Una di queste fu reclutata fra i
Galli transalpini e chiamata con nome gallico (quello di Alauda), ma fu addestrata secondo la disciplina e la tradizione
romane. Più tardi la gratificò tutta quanta del diritto di cittadinanza. In seguito non trascurò nessuna occasione di fare la5
guerra, anche a dispetto della giustizia, e di recar danno sia agli alleati, sia alle popolazioni nemiche e selvagge, apertamente provocate, tanto che il Senato, un bel momento, decise di inviare alcuni commissari per accertare la
situazione delle Gallie. Alcuni senatori arrivarono perfino a proporre di consegnarlo al nemico, ma poiché tutte le sue imprese avevano successo, egli ottenne pubblici ringraziamenti più spesso e più a lungo di qualunque altro generale.
25 Ecco in sintesi le sue imprese durante i nove anni di comando. Ad eccezione delle città alleate e di quelle che
avevano acquisito meriti davanti a Roma, ridusse alla condizione di provincia tutta la Gallia compresa tra le catene dei
Pirenei, delle Alpi e delle Cevenne e i fiumi Reno e Rodano, che si estende per tre milioni e duecentomila passi e vi impose un tributo annuo di quaranta milioni di sesterzi. Primo fra i Romani, aggredì i Germani, abitanti oltre il Reno, dopo aver costruito un ponte sul fiume, e inflisse loro gravi sconfitte. Mosse anche contro i Britanni, fino a quel tempo
sconosciuti, e dopo averli battuti li costrinse a consegnare ostaggi e a versare tributi. In mezzo a tanti successi si trovò in
difficoltà non più di tre volte: in Britannia la sua flotta fu quasi interamente distrutta da una tempesta; in Gallia, sotto le
mura di Gergovia, una sua legione fu messa in fuga; infine nel territorio dei Germani i suoi luogotenenti Titurio e Arunculeio perirono in un’imboscata.
26 Nello stesso periodo di tempo gli morirono prima la madre, poi la figlia e infine, non molto dopo, anche la nipote. Mentre era colpito da tante disgrazie personali, lo Stato venne sconvolto dalla morte di Publio Clodio; il Senato era dell’avviso di nominare un solo console, e precisamente Gneo Pompeo, ma Cesare convinse i tribuni della plebe, che volevano eleggerlo come collega dello stesso Pompeo, a proporre piuttosto al popolo di permettergli, benché fosse
lontano, di concorrere ad un altro consolato quando sarebbe stata prossima la scadenza del suo mandato di comando. In
tal modo non sarebbe stato costretto a lasciare anzi tempo la provincia, prima che la guerra fosse conclusa. Quando ottenne questa concessione, pieno di speranza, già meditando imprese più ambiziose, profuse largizioni e favori di ogni genere a tutti, pubblicamente e privatamente. Con i proventi dei bottini di guerra avviò la costruzione di un Foro, il cui terreno venne a costare più di cento milioni di sesterzi. Annunciò al popolo uno spettacolo di gladiatori e un ricco banchetto in memoria della figlia morta, cosa che nessuno aveva mai fatto prima di lui. Allo scopo di creare un grande
stato di attesa per questa manifestazione, faceva preparare tutto ciò che riguardava il banchetto in case private, sebbene
avesse affidato l’incarico a personale specializzato. Dovunque vi fossero gladiatori famosi, costretti a combattere davanti ad un pubblico ostile, dava ordine di prelevarli, magari anche con la forza, e di riservarglieli. Quanto agli allievi gladiatori, non li faceva addestrare nelle scuole e nemmeno sotto le direttive di maestri professionisti, ma in case
private, per mezzo di cavalieri romani e perfino di senatori esperti nell’uso delle armi; li andava supplicando, come
confermano le sue lettere, di addossarsi la responsabilità della disciplina dei singoli allievi e di dirigere personalmente
gli esercizi. Per quanto si riferisce alle legioni, raddoppiò definitivamente la paga. Ogni volta che vi era abbondanza di grano, lo fece distribuire senza limitazioni e misura, e assegnò a ciascuno, di tanto in tanto, uno schiavo preso dal
bottino di guerra.
27 Allo scopo di conservare la parentela con Pompeo e la sua amicizia, gli offrì la mano di Ottavia, nipote di sua sorella, che aveva già maritato a Gaio Marcello, mentre lui personalmente chiese in moglie la figlia di Pompeo, destinata a Fausto Silla. Vincolati a sé tutti coloro che erano vicini a Pompeo e anche una parte dei senatori mediante
prestiti gratuiti o a basso interesse, quando venivano a trovarlo cittadini di altri ordini sociali, sia perché li aveva fatti
chiamare, sia di loro iniziativa, li colmava di ogni generosità, senza dimenticare i liberti e gli schiavetti di ciascuno, per
quanto fossero ben accetti al loro padrone o patrono. Inoltre gli accusati, gli oppressi dai debiti e i giovani prodighi trovavano in lui un aiuto unico e tempestivo, a meno che il peso delle loro colpe, della loro miseria o dei loro disordini fosse superiore alle sue possibilità di aiuto; in tal caso diceva loro, senza mezzi termini, che «avevano bisogno di una
guerra civile».
28 Non minore impegno ci metteva ad accattivarsi la simpatia dei re e di tutte le province della terra, ora
mandando in dono migliaia e migliaia di prigionieri, ora, senza chiedere l’autorizzazione del Senato e del popolo, inviando truppe ausiliarie dove e tutte le volte che volessero e per di più abbellendo con opere insigni le più potenti città
dell’Italia e della Gallia. Alla fine un po’ tutti cominciarono a domandarsi, con un certo stupore, dove avesse intenzione di arrivare, e il console Marco Claudio Marcello, dopo aver annunciato con un editto che intendeva prendere provvedimenti nell’interesse dello Stato, fece un rapporto al Senato; vi si chiedeva di dare un successore a Cesare prima
ancora che scadesse il suo tempo legale, perché, conclusa ormai la guerra, doveva esservi la pace e si doveva congedare
un esercito vittorioso. Sosteneva ancora che, per le elezioni, non si doveva tener conto della sua candidatura mentre era assente, dal momento che Pompeo, in seguito, aveva abrogato lo stesso plebiscito. Era accaduto infatti che Pompeo,
presentando una legge sullo stato giuridico dei magistrati, vi aveva introdotto un articolo che impediva agli assenti di concorrere alle cariche, e si era dimenticato di fare almeno un’eccezione in favore di Cesare; più tardi aveva corretto la dimenticanza, ma quando ormai la legge era già incisa nel bronzo e conservata presso il Tesoro. Marcello, non contento
di togliere a Cesare sia le province, sia i privilegi, propose anche di revocare la cittadinanza a quei coloni che aveva
stanziato a Novo Como in forza della legge Vatinia: sosteneva che era stata concessa con intenzioni demagogiche e al di là delle prescrizioni della legge.6
29 Preoccupato per queste macchinazioni e convinto, come sembra lo si sia sentito dire spesso, che era più
difficile, finché occupava il primo posto nello Stato, risospingerlo al secondo, che da secondo all’ultimo, resistette con tutte le sue forze, sia per l’intervento dei tribuni, sia per quello di Servio Sulpicio, l’altro console. L’anno successivo fece
gli stessi tentativi Gaio Marcello, che era succeduto nel consolato a suo cugino Marco, ma Cesare, spendendo somme
enormi, si procurò, come difensori, Emilio Paolo, il collega di Marcello, e Gaio Curione, uno dei più violenti tribuni della plebe. Vedendo però che ci si accaniva contro di lui con maggiore ostinazione e che erano stati designati come consoli perfino due suoi avversari, scrisse al Senato pregandolo di non togliergli un comando concessogli dal popolo, o
altrimenti di rimuovere dai loro eserciti anche gli altri generali. Pensava, come credono, che avrebbe potuto convocare quando volesse i suoi veterani in un tempo più breve di quello impiegato da Pompeo per fare nuove leve. Agli avversari
propose di congedare otto legioni, abbandonando la Gallia Transalpina, e di tenere per sé due legioni e la Gallia
Cisalpina, o almeno una legione con l’Illirico, fino a quando fosse stato eletto console.
30 Il Senato però non rispose e gli avversari si rifiutarono di scendere a patti per questioni che riguardavano lo Stato; egli allora scese nella Gallia citeriore, quindi, tenute le sue riunioni, si fermò a Ravenna, ben deciso a vendicare con la guerra quei tribuni che facevano opposizione in suo favore, qualora il Senato avesse preso provvedimenti troppo
severi nei loro confronti. Fu questo per lui il pretesto della guerra civile, ma si crede che altre siano state le cause.
Pompeo andava dicendo che, vedendosi impossibilitato a portare a termine i monumenti iniziati e a realizzare, con le sue sole risorse, le speranze che aveva fatto concepire al popolo per il suo ritorno, egli aveva voluto precipitare ogni
cosa nel caos. Altri dicono che temesse di essere costretto a rendere ragione di ciò che aveva fatto durante il suo primo consolato, senza tener conto né degli auspici, né delle leggi, né dell’opposizione dei magistrati; M. Catone annunciò più di una volta, e non senza accompagnamento di giuramenti, che lo avrebbe trascinato in giudizio nel momento stesso in
cui avesse congedato l’esercito; si diceva apertamente che se fosse tornato senza nessuna carica, seguendo l’esempio di
Milone,16 avrebbe sostenuto la sua causa davanti a giudici circondati da uomini armati. Rende credibile la cosa Asinio Pollione quando riferisce che, dopo la battaglia di Farsalo, vedendo i suoi avversari fatti a pezzi e completamente battuti, Cesare disse queste testuali parole: «Lo hanno voluto loro: dopo tante imprese io, Gaio Cesare,
sarei stato condannato se non avessi chiesto aiuto ai miei soldati.» Alcuni ritengono che sia stato condizionato
dall’abitudine del comando e che abbia colto l’occasione di conquistare il potere supremo, da lui ardentemente
desiderato fin dalla prima giovinezza, dopo aver saggiamente valutato le sue forze e quelle del nemico. Anche Cicerone
sembrava seguire questa opinione, perché nel terzo libro della sua opera «Dei doveri» dice che Cesare aveva sempre sulle labbra i versi di Euripide (si trovano nelle «Fenicie»: «Quando si deve commettere ingiustizia, bellissima è l’ingiustizia per il potere; per il resto si deve essere pietosi») che egli stesso così aveva tradotto:
«Giacché se il diritto si deve violare, violarlo si deve per la conquista del regno; in tutto il resto osserva la pietà».
