Pompeo, il prototipo di un imperatore

Pompeo

Gneo Pompeo (Firmum Picenum, 29 settembre 106 a.C. – Pelusio, 28 settembre 48 a.C.), meglio conosciuto come Pompeo Magno, fu un indiscusso protagonista della vita politica e militare dell’Urbe del I secolo a.C., quando l’ormai stanca Repubblica, e con essa quelle istituzioni che permisero a Roma di governare e controllare tutto il bacino del Mediterraneo, stava a poco a poco morendo durante una fase di profondo cambiamento.

Di Pompeo si è detto moltissimo: abilissimo generale, grande stratega, un fine politico, un doppiogiochista, un autocrate, un uomo avvezzo al potere. Fondamentalmente può essere tutto vero, tutto questo fece parte di Pompeo, un personaggio storico che sin dalla giovane età dimostrò determinanti doti in battaglia, guadagnandosi onori e gloria. Fu protagonista di tutte le vicende più interessanti e fondamentali accadute nel I secolo a.C. (la guerra sociale, la guerra tra Mario e Silla, i trionfi militari, il primo triumvirato). Dobbiamo dare retta a Cicerone, quando nelle sue lettere, seguendo ovviamente il suo punto di vista, affermò che in ogni caso, avesse prevalso Cesare o Pompeo, la conclusione sarebbe stata la stessa: la morte di Roma come la conosceva lui, la fine della Repubblica e l’inizio di una nuova era.

LA SUA GIOVINEZZA E IL CONTESTO STORICO

Pompeo è sempre stato definito un