31 Quando dunque gli fu riferito che non si era tenuto conto dell’opposizione dei tribuni e che questi avevano
abbandonato Roma, subito fece andare avanti segretamente alcune coorti, per non destare sospetti. Poi, con lo scopo di
trarre in inganno, si fece vedere ad uno spettacolo pubblico, esaminò i progetti di una scuola di gladiatori che aveva intenzione di costruire e, secondo le sue abitudini, pranzò in numerosa compagnia. Dopo il tramonto del sole, aggiogati ad un carro i muli di un vicino mulino, partì in gran segreto, con un’esile scorta. Quando le fiaccole si spensero, smarrì la strada e vagò a lungo, finché all’alba, trovata una guida, raggiunse a piedi la meta, attraverso sentieri strettissimi.
Riunitosi alle sue coorti presso il fiume Rubicone, che segnava il confine della sua provincia, si fermò per un attimo e,
considerando quanto stava per intraprendere, si rivolse a quelli che gli erano più vicini dicendo: «Siamo ancora in tempo a tornare indietro, ma se attraverseremo il ponticello, dovremo sistemare ogni cosa con le armi.»
32 Mentre esitava, gli si mostrò un segno prodigioso. Un uomo di straordinaria bellezza e di taglia atletica apparve improvvisamente seduto poco distante, mentre cantava, accompagnandosi con la zampogna. Per ascoltarlo, oltre ai pastori, erano accorsi dai posti vicini anche numerosi soldati e fra questi alcuni trombettieri: l’uomo allora, strappato a
uno di questi il suo strumento, si slanciò nel fiume, sonando a pieni polmoni una marcia di guerra, e si diresse verso
l’altra riva. Allora Cesare disse: «Andiamo dove ci chiamano i segnali degli dei e l’iniquità dei nostri nemici. Il dado è tratto.»
33 Fatta passare così la sua armata, prese con sé i tribuni della plebe che, scacciati da Roma, gli si erano fatti incontro, si presentò davanti all’assemblea dei soldati e invocò la loro fedeltà con le lacrime agli occhi e la veste
strappata sul petto. Si crede perfino che abbia promesso a ciascuno il censo di cavaliere, ma si trattò di un equivoco.
Infatti, nel corso della sua arringa e delle sue esortazioni, egli mostrò molto spesso il dito della mano sinistra dicendo
che di buon grado si sarebbe tolto anche l’anello per ricompensare tutti coloro che avessero contribuito alla difesa del
suo onore. I soldati dell’ultima fila, per i quali era più facile vedere che sentire l’oratore, fraintesero le parole che
credevano di interpretare attraverso i gesti e si sparse la voce che avesse promesso a ciascuno il diritto di portare l’anello
e di possedere i quattrocentomila sesterzi.
34 Questo è l’ordine cronologico e il sunto delle imprese che compì in seguito: occupò il Piceno, l’Umbria e
l’Etruria; accettata la resa di Lucio Domizio, che, in mezzo a una gran confusione, era stato nominato suo successore e
teneva Corfinio con una guarnigione, lo lasciò libero di andarsene; seguendo la litoranea adriatica, si diresse verso7
Brindisi, dove si erano rifugiati i consoli e Pompeo per attraversare il mare al più presto. Dopo aver cercato invano di impedire la loro partenza con tutti i mezzi possibili, ritornò verso Roma, dove illustrò ai senatori la situazione politica, quindi mosse verso le ben addestrate truppe di Pompeo che si trovavano in Spagna al comando di tre luogotenenti: M. Petreio, L. Afranio e M. Varrone. Ai suoi amici, prima di partire, disse che andava contro un esercito senza comandanti
e che poi si sarebbe mosso contro un comandante senza esercito. Quantunque l’assedio di Marsiglia, che durante il viaggio gli aveva chiuso le porte in faccia, e una pericolosa penuria di frumento gli imponessero dei ritardi, tuttavia in breve tempo sistemò ogni cosa.
35 Dalla Spagna tornò a Roma, quindi passò in Macedonia dove tenne assediato Pompeo con formidabili fortificazioni per circa quattro mesi, finché lo sconfisse nella battaglia di Farsalo. Pompeo fuggì e Cesare lo inseguì fino
ad Alessandria, dove seppe che era stato ucciso. Rendendosi conto che il re Tolomeo gli tendeva insidie, combatté
anche contro di lui una delle guerre più difficili, in una posizione sfavorevole e in una stagione poco clemente,
d’inverno, tra le mura di un nemico ben provvisto di rifornimenti e particolarmente ingegnoso, mentre lui era privo di
tutto e assolutamente impreparato. Uscitone vincitore, concesse il regno d’Egitto a Cleopatra e a suo fratello minore, temendo che, se lo avesse ridotto allo stato di provincia romana, divenisse un giorno, nelle mani di un governatore audace, un focolaio di rivoluzione. Da Alessandria passò in Siria e di qui nel Ponto, dove lo chiamavano notizie pressanti di Farnace, il figlio del grande Mitridate, che aveva approfittato delle circostanze per entrare in guerra e che
già si esaltava per i numerosi successi. Meno di cinque giorni dopo il suo arrivo, quattro ore dopo il loro incontro, Cesare lo sconfisse in una sola battaglia; per questo faceva spesso allusione alla fortuna di Pompeo che aveva conquistato la maggior parte della sua gloria militare contro nemici così poco validi. In seguito sconfisse, in Africa, Scipione e Giuba, che tentavano di rianimare i resti del partito pompeiano, e, in Spagna, i figli di Pompeo.
36 Durante tutte queste guerre civili, Cesare non subì sconfitte se non per colpa dei suoi luogotenenti, dei quali C.
Curione morì in Africa, C. Antonio cadde in mano dei nemici nell’Illirico, P. Dolabella perse la fiotta, sempre
nell’Illirico, e Cn. Domizio Calvino ci rimise l’esercito nel Ponto. Per quanto riguarda lui personalmente, si batté sempre
vittoriosamente, e la situazione non fu mai incerta se non in due occasioni: la prima a Durazzo dove, respinto, disse che
Pompeo non sapeva vincere perché aveva rinunciato ad inseguirlo; la seconda in Spagna, durante l’ultima battaglia
quando, disperando ormai del successo, pensò perfino di darsi la morte.
37 Concluse le guerre, riportò il trionfo cinque volte: quattro volte nello stesso mese, ma a qualche giorno di
intervallo, dopo aver sconfitto Scipione, e una volta ancora, dopo aver superato i figli di Pompeo. Il primo, e il più
bello, dei suoi trionfi fu quello Gallico, poi l’Alessandrino, quindi il Pontico, dopo l’Africano e infine lo Spagnolo, ciascuno differente per apparato e varietà di particolari. Nel giorno del trionfo sui Galli, attraversando il Velabro, per
poco non fu sbalzato dal carro a causa della rottura di un assale; salì poi sul Campidoglio alla luce delle fiaccole che quaranta elefanti, a destra e a sinistra, recavano sui candelieri. Nel corso del trionfo Pontico, tra gli altri carri presenti
nel corteo, fece portare davanti a sé un cartello con queste tre parole: «Venni, vidi, vinsi», volendo indicare non tanto le
imprese della guerra, come aveva fatto per le altre, quanto la rapidità con cui era stata conclusa.
38 Alle sue vecchie legioni, oltre ai duemila sesterzi che aveva promesso come preda a ciascun fante, all’inizio
delle sommosse civili, ne diede anche altri ventiquattromila. Assegnò anche dei campi, ma non contigui, per non procedere ad espropri. Quanto al popolo fece distribuire non soltanto dieci moggi di frumento e altrettante libbre d’olio,
ma anche trecento sesterzi per persona, che un tempo aveva promesso, e ne aggiunse altri cento per farsi perdonare il
ritardo. Condonò inoltre, per un anno, gli affitti delle abitazioni che a Roma arrivavano fino a duemila sesterzi e in Italia
fino a cinquecento. A queste liberalità aggiunse una distribuzione di pasti e di carne e, dopo la vittoria in Spagna, di due pranzi, perché la prima distribuzione gli era sembrata insufficiente e poco degna della sua generosità; quattro giorni dopo offrì un altro ricchissimo banchetto.
39 Offrì spettacoli di vario genere: combattimenti di gladiatori, rappresentazioni teatrali, allestite in tutti i quartieri della città e per di più con attori che parlavano tutte le lingue, giochi ginnici nel circo e battaglie navali. Ai
combattimenti di gladiatori, allestiti nel foro, presero parte Furio Leptino, di famiglia pretoria, e Quinto Calpeno, un
tempo senatore e avvocato. Ballarono la Pirrichia i figli delle più grandi famiglie dell’Asia e della Bitinia. Alle rappresentazioni teatrali Decimo Laberio, cavaliere romano, propose un mimo di sua creazione, poi, dopo aver ricevuto in dono cinquecento sesterzi e un anello d’oro, abbandonò la scena e attraversò l’orchestra per andarsi a sedere su uno dei quattordici gradini. Per i giochi del circo si ingrandì l’arena da una parte e dall’altra e vi si condusse intorno un fossato: giovani della più alta nobiltà guidarono bighe, quadrighe e cavalli da corsa. Una duplice schiera di fanciulli,
differenti per età, realizzò il gioco troiano. Cinque giorni furono dedicati alla caccia e, alla fine tutto si risolse con una battagli a tra due schiere che comprendevano ciascuna cinquecento fanti, venti elefanti e trenta cavalieri. Per lasciare più spazio ai combattenti erano state tolte le mete e allestiti al loro posto due accampamenti opposti uno all’altro. Alcuni atleti lottarono per tre giorni in uno stadio appositamente costruito per la circostanza nel quartiere del Campo di Marte.
Per la battaglia navale si scavò nella piccola Codeta un bacino dove si scontrarono, con grande numero di combattenti, biremi, triremi e quadriremi, raggruppate in due flotte, una tiriana e l’altra egiziana. Tutti questi spettacoli8
determinarono un tale afflusso di gente, venuta da ogni parte, che la maggioranza degli stranieri si sistemò sotto le tende
erette nei vicoli e nelle strade, e molti furono schiacciati e uccisi dalla folla. Tra questi anche due senatori.
40 Dedicandosi quindi alla riorganizzazione dello Stato, Cesare riformò il calendario nel quale, per colpa dei
pontefici che avevano abusato dei giorni da intercalare, si era determinato un tale disordine che le feste della mietitura non cadevano più in estate e quelle della vendemmia in autunno. Regolò allora l’anno secondo il corso del sole, in modo
che vi fossero trecentosessantacinque giorni e, eliminato il mese da intercalare, stabilì che si aggiungesse un giorno ogni
quattro anni. Ma, perché da allora in poi fosse più sicura la concordanza delle date, a partire dalle successive calende di gennaio, aggiunse altri due mesi tra quelli di novembre e dicembre. Così quell’anno, in cui fece la riforma, fu di quindici mesi, perché, secondo l’usanza, proprio allora era il turno del mese da intercalare.
41 Completò il Senato, creò nuovi patrizi, aumentò il numero dei pretori, degli edili, dei questori e anche dei magistrati minori, riabilitò i cittadini privati delle loro prerogative per intervento del censore o condannati per broglio
dai giudici. Divise con il popolo il diritto di eleggere i magistrati, stabilendo che, salvo per gli aspiranti al consolato, una metà degli eletti doveva essere presa tra i candidati scelti dal popolo, e l’altra metà tra quelli che lui stesso aveva designato. E lui designava i suoi candidati per mezzo di circolari, indirizzate ai tribuni, che recavano questa semplice formula: «Il dittatore Cesare ha designato il tale. Vi raccomando il tale e il tal altro, perché con il vostro voto ottengano
la loro carica.» Ammise alle cariche anche i figli dei proscritti. Per la giustizia conservò soltanto due categorie di giudici: quelli dell’ordine equestre e quelli dell’ordine senatorio. Soppresse la terza, quella dei tribuni del tesoro. Fece il censimento della popolazione, non secondo il modo e i luoghi consueti, ma in ogni quartiere, per mezzo dei proprietari di stabili di abitazione, e ridusse a centocinquantamila i trecentoventimila plebei che ricevevano frumento dallo Stato.
Infine, perché il censimento non dovesse in avvenire far sorgere qualche sommossa, stabilì che ogni anno, per
rimpiazzare i morti, il pretore estraesse a sorte tra i plebei quelli che non erano stati iscritti.
42 Distribuì nelle colonie d’oltremare ottantamila cittadini, ma per assicurare nello stesso tempo alla capitale, così depauperata, una popolazione sufficiente, vietò ad ogni cittadino maggiore di vent’anni e minore di sessanta, a meno che fosse sotto le armi, di stare lontano dall’Italia per più di tre anni consecutivi; proibì ai figli dei senatori di andare all’estero, se non come membri dello stato maggiore o accompagnatori di un magistrato; volle infine che gli allevatori di
bestiame avessero tra i loro pastori almeno un terzo di uomini liberi in pubere età. A tutti coloro che esercitavano la medicina o insegnavano le arti liberali in Roma concesse la cittadinanza, perché più volentieri prendessero residenza in città e ve ne attirassero altri. Quanto ai debiti, deludendo le speranze di abolizione, che spesso si diffondevano, stabilì
che i debitori si accordassero con i creditori nello stimare le loro proprietà al prezzo che ciascuna era costata prima della
guerra civile, deducendo dalla cifra dei loro debiti ciò che avevano pagato a titolo di interesse, sia in argento, sia in valori; queste disposizioni ridussero il credito di circa un quarto. Fece sciogliere tutte le associazioni, ad eccezione delle più antiche. Rese più dure le sanzioni contro i crimini, e poiché i ricchi tanto più facilmente si rendevano colpevoli in
quanto se ne andavano in esilio senza perdere niente del loro patrimonio, stabilì, come riferisce Cicerone, che i parricidi fossero spogliati di tutti i loro beni, e tutti i colpevoli di altri delitti della metà del loro patrimonio.
43 Amministrò la giustizia con il più grande zelo e con la massima severità. Arrivò perfino a rimuovere dall’ordine dei senatori i magistrati riconosciuti colpevoli di concussione. Annullò il matrimonio di un anziano pretore
che aveva sposato una donna separata dal marito solo da due giorni, quantunque senza sospetto di adulterio. Stabilì diritti di importazione sulle merci straniere. Permise l’uso delle lettighe, e così pure delle vesti di porpora e delle perle, solo a certe persone, ad una certa età e durante certi giorni. Fu severissimo nell’applicazione della legge sontuaria: mise delle guardie intorno al mercato con l’incarico di scoprire le derrate proibite e fargli rapporto: talvolta inviava di sorpresa littori e soldati che requisivano dalle sale da pranzo, dove già erano state sistemate, le merci che erano potute
sfuggire alle guardie.
44 Inoltre, per ciò che concerne l’abbellimento e l’arricchimento dell’Urbe, la protezione e l’ingrandimento
dell’Impero, faceva ogni giorno i più numerosi e vasti progetti. Si ripromise, innanzitutto, di costruire un tempio di Marte, il più grande del mondo, dopo aver riempito e spianato il bacino in cui era stata data la battaglia navale, e di realizzare un immenso teatro, a ridosso della rupe Tarpeia; di condensare il diritto civile e di scegliere nell’enorme congerie di leggi sparse ciò che vi era di migliore e di indispensabile per raggrupparlo in un piccolo numero di libri; di
mettere a disposizione del pubblico biblioteche greche e latine, le più ricche possibili: aveva affidato a M. Varrone
l’incarico di procurare e catalogare i libri. Aveva intenzione di bonificare le paludi pontine, di aprire uno sbocco al lago Fucino, di condurre una strada dall’Adriatico fino al Tevere, scavalcando l’Appennino, di tagliare l’istmo di Corinto, di contenere i Daci che si erano riversati nella Tracia e nel Ponto, di portare quindi guerra ai Parti, passando per l’Armenia minore, ma di non provocarli a battaglia, se non dopo aver saggiato le loro forze. Nel bel mezzo di questi lavori e di questi progetti, lo sorprese la morte. Ma prima di raccontare la sua fine, non sarà fuori posto esporre sinteticamente tutto
ciò che riguarda la sua persona, il suo carattere, il suo tenore di vita, le sue abitudini, non meno che il suo talento civile e militare.
45 Si dice che fosse di alta statura, di carnagione bianca, ben fatto di membra, di viso forse un po’ troppo pieno, di occhi neri e vivaci, di fibra robusta, benché negli ultimi tempi andasse soggetto ad improvvisi svenimenti e fosse
ossessionato da incubi che lo svegliavano nel sonno. Fu anche colto, in pieno lavoro, da due attacchi di epilessia. Un po’ ricercato nella cura del corpo, non si limitava a farsi tagliare i capelli e a radersi con meticolosità, ma si faceva anche
depilare, tanto che alcuni lo rimproveravano per questo. Non sopportava l’idea di essere calvo, soprattutto perché si era accorto più di una volta che suscitava le canzonature dei suoi denigratori. Per questo aveva preso l’abitudine di riportare in avanti i pochi capelli che aveva e di tutti gli onori che il Senato e il popolo gli avevano decretato, nessuno preferì o accettò più volentieri del diritto di tenere perennemente sul capo la corona di lauro. Dicono anche che fosse elegante nel
vestire: indossava un laticlavio guarnito di frange che arrivavano fino alle mani e su di esso portava la sua cintura, per
altro allentata: da questa abitudine è venuta la battuta che Silla andava ripetendo agli ottimati di «fare attenzione a quel
giovane che portava male la cintura».
46 In principio abitò in una modesta casa della Suburra; dopo il massimo pontificato si trasferì in un palazzo
pubblico sulla via Sacra. Molti riferiscono che fosse avido del lusso e della sontuosità. Avrebbe fatto abbattere una villa nel bosco Nemorense, iniziata dalle fondamenta e con grande impiego di soldi, perché non corrispondeva completamente ai suoi desideri, e ciò benché fosse ancora povero e pieno di debiti. Durante le sue spedizioni avrebbe importato pavimenti di marmo fatti a mosaico.
47 Avrebbe aggredito la Britannia con la speranza di trovare le perle e che, per raccogliere le più grosse, più volte,
di sua mano, ne avrebbe saggiato il peso. Dicono che facesse collezione continuamente e con grande passione, di pietre preziose, di vasi cesellati, di statue, di quadri di antichi artisti; dicono anche che si assicurasse gli schiavi più belli e più educati ad un prezzo spropositato, ed egli stesso se ne vergognava a tal punto da vietare di registrarlo nei suoi conti.
48 Dicono che nelle province offrisse continuamente banchetti, facendo apparecchiare due tavole distinte: una per i suoi ufficiali e per i Greci, l’altra per i Romani e per i notabili del paese. In casa propria manteneva una disciplina così
precisa e rigorosa, sia nelle piccole, sia nelle grandi cose, che fece mettere ai ferri uno schiavo addetto alla
panificazione perché serviva agli invitati un tipo di pane diverso dal suo e punì con la morte uno dei suoi più cari liberti, senza che nessuno se ne lamentasse, perché aveva sedotto la moglie di un cavaliere romano.
49 Soltanto il suo soggiorno presso Nicomede diffuse la fama della sua sodomia, ma fu sufficiente per disonorarlo
per sempre ed esporlo agli insulti di tutti. Lascio perdere i conosciutissimi versi di Licinio Calvo: «… tutto ciò che mai la Bitinia possedette e l’amante di Cesare.» Sorvolò sui discorsi di Dolabella e di Curione padre, nei quali il primo lo
definisce a rivale della regina, sponda interna della lettiga regale» e il secondo «postribolo di Nicomede, sotterraneo bitinico». Non prendo nemmeno in considerazione le scritte con le quali, sui muri di Roma, Bibulo chiamò il suo collega «regina bitinica, al quale un tempo stava a cuore un re ed ora sta a cuore un intero regno». Nello stesso tempo, come riferisce Marco Bruto, un certo Ottavio, la cui acutezza di mente lo autorizzava a dire tutto senza riguardi, davanti
ad un’assemblea numerosissima, aveva dato a Pompeo il titolo di «re» e aveva salutato Cesare con il nome di «regina».
Ma C. Memmio arriva perfino a rimproverarlo di aver servito, come coppiere, insieme con altri invertiti, questo
Nicomede, durante un grande banchetto al quale avevano preso parte alcuni commercianti romani, dei quali riporta i nomi. Cicerone, non contento di aver scritto in alcune sue lettere che le guardie lo portavano nella camera del re, che si sdraiava su un letto d’oro, con una veste dorata e che un discendente di Venere aveva contaminato in Bitinia il fiore della sua giovinezza, un giorno, anche in Senato disse a Cesare, che difendeva la causa di Nisa, la figlia di Nicomede e
ricordava i benefici che aveva ricevuto dal re: «Lascia perdere queste cose, ti prego, dal momento che è ben noto quello
che lui ti ha dato e quello che tu hai dato a lui.» Infine, durante il trionfo sui Galli, tra i versi satirici che i suoi soldati
cantavano, secondo la tradizione, mentre scortavano il suo carro, si udirono anche questi, divenuti assai popolari:
«Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede ha sottomesso Cesare:
Ecco, Cesare che ha sottomesso le Gallie, ora trionfa, Nicomede, che ha sottomesso Cesare, non riporta nessun trionfo.»
50 Tutti concordano nell’affermare che era portato alla sensualità ed era assai generoso nei suoi amori; che sedusse moltissime donne di nobile nascita: tra queste Postumia, moglie di Servio Sulpicio, Lollia, moglie di Aulo
Gabinio, Tertulla, moglie di Marco Crasso e anche la moglie di Gneo Pompeo, Mucia. In ogni caso i due Curioni, padre e figlio, e molti altri rimproveravano Pompeo perché, spinto dalla sete del potere, aveva accettato in matrimonio proprio la figlia di colui che lo aveva costretto a ripudiare la moglie, dopo averne avuti tre figli, e che egli, quasi lamentandosi,
era solito chiamare «Egisto»: Ma in modo particolare Cesare amò Servilia, la madre di Marco Bruto: per lei, durante il suo primo consolato, acquistò una perla del valore di sei milioni di sesterzi e, nel corso della guerra civile, tra le altre donazioni, le fece aggiudicare al prezzo più basso possibile, immense proprietà messe all’asta. Quando molti si stupirono del prezzo irrisorio, Cicerone, assai spiritosamente, disse: «La spesa fu ancora più esigua, perché è stata dedotta la terza parte.» Si supponeva infatti che Servilia avesse procurato a Cesare anche i favori della figlia Terza.
51 Non si astenne nemmeno dalle donne della provincia, come appare evidente da questo distico, continuamente
ripetuto dai soldati durante il trionfo sui Galli:10
«Cittadini, sorvegliate le vostre donne: vi portiamo l’adultero calvo; In Gallia, o Cesare, hai dissipato con le donne il denaro che qui hai preso in prestito.»
52 Ebbe per amanti anche le regine, tra le quali Eunce di Mauritania, moglie di Bogude: a lei e a suo marito, come
scrive Nasone, fece molte e grandi donazioni. La sua più grande passione fu però Cleopatra, con la quale protrasse i banchetti fino alle prime luci dell’alba. Conducendola con sé, su una nave dotata di camera da letto, avrebbe attraversato
tutto l’Egitto se l’esercito non si fosse rifiutato di seguirlo. Infine la fece venire a Roma e poi la rimandò in Egitto, dopo
averla colmata di onori e di magnifici regali, permettendole di dare il proprio nome al figlio nato dal loro amore. Alcuni scrittori greci hanno affermato che questo figlio assomigliasse moltissimo a Cesare sia nell’aspetto, sia nel modo di camminare. M. Antonio dichiarò in Senato che lo aveva riconosciuto per questo e che la stessa cosa sapevano C. Marzio e C. Oppio e tutti gli altri amici di Cesare. Ma uno di costoro, e precisamente Oppio, pensando fosse opportuno difenderlo e giustificarlo su questo punto, pubblicò un libro nel quale sosteneva che non era figlio di Cesare quello di
cui Cleopatra gli attribuiva la paternità. Elvio Cinna, tribuno della plebe, confidò a molti dí aver già scritto e pronto un progetto di legge che Cesare gli aveva ordinato di proporre durante la sua assenza. La legge gli concedeva di poter sposare tutte le donne che volesse per assicurarsi la discendenza. Perché poi non vi sia più nessun dubbio che Cesare abbia avuto la più triste reputazione di sodomita e di adultero, basterà dire che Curione padre, in una sua orazione lo definisce: «il marito di tutte le donne e la moglie di tutti gli uomini».
53 Anche i suoi nemici dicono che fu assai parco nell’uso del vino. È di Marco Catone il detto: «Fra tutti coloro
che si apprestarono a rovesciare lo Stato, solo Cesare era sobrio.» Nei riguardi del vitto Gaio Oppio lo mostra tanto indifferente che una volta, essendogli stato servito da un ospite olio rancido al posto di olio fresco, mentre tutti gli altri convitati si risentivano, lui solo se ne mostrò entusiasta, per non aver l’aria di rimproverare l’ospite stesso della sua negligenza o della sua mancanza di buon gusto. Conservò la moderazione sia durante i periodi di comando, sia durante le sue magistrature.
54 Secondo quanto affermano alcuni autori nei loro scritti, quando era proconsole in Spagna, non si fece riguardo
di prendere denaro dai suoi alleati, dopo averlo mendicato, per pagare i suoi debiti, e distrusse, come nemiche, alcune città dei Lusitani, sebbene non si fossero rifiutate di versare i contributi imposti e gli avessero aperto le porte al suo arrivo. In Gallia spogliò le cappelle e i templi degli dei, piene di offerte votive e distrusse città più spesso per far bottino che per rappresaglia. In tal modo arrivò ad essere così pieno d’oro da farlo vendere in Italia e nelle province a tremila sesterzi la libbra. Durante il suo primo consolato sottrasse dal Campidoglio tremila libbre d’oro e le rimpiazzò con un
peso uguale di bronzo dorato. Concesse alleanze e regni, dietro versamento di denaro, e al solo Tolomeo estorse, a
nome suo e di Pompeo, circa seimila talenti. È chiaro quindi che grazie a queste evidenti rapine e a questi sacrilegi poté sostenere sia gli oneri delle guerre civili, sia le spese dei trionfi e degli spettacoli.
55 Nell’eloquenza e nell’arte militare o eguagliò o superò la gloria dei personaggi più insigni. Dopo la sua requisitoria contro Dolabella fu senza dubbio annoverato tra i migliori avvocati. Ad ogni modo Cicerone, elencando nel suo «Bruto»- gli oratori, dice di non «vedere proprio a chi Cesare debba essere considerato inferiore» e aggiunge che «è
elegante e che ha un modo di parlare splendido, magnifico e in un certo senso generosa»; scrivendo poi a Cornelio
Nepote si esprime così nei confronti di Cesare: «Come? Quale oratore gli preferisci tra quelli che si sono dedicati esclusivamente all’eloquenza? Chi è più acuto e ricco nelle battute? Chi più elegante e raffinato nella terminologia?»
Sembra che solo durante la sua giovinezza abbia seguito il genere di eloquenza di Cesare Strabone, dal cui discorso che si intitola: «A favore dei Sardi» riportò, parola per parola, alcuni passaggi nella sua «Divinazione». Parlava, almeno così dicono, con voce penetrante, con movimenti e gesti pieni di foga e non senza signorilità. Lasciò qualche orazione e
tra queste alcune gli sono attribuite a torto. Giustamente Augusto pensa che il testo dell’orazione «In favore di Qúinto Metello» sia stato redatto da stenografi che avevano seguito male le parole di Cesare mentre parlava, e non pubblicato da lui stesso. Infatti in alcuni esemplari trovo scritto non già «Discorso in favore di Metello» ma «Discorso che ha scritto per Metello»; e pertanto è Cesare in persona che parla per difendere sia se stesso, sia Metello dalle accuse dei loro comuni denigratori. Anche le «Allocuzioni rivolte ai soldati in Spagna» Augusto, con molta riluttanza, le considera
di Cesare, e tuttavia due gli vengono attribuite: una sarebbe stata pronunciata prima del primo combattimento, l’altra
dopo il secondo; ma Asinio Pollione ci dice che non ebbe nemmeno il tempo di rivolgere un’esortazione ai soldati a
causa di un improvviso attacco dei nemici.
56 Lasciò anche i Commentari delle sue imprese nella guerra gallica e nella guerra civile contro Pompeo, mentre
non si è d’accordo sull’autore dei resoconti sulla guerra di Alessandria, d’Africa e di Spagna. Alcuni dicono che sia Oppio, altri Irzio, il quale avrebbe anche completato l’ultimo libro della guerra gallica, rimasto incompiuto. A proposito
dei Commentari di Cesare, sempre nel a Bruto» Cicerone dice: «Scrisse i Commentari che bisogna proprio lodare: essi
sono scarni, precisi e pieni di eleganza, spogliati di ogni ornamento oratorio, come un corpo del suo vestito; ma volendo offrire materiale a chi avesse intenzione di attingere dai suoi Commentari per scrivere una storia, fece forse cosa gradita agli stolti che vorranno impiastricciare quelle limpide annotazioni, ma ha fatto desistere gli uomini di buon senso dal raccontarla.» Sugli stessi Commentari Irzio così si esprime: «Tutti ne hanno tessuto così alti elogi che Cesare sembra non tanto aver offerto, ma addirittura tolto agli storici la possibilità di scrivere. Di questa opera la nostra ammirazione è11
maggiore di quella degli altri lettori: essi sanno come l’abbia scritta bene e in stile perfetto, noi invece sappiamo come l’abbia composta con facilità e rapidamente» Asinio Pollione pensa che i Commentari siano stati scritti con poca diligenza e con scarso rispetto della verità, perché Cesare, nella maggior parte dei casi ha accettato, senza nessun controllo, tutto quello che gli altri hanno fatto, mentre vuoi deliberatamente, vuoi per un inganno della memoria, ha
presentato in modo inesatto le proprie azioni. Lasciò anche due libri a Sull’Analogia» e altrettanti dell’«Anticatone» e
inoltre un poema intitolato a Il viaggio». Di queste opere compose la prima mentre attraversava le Alpi, quando dalla
Gallia Citefiore ritornava presso l’esercito, dopo aver tenuto le sue assemblee, la seconda la scrisse al tempo della battaglia di Munda e l’ultima mentre si portava da Roma nella Spagna ulteriore con un viaggio di ventitré giorni.
Abbiamo anche alcune sue lettere inviate al Senato: sembra sia stato il primo a dividerle in pagine e a dar loro la forma di un memoriale, mentre i consoli e i generali avevano sempre fatto i loro rapporti su tutta la larghezza del foglio.
Rimangono anche le sue lettere a Cicerone e quelle ai familiari; quando doveva fare qualche comunicazione segreta, si
serviva di segni convenzionali, vale a dire accostava le lettere in un ordine tale da non significare niente: se si voleva scoprire il senso e decifrare lo scritto bisognava sostituire ogni lettera con la terza che la seguiva nell’alfabeto, ad esempio la A con la D, e così via. Si ricordano anche alcuni scritti giovanili, come «Le lodi di ErcoIe», una tragedia «Edipo» e una raccolta di detti famosi. Augusto però proibì che questi libretti venissero pubblicati: lo ordinò con una
lettera breve e tuttavia incisiva che inviò a Pompeo Macro, al quale aveva affidato l’incarico di amministrare le biblioteche.
57 Fu abilissimo nell’uso delle armi e nell’equitazione e sopportava le fatiche in modo incredibile. In marcia
precedeva i suoi uomini qualche volta a cavallo, ma più spesso a piedi, con il capo scoperto, sia che picchiasse il sole, sia che piovesse. Con straordinaria rapidità coprì lunghissime tappe, senza bagaglio, con un carro da nolo, percorrendo in un giorno la distanza di centomila passi. Se i fiumi gli sbarravano la strada, li attraversava a nuoto o galleggiando su otri gonfiati: così spesso arrivava prima di coloro che dovevano annunciare il suo arrivo.
58 Durante le spedizioni non si può dire se fosse più prudente o ardito: non condusse mai il suo esercito per strade insidiose, se prima non aveva ispezionato la natura del terreno; non lo trasportò in Britannia senza aver prima esplorato personalmente i porti, la rotta e i possibili approdi sull’isola. Al contrario però, quando venne a sapere che alcuni suoi accampamenti erano assediati in Germania, passò attraverso le postazioni nemiche, travestito da Gallo, e raggiunse i soldati. In pieno inverno fece la traversata da Brindisi a Durazzo, eludendo le flotte nemiche; poiché le truppe, cui aveva ordinato di seguirlo, non si decidevano a partire e più volte aveva inviato solleciti per farle arrivare, alla fine lui
stesso, di notte, in gran segreto, salì su una piccola imbarcazione, con il capo coperto, e non si fece riconoscere e non permise al pilota di arrendersi alla tempesta se non quando i flutti minacciarono di travolgerlo.
59 Nessuno scrupolo religioso gli fece mai abbandonare o differire una sola delle imprese cominciate. Una volta
che la vittima gli scappò di mano proprio mentre stava per sacrificarla, non riamandò per niente la sua spedizione contro Scipione e Giuba. Per di più, scivolato mentre saliva sulla nave, volse il presagio in senso favorevole e gridò: «Africa, io ti tengo.» Però, allo scopo di eludere le predizioni, secondo le quali si diceva che in quella terra, quasi per volontà del destino, il nome degli Scipioni era fortunato e invincibile, tenne presso di sé, nell’accampamento un membro degenere della famiglia dei Cornelii che, per l’infamia della sua condotta, era stato soprannominato «Salvitone».
60 Attaccava battaglia non tanto ad un’ora stabilita, ma secondo l’occasione e spesso durante la marcia, talvolta
nelle peggiori condizioni di tempo, quando nessuno credeva che si sarebbe mosso. Soltanto negli ultimi tempi si fece più esitante a combattere: pensava infatti che quanto più spesso aveva vinto, tanto meno doveva esporsi al caso e che un’eventuale vittoria non gli avrebbe reso più di quanto avrebbe potuto togliergli una sconfitta. Non mise mai in fuga il nemico, senza poi aver conquistato il suo accampamento: in tal modo non dava scampo a quelli che già erano in preda al terrore. Quando la battaglia era incerta, faceva allontanare i cavalli, il suo per primo: così costringeva tutti a resistere ad ogni costo, dal momento che aveva sottratto le risorse della fuga.
61 Aveva un cavallo straordinario, dai piedi simili a quelli di un uomo e con le unghie tagliate a forma di dita: era nato nella sua casa e quando gli aruspici dichiararono che presagiva al suo padrone il dominio del mondo, lo allevò con grande cura e fu il primo a montarlo, perché la bestia non sopportava nessun altro cavaliere. Gli fece anche erigere una statua davanti al tempio di Venere Genitrice.
62 Spesso da solo riordinò le file sbandate, opponendosi a quelli che fuggivano, trattenendoli uno per uno e
afferrandoli alla gola per volgerli verso il nemico. Questo avveniva magari nei confronti di uomini così atterriti che un portatore di insegne lo minacciò con la punta, mentre tentava di fermarlo e un altro, per sfuggirgli, gli lasciò l’insegna tra le mani.
63 Non certo inferiore fu la sua temerarietà e numerose ne sarebbero le prove. Dopo la battaglia di Farsalo, mandate avanti verso l’Asia le truppe, attraversò lo stretto dell’Ellesponto su una piccola nave da trasporto. Quando incontrò L. Cassio, che era del partito avversario, con dieci navi rostrate, si guardò bene dal fuggire, ma, avvicinandosi,
lo esortò ad arrendersi spontaneamente e lo accolse a bordo come supplice.
64 Ad Alessandria, durante l’attacco ad un ponte, una improvvisa sortita del nemico lo obbligò a saltare su una
barca, ma poiché un gran numero di soldati ci si buttò contro, si tuffò in mare e, nuotando per duecento passi, si mise in
salvo presso la nave più vicina, tenendo alzata la mano sinistra per non bagnare i libri che portava con sé e stringendo fra i denti il suo mantello di generale per non lasciare al nemico una simile spoglia.
65 Non giudicò mai il soldato né per la sua moralità, né per la sua fortuna, ma soltanto per il suo valore, e lo trattava sia con severità, sia con indulgenza. Non era però esigente sempre e dappertutto, ma solo quando il nemico era vicino: allora, soprattutto, pretendeva la massima disciplina. Non faceva conoscere né l’ora della marcia, né quella del
combattimento, ma tenendo l’esercito pronto e all’erta in ogni momento, poteva condurlo subito dove voleva. A volte lo
faceva senza motivo, specialmente nei giorni di pioggia o di festa. Raccomandava alle sue truppe di tenerlo d’occhio, poi improvvisamente spariva, di giorno o di notte, e forzava la marcia per affaticare la colonna che lo seguiva.
66 Se i suoi soldati erano spaventati per ciò che si diceva a proposito delle truppe nemiche, li rassicurava non certo negando la realtà e minimizzandola, ma, al contrario, esagerandola e aggiungendo menzogne. Così, quando si
accorse che stavano aspettando Giuba in preda allo spavento, radunò tutti i soldati e disse: «Sappiate che nel breve giro
di soli tre giorni arriverà il re con dieci legioni, trentamila cavalieri, centomila soldati armati alla leggera e trecento
elefanti. Di conseguenza alcuni la smettano di volerne sapere di più o di fare congetture e credano a me che sono bene informato; in caso contrario li farò imbarcare sulla più vecchia delle mie navi ed essi andranno, in balia del vento, verso le terre che potranno raggiungere.»
67 Non faceva caso a tutti i loro difetti, ai quali non proporzionava mai le punizioni, ma quando scopriva disertori e sediziosi e doveva punirli, allora prendeva in considerazione anche il resto. Non di rado, dopo una grande battaglia,
conclusasi con la vittoria, condonato ogni incarico di servizio, concedeva a tutti la possibilità di divertirsi, perché era
solito vantarsi che «i suoi soldati potevano combattere valorosamente anche se erano impomatati». Durante le arringhe
che rivolgeva loro non li chiamava «soldati», ma con il termine più simpatico di «compagni d’armi». Li voleva così bene equipaggiati che li dotava di armi rifinite con oro e con argento, sia per salvare l’apparenza, sia perché in battaglia fossero più valorosi, preoccupati dal timore di perderle. In un certo senso li amava a tal punto che quando venne a
sapere della strage di Titurio si lasciò crescere la barba e i capelli e se li tagliò soltanto dopo averlo vendicato.
68 Per tutte queste ragioni li rese fedelissimi alla sua persona, ma anche molto coraggiosi. All’inizio della guerra
civile i centurioni di ciascuna legione gli offrirono, di tasca propria, l’equipaggiamento di un cavaliere, mentre tutti i
soldati si dichiararono disposti a prestare i propri servizi gratuitamente, senza paga e senza rancio: i più ricchi, poi, si
impegnarono al mantenimento dei più poveri. Durante la guerra così lunga nessuno di loro lo abbandonò mai e quelli
che furono fatti prigionieri, quando si videro risparmiata la vita se avessero voluto continuare a combattere contro di lui,
per lo più rifiutarono. Quanto alla fame e alle altre privazioni, non solo quando erano assediati, ma anche quando
assediavano, sopportavano tutto con tale coraggio che Pompeo, dopo aver visto nelle trincee di Durazzo un tipo di pane fatto con erba, che serviva loro di nutrimento, disse di avere a che fare con bestie, e lo fece subito sparire senza mostrarlo a nessuno. Temeva che la tenacia e l’ostinazione del nemico scoraggiasse l’animo dei suoi soldati. Con quanto
valore combattessero i soldati di Cesare è dimostrato dal fatto che, dopo essere stati battuti una volta presso Durazzo, essi stessi, spontaneamente, chiesero di essere puniti, tanto che il loro generale dovette impegnarsi più a consolarli che a
rimproverarli. In tutte le altre battaglie vinsero facilmente le forze innumerevoli del nemico, anche se erano inferiori per
numero. Infine una sola coorte della sesta legione, posta a difesa di un forte, tenne impegnate per alcune ore quattro legioni di Pompeo, benché quasi tutti gli uomini fossero trafitti dalla quantità delle frecce nemiche, delle quali centotrentamila furono trovate dentro il vallo. La cosa non sorprende, se si fa attenzione ad alcuni esempi di eroismo individuale come quelli del centurione Cassio Sceva o del soldato semplice Gaio Acilio, per non citarne altri. Sceva, colpito ad un occhio, trapassato il femore e l’omero, forato lo scudo da centoventi colpi, continuò a difendere la porta
del forte che gli era stata affidata. Acilio, durante la battaglia navale presso Marsiglia, si vide tagliata la mano destra con cui aveva afferrato la poppa di una nave nemica. Imitando allora il mirabile esempio del greco Cinegiro, saltò sulla nave
e respinse con la sporgenza dello scudo quanti gli venivano incontro.
69 I suoi soldati non si ribellarono mai per tutti i dieci anni che durò la guerra contro i Galli; lo fecero qualche volta durante la guerra civile, ma furono richiamati prontamente all’ordine, non tanto per l’indulgenza del comandante,
quanto per la sua autorità. Infatti non indietreggiò mai davanti ai rivoltosi, ma sempre tenne loro testa. In particolare,
presso Piacenza, quando Pompeo era ancora in armi, congedò ignominiosamente tutta quanta la nona legione, e ci vollero molte preghiere perché acconsentisse a ricostituirla, e non senza aver punito i colpevoli.
70 A Roma, quando i soldati della decima legione reclamarono il congedo e le ricompense con terribili minacce e mettendo la città stessa nel più grande pericolo, proprio nel momento in cui la guerra divampava in Africa, egli non esitò a presentarsi davanti a loro, nonostante il parere contrario degli amici, e a congedarli. Gli fu sufficiente una sola parola, li chiamò «Quiriti», invece di «soldati», per calmarli e dominarli facilmente: gli risposero infatti che erano13
soldati e che, nonostante il suo rifiuto, spontaneamente lo avrebbero seguito in Africa. Ciò non gli impedì di togliere ai più sediziosi un terzo de] bottino e della terra che era stata loro destinata.
71 Il suo attaccamento ed il suo zelo nei riguardi dei suoi clienti non erano mai venuti meno, nemmeno durante la sua giovinezza. Ci mise tanto entusiasmo a difendere contro il re Iempsale il nobile giovane Masinta che, prendendo da parte Giuba, il figlio di quel re, lo afferrò per la barba, e quando il suo protetto fu dichiarato tributario non solo lo sottrasse a quelli che volevano arrestarlo, tenendolo nascosto per molto tempo in casa sua, ma più tardi, quando, deposta
la carica di questore, si accingeva a partire per la Spagna, lo fece passare tra gli amici venuti a salutarlo e tra i suoi littori, e lo condusse nella sua stessa lettiga.
72 Trattò sempre gli amici con generosità e indulgenza. Una volta, vedendo che Gaio Oppio, suo compagno di viaggio, si era improvvisamente ammalato proprio nel mezzo della foresta, gli cedette l’unico modesto alloggio trovato,
e si adattò a dormire per terra, all’aria aperta. Quando già si era impadronito del potere, elevò alle più alte cariche anche uomini di infima condizione e, poiché di questo lo rimproveravano, dichiarò pubblicamente che se «per difendere il
proprio onore avesse dovuto servirsi dell’aiuto di banditi e di assassini, anche a costoro avrebbe dimostrato uguale
riconoscenza».
73 Di pari passo, al contrario, non conservò mai rancori molto profondi e, quando si presentava l’occasione, volentieri li deponeva. Alle violente orazioni di Gaio Memmio contro di lui aveva risposto con non minor livore, e
tuttavia più tardi giunse anche a sostenere la sua candidatura al Senato. Per primo, e spontaneamente, scrisse a Gaio Calvo che, dopo averlo diffamato con i suoi epigrammi, aveva chiesto l’aiuto di alcuni amici per riconciliarsi con lui.
Valerio Catullo, con i suoi versi su Mamurra, gli aveva impresso un indelebile marchio di infamia e Cesare ben lo
sapeva, ma quando il poeta volle chiedergli scusa, lo invitò a cena il giorno stesso e non cessò, come ormai era abituato,
le relazioni di ospitalità con suo padre.
74 Anche nella vendetta manifestò la bonta della sua indole. Quando fece prigionieri i pirati che lo avevano catturato, poiché in precedenza aveva loro promesso che li avrebbe impiccati, ordinò che prima fossero sgozzati e poi appesi. Una volta, malato e proscritto, con fatica era sfuggito alle insidie notturne di Cornelio Fagita, pagando una somma per non essere consegnato a Silla: tuttavia in seguito non si decise mai a fargli del male. Lo schiavo Filemone
suo segretario, aveva promesso ai suoi nemici di avvelenarlo: egli lo fece mettere a morte, ma non lo torturò. Quando fu chiamato a testimoniare contro Publio Clodio, l’amante di sua moglie Pompcia, accusato, per la stessa ragione, di sacrilegio, dichiarò di non sapere niente, benché sua madre Aurelia e sua sorella Giulia, davanti agli stessi giudici, avessero detto tutta la verità. Quando poi gli chiesero perché mai avesse ripudiato la moglie, rispose: «Perché, a mio avviso, tutti i miei parenti devono essere esenti tanto da sospetti quanto da colpe.»
75 Diede prova di moderazione e di ammirevole clemenza, sia nella conduzione della guerra civile, sia nell’uso
dellá vittoria. Pompeo dichiarò che avrebbe considerato nemici tutti quelli che si fossero rifiutati di difendere lo Stato.
Cesare proclamò che avrebbe annoverato fra i suoi amici sia gli indifferenti sia i neutrali. Tutti coloro ai quali aveva conferito i gradi su raccomandazione di Pompeo furono lasciati liberi di passare al nemico. Presso Ilerda, Afranio e Petreio avevano avviato trattative di resa e tra le due armate si erano stabilite fitte relazioni di affari; tutto ad un tratto, presi dai rimorsi, fecero massacrare i soldati di Cesare sorpresi nel loro accampamento. Cesare tuttavia non se la sentì di imitare la perfidia commessa nei suoi confronti. Alla battaglia di Farsalo raccomandò di risparmiare i cittadini, poi
concesse ad ognuno dei suoi uomini di tenere un solo prigioniero di parte avversa, a scelta. Nessun pompeiano, dopo la battaglia, fu messo a morte, ad eccezione soltanto di Afranio, Fausto e Lucio Cesare il giovane. E pare che non siano stati uccisi per sua volontà; i primi due, ad ogni modo, avevano ripreso le armi dopo aver ottenuto il perdono e il terzo, non contento di aver selvaggiamente trucidato col ferro e col fuoco i liberti e gli schiavi di Cesare, aveva anche fatto sgozzare le bestie acquistate per uno spettacolo pubblico. Infine, negli ultimi tempi, anche tutti coloro ai quali non
aveva ancora concesso il perdono, ebbero l’autorizzazione a ritornare in Italia e a esercitare le magistrature e i comandi;
fece rimettere ai loro posti le statue di Silla e di Pompeo che il popolo aveva abbattuto. In seguito preferì scoraggiare, piuttosto che punire coloro i cui pensieri e le cui parole gli erano ostili. Così, quando scoprì congiure e riunioni notturne, si limitò a rendere noto con un editto che ne era al corrente. Nei confronti di coloro che lo criticavano
aspramente si accontentò di ammonirli in pubblica assemblea a non insistere troppo. Sopportò con signorilità che la sua reputazione fosse offesa da un violentissimo libro di Aulo Cecina e dai versi particolarmente ingiuriosi di Pitolao.
76 Purtroppo altri suoi atti e altri suoi discorsi fecero pendere la bilancia a suo sfavore a tal punto da credere che
abbia abusato del suo potere e che abbia meritato di essere ucciso. Infatti non solo accettò onori eccessivi, come il consolato a vita, la dittatura e la prefettura dei costumi in perpetuo, senza contare il titolo di a imperatore», il soprannome di «padre della Patria», la statua in mezzo a quelle dei re, un palco nell’orchestra, ma permise anche che gli
venissero attribuite prerogative più grandi della sua condizione umana: un seggio dorato in Senato e davanti al tribunale, un carro e un vassoio nelle processioni del circo, templi, altari, statue a fianco di quelle degli dei, un letto
imperiale, un flamine, Luperci con il suo nome venne chiamato un mese e per di più non vi furono cariche che egli non
abbia preso e assegnato a suo piacimento. Del terzo e del quarto consolato tenne soltanto il titolo e si accontentò del potere dittatoriale conferitogli insieme con i consolati, ma in quei due anni designò due consoli supplenti per gli ultimi tre mesi; in tal modo nell’intervallo non indisse altre elezioni se non quelle degli edili e dei tribuni della plebe, e nominò prefetti propretori, incaricati di amministrare La città in sua assenza. La morte improvvisa di un console, avvenuta il giorno prima delle calende di gennaio, lasciò vacante per qualche ora la carica che subito conferì a chi la chiedeva. Con
la stessa disinvoltura, in spregio alla tradizione consacrata, attribuì magistrature per più anni, accordò gli ornamenti consolari a dieci pretori anziani, concesse il diritto di cittadinanza e fece entrare in Senato alcuni Galli semibarbari.
Inoltre affidò il Tesoro e i redditi pubblici ai suoi servi personali. Lasciò la cura e il comando delle tre legioni di stanza ad Alessandria a Rufione, figlio di un suo liberto e suo favorito.
77 Come scrive Tito Ampio, teneva pubblicamente discorsi che rivelavano non minore imprudenza: «La
Repubblica non è che un nome vano, senza consistenza e senza realtà.-Silla, quando rinunciò alla dittatura, fu uno
sprovveduto-Bisogna ormai che gli uomini mi parlino con più rispetto, che considerino legge quello che dico.» Arrivò ad un punto tale di arroganza che quando un aruspice annunciò che i presagi erano funesti e le vittime senza cuore, disse
che «sarebbero stati più lieti quando lui lo avesse voluto e che non si doveva considerare un prodigio il fatto che una bestia manchi di cuore».
78 Ma ciò che suscitò contro di lui un odio profondo e mortale fu soprattutto questo. Un giorno tutto il corpo del Senato venne a presentargli un complesso di decreti che gli conferivano i più alti onori: egli lo ricevette davanti al
tempio di Venere Genitrice, senza nemmeno alzarsi. Alcuni dicono che sia stato trattenuto da Cornelio Balbo, mentre tentava di alzarsi, altri invece che non tentò nemmeno, ma che al contrario guardò con aria severa Gaio Trebazio che lo esortava ad alzarsi. Questo suo modo di comportarsi apparve assolutamente intollerabile e lui stesso, passando su un
carro di trionfo davanti ai seggi dei tribuni e vedendo che, di tutto il collegio, solo Panzio Aquila se ne stava seduto, pieno di indignazione gridò: «Tribuno Aquila, richiedimi dunque la Repubblica.» Per più giorni, in seguito, quando faceva qualche promessa a qualcuno, non mancò di aggiungere: «Sempre se Aquila lo permette.»
79 A così grande disprezzo per il Senato, aggiunse una arroganza ben più grave. Infatti, mentre ritornava dalle feste latine tra acclamazioni eccessive ed insolite del popolo, uno della folla impose sulla sua statua una corona di lauro
legata con un nastro bianco; allora i tribuni della plebe Epidio Marullo e Cesezio Flavo ordinarono di togliere il nastro alla corona e di mettere in prigione l’autore del gesto. Cesare, però, furente, sia perché l’allusione alla regalità aveva ottenuto così scarso successo, sia perché, come pretendeva, gli era stata tolta la gloria di rifiutare il regno, rimproverò severamente i tribuni e li destituì dalla carica. Da allora non riuscì più a far cadere il sospetto infamante di aver aspirato
anche al titolo di re, sebbene un giorno al popolo che lo salutava con il nome di re, avesse risposto di essere Cesare e non re e durante i Lupercali, davanti ai rostri, avesse rifiutato la corona che il console Antonio, a più riprese, aveva
avvicinato alla sua testa; la fece portare, invece, in Campidoglio, nel tempio di Giove Ottimo Massimo. Inoltre, secondo diverse voci correnti, si accingeva a partire per Alessandria o per Troia, portando con sé le ricchezze dell’Impero, dopo
aver spogliato l’Italia a furia di leve e aver affidato agli amici l’amministrazione di Roma; per di più, alla prima seduta
del Senato, il quindecemviro Lucio Cotta avrebbe avanzato la proposta di conferire a Cesare il titolo di re, perché nei
libri sibillini era scritto che i Parti potevano essere sconfitti solo da un re.
80 Fu questo il motivo che indusse i congiurati ad attuare il loro progetto, per non essere costretti a dare il loro assenso alla proposta. Allora fusero in un solo i piani, fino a quel momento distinti, che avevano elaborato in gruppi di
due o tre persone: anche il popolo non era più contento del regime in corso, ma, di nascosto o apertamente, denigrava il tiranno e reclamava chi lo liberasse. All’indirizzo degli stranieri ammessi in Senato, fu pubblicato questo biglietto:
«Buona fortuna! Che nessuno si prenda la briga di indicare la strada della curia ad un nuovo senatore»; dappertutto, poi,
si cantava così:
«Cesare conduce in trionfo i Galli, li conduce in Senato;
I Galli hanno abbandonato i calzoni e indossato il laticlavio.»
Quando in teatro un littore ordinò di annunciare l’entrata di Quinto Massimo, nominato console supplente per tre mesi, tutti gli spettatoti in coro gridarono che quello non era console. Durante le elezioni che seguirono alla revoca di Cesezio e Marullo si trovarono numerosi voti che li designavano come consoli. Alcuni scrissero sul basamento della statua di Lucio Bruto: «Oh, se fossi ancora vivo!», e di quella dello stesso Cesare:
Bruto fu eletto console per primo perché aveva scacciato i re.
Costui, perché ha scacciato i consoli, alla fine è stato fatto re.
Più di sessanta cittadini cospirarono contro di lui, guidati da Gaio Cassio, Marco e Decimo Bruto. I congiurati
erano indecisi, in un primo tempo, se assassinarlo al Campo di Marte, durante le elezioni, quando egli avrebbe chiamato i tribuni a votare: allora alcuni lo avrebbero fatto cadere dal ponte, e altri lo avrebbero atteso giù, per sgozzarlo; oppure
se assalirlo sulla via Sacra, o ancora mentre entrava in teatro. Quando però fu fissato che il Senato si sarebbe riunito alle
idi di marzo nella curia di Pompeo, non ci furono difficoltà sulla scelta di quella data e di quel luogo.
81 Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua,
in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà
per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e dillerire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle
mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia,
passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.
82 Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico dell’iniziativa, gli si fece più vicino, come se volesse chiedergli un favore: Cesare
però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa ad un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: «Ma questa è violenza bell’e buona!» uno dei due Casca lo ferì dal di dietro, poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con il suo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente,
coperta anche la parte inferiore del corpo. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando
dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: «Anche tu, figlio?», Privo di vita, mentre tutti fuggivano, rimase lì per un po’ di tempo, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva in fuori, fu portato a casa. da tre servi. Secondo il referto del medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in, pieno petto. [ congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console M. Antonio e del maestro dei cavalieri Lepido.
83 Su richiesta del suocero Lucio Pisone, fu aperto il suo testamento che venne letto nella casa di Antonio. Cesare lo aveva redatto alle ultime idi di settembre, nella sua proprietà di Lavico e lo aveva poi affidato alla Grande Vergine Vestale. Quinto Tuberone riferisce che egli non aveva mai cessato, dal suo primo consolato fino all’inizio della guerra civile, di designare come suo erede Cn. Pompeo e che davanti all’assemblea dei soldati aveva letto un testamento concepito in tal senso. In questo ultimo documento, però, nominò suoi eredi i tre nipoti delle sue sorelle, Gaio Ottavio per i tre quarti, Lucio Pinario e Quinto Pedio per il quarto rimanente; come codicillo dichiarava di adottare Gaio Ottavio, dandogli il proprio nome; molti dei suoi assassini erano designati come tutori dei figli che potevano nascere da lui, mentre Decimo Bruto era presente fra gli eredi di seconda linea. Assegnò al popolo, collettivamente, i suoi giardini in prossimità del Tevere e trecento sesterzi a testa.
84 Quando venne stabilita la data del funerale, fu eretto il rogo nel Campo di Marte, presso la tomba di Giulia e si costruì in vicinanza dei rostri una cappella dorata sul modello del tempio di Venere Genitrice: all’interno fu collocato un letto d’avorio ricoperto di porpora e d’oro e alla sua testata fu posto un trofeo con gli abiti che indossava al momento
della morte. Poiché il giorno non sembrava abbastanza lungo per permettere la sfilata di tutti coloro che portavano i loro doni, si ordinò che ciascuno, senza osservare nessun ordine, li depositasse nel Campo di Marte, seguendo l’itinerario che preferiva. Durante i funerali furono cantati inni di commiserazione per Cesare e di odio per i suoi assassini, modellati su quelli del «Giudizio delle armi» di Pacuvio:
«Li ho forse salvati perché divenissero i miei assassini», ed altri di senso analogo, tolti dall’Elettra di Atilio. Come elogio funebre il console Antonio fece leggere da un araldo il decreto del Senato con il quale gli erano stati conferiti simultaneamente onori divini ed umani, e nello stesso tempo il giuramento con il quale tutti si erano impegnati a
difendere la vita del solo Cesare. A tutto questo, di suo, aggiunse solo poche parole. Il letto funebre fu portato al foro, davanti ai rostri dai magistrati in carica e già usciti di carica. Alcuni volevano che lo si cremasse nel santuario di Giove Capitolino, altri invece nella curia di Pompeo, ma improvvisamente due uomini con i gladi alla cintura, tenendo due giavellotti tra le mani, appiccarono il fuoco con torce ardenti; subito la folla dei presenti gettò sopra il rogo legna secca,
panchetti, i sedili dei giudici e tutti i doni che poteva trovare. In seguito sonatori di flauto e attori, spogliatisi degli abiti
che, già usati in occasione dei trionfi di Cesare, avevano indossato per la presente circostanza, li strapparono e li gettarono sulle fiamme. I veterani delle sue legioni vi gettarono le armi con le quali si erano parati per il funerale.
Anche molte matrone gettarono sulla pira i gioielli che portavano indosso e le bolle d’oro e le preteste dei loro figli. Oltre a queste grandiose manifestazioni di dolore pubblico, le colonie di stranieri, ciascuna a suo modo, espressero separatamente il proprio cordoglio, soprattutto i Giudei che, anche nelle notti successive, si riunirono attorno alla sua
tomba.
85 Appena ebbe termine il rito funebre, la plebe si diresse, con le torce, verso la casa di Bruto e di Cassio; respinta a fatica si imbatté in Elvio Cinna e scambiandolo, per un equivoco di nome, con Cornelio, quello che il giorno prima aveva pronunciato una violenta requisitoria contro Cesare, lo uccise e la sua testa, conficcata su una lancia, fu portata in giro. Più tardi fece erigere nella piazza una massiccia colonna di marmo di Numidia, alta quasi venti piedi, e vi scrisse sopra: «Al padre della patria». Si conservò per lungo tempo l’abitudine di offrire sacrifici ai piedi di questa colonna, di
prendere voti e di regolare certe controversie giurando in nome di Cesare.
86 Ad alcuni suoi amici Cesare lasciò il sospetto che non volesse vivere più a lungo e che non si preoccupasse del declinare della sua salute. Per questo non si curò né di quello che annunciavano i prodigi né di ciò che gli riferivano gli
amici. Alcuni credono che, facendo eccessivo affidamento nell’ultimo decreto del Senato e nel giuramento dei Senatori, abbia congedato le guardie spagnole che lo scortavano armate di gladio. Secondo altri, al contrario, preferiva cadere vittima una volta per sempre delle insidie che lo minacciavano da ogni parte, piuttosto che doversi guardare continuamente. Dicono che fosse solito ripetere che «non tanto a lui, quanto allo Stato doveva importare la sua
salvezza; per quanto lo riguardava già da tempo aveva conseguito molta potenza e molta gloria; se gli fosse capitato qualcosa, la Repubblica non sarebbe certo stata tranquilla e in ben più tristi condizioni avrebbe subito un’altra guerra
civile».
87 Su una cosa tutti furono d’accordo, che in un certo senso aveva incontrato la morte che aveva desiderato. Infatti una volta, avendo letto in Senofonte che Ciro, durante la sua ultima malattia, aveva dato alcune disposizioni per il suo
funerale, manifestò la sua ripugnanza per un genere di morte così lento e se ne augurò uno rapido. Il giorno prima di morire, a cena da Marco Lepido, si venne a discutere sul genere di morte migliore ed egli disse di preferire quello improvviso e inaspettato.
88 Morì a cinquantacinque anni e fu annoverato tra gli dei, non per formalità da parte di coloro che lo decisero, ma per intima convinzione del popolo. In realtà, durante i primi giochi che Augusto, suo erede, celebrava in suo onore, dopo la consacrazione, una cometa rifulse per sette giorni di seguito, sorgendo verso l’undicesima ora e si sparse la voce che fosse l’anima di Cesare accolta in cielo. Anche per questo si aggiunse una stella alla sommità della sua statua. Si
stabilì di murare la curia in cui era stato ucciso, di chiamare le idi di marzo «giorno del parricidio» e di sospendere in quella ricorrenza i lavori del Senato.
89 Quanto ai suoi assassini, nessuno gli sopravvisse più di tre anni e nessuno morì di morte naturale. Tutti, dopo
essere stati condannati, per un verso o per l’altro, morirono in modo tragico, chi per naufragio, chi in battaglia. Alcuni poi si uccisero con lo stesso pugnale con il quale avevano assassinato Cesare.

L’impero alla fine del V secolo
Impero 

L’impero alla fine del V secolo

Res gestae di Augusto
Speciali 

Le Res gestae di Augusto

città romane
Architettura romana 

Il modello cittadino in epoca romana

Da Costantino a Valentiniano e Valente
Impero 

Da Costantino a Valentiniano e Valente

Liberto
Società romana 

Una nuova vita per lo schiavo: Il Liberto

Battaglia di Carre
Grandi battaglie 

Carre, la disfatta dimenticata

La Marina romana in età repubblicana
Esercito romano 

La Marina romana in età repubblicana

Viaggiare in epoca romana
Società romana 

Viaggiare in epoca romana

servizio postale in epoca romana
Società romana 

Il servizio postale nell’Impero romano

Ludi Megalenses
Festività romane 

4/10 aprile: Celebrazioni dei Ludi Megalenses

Veneralia
Festività romane 

1° aprile – Celebrazione dei Veneralia

OStiensia 2019
Eventi 

OStiensia 2019 – Grande rievocazione storica ad Ostia Antica

Dea Salus
Festività romane 

30 marzo – Celebrazioni in onore della Dea Salus

Tubilustrium
Festività romane 

23 marzo – Cerimonia del Tubilustrium

Quinquatria
Festività romane 

19 marzo – Celebrazione dei Quinquatria

Liberalia
Festività romane 

17 marzo – Si celebrano i Liberalia

Baccanali
Festività romane 

15/16 marzo – Festività dei Baccanali

Mamuralia
Festività romane 

14/15 marzo – Si festeggiano i Mamuralia

i Generali di Roma
Sondaggi 

Sondaggio: i Generali di Roma

Spartaco Albertarelli
Ludus 

Quattro chiacchiere con… il game designer Spartaco Albertarelli

Donne di Bernini
Speciali 

Le donne di Bernini. Tra sacro e profano

Anarchia Militare
Impero 

Gli anni dell’Anarchia militare (235-284)

Storia delle Legioni romane
Esercito romano 

Storia delle Legioni romane

Giuseppe Gatteschi
Vintage Rome 

La Roma antica di Giuseppe Gatteschi

Caligola
Speciali 

La congiura di Caligola Il percorso, i luoghi… e qualche dubbio

Caravaggio
Speciali 

Caravaggio. Tormento, eresia, genio

La villa rustica e la villa urbana
Società romana 

La villa rustica e la villa urbana

Eroi e sangue nella Roma antica di Irene Salvatori
Speciali 

Eroi e sangue nella Roma antica di Irene Salvatori

Riti e ideologia della morte nel mondo romano
Religione romana 

Riti e ideologia della morte nel mondo romano

Il Culto di Mitra
Speciali 

Passeggiando tra i mitrei di Ostia Antica: Il culto di Mitra

Cesare contro Pompeo
Repubblica 

Guerra civile romana (49-45 a.C.): Cesare contro Pompeo

Sardinia Romana
Eventi 

Sardinia Romana a Ostia Antica – Domenica 14 ottobre

L’Italia nel I millennio a.C.
Italia Preromana 

L’Italia nel I millennio a.C.

Tempio della Pace
Fori imperiali di Roma 

Il Tempio della Pace (Templum Pacis)

Brenno
Repubblica 

Roma e la minaccia di Brenno

Il Senso dell'Arte
Eventi 

25 settembre – La Galleria Spada presenta Il senso dell’arte

Ludi Ostienses
Eventi 

Dom 23 settembre – Ludi Ostienses, gli antichi Romani a teatro

Teutoburgo
Grandi battaglie 

La Battaglia di Teutoburgo

viminacium
Ai confini dell'Impero 

La città-fortezza di Viminacium

biblioteche di Roma antica
Società romana 

Le biblioteche di Roma antica

I racconti dei Demiurghi: C’ho da fà
Racconti 

I racconti dei Demiurghi: C’ho da fà

Antiochia di Siria, una metropoli dell’antichità
Ai confini dell'Impero 

Antiochia di Siria, una metropoli dell’antichità

Archi monumentali di Roma antica
Meraviglie di Roma 

Gli Archi monumentali di Roma antica

Afrodisia
Ai confini dell'Impero 

Il sito archeologico di Afrodisia

Mogontiacum
Ai confini dell'Impero 

La fortezza legionaria di Mogontiacum

Auxilia
Esercito romano 

Le truppe ausiliarie dell’esercito romano

Adrianopoli
Grandi battaglie 

Alessandro Barbero – La Battaglia di Adrianopoli (378)

Carnuntum
Ai confini dell'Impero 

La fortezza legionaria di Carnuntum

I racconti dei Demiurghi: Amiternum
Racconti 

I racconti dei Demiurghi: Amiternum

L’antica città di Aquileia
Ai confini dell'Impero 

L’antica città di Aquileia

L'Arte di Roma repubblicana
Arte romana 

L’Arte di Roma repubblicana

L'Arte di Roma arcaica
Arte romana 

L’Arte di Roma arcaica

ritratti del Fayyum
Arte romana 

I misteriosi ritratti del Fayyum

Villa romana di Moregine
Arte romana 

Affreschi della Villa Romana di Moregine

Giuseppe Gatteschi
Vintage Rome 

La Roma antica di Giuseppe Gatteschi

Étienne Dupérac – I vestigi delle antichità di Roma (1575)
Vintage Rome 

Étienne Dupérac – I vestigi delle antichità di Roma (1575)

Città Eterna nella Pittura
Vintage Rome 

La Città Eterna nella Pittura

Roma 1900
Vintage Rome 

La Roma dei primi anni del ‘900

Copyright © 2019 Capitolivm. Tutti i diritti riservati.
Theme: ColorMag by ThemeGrill. Powered by WordPress.
Questo sito NON utilizza cookies di profilazione e NON traccia le abitudini dei propri utenti per inviare loro messaggi pubblicitari personalizzati essendo nato solo per scopi didattico-culturali. Tuttavia potrebbero esserci strumenti di terze parti indipendentemente dalla volontà e responsabilità del webmaster. OkLeggi di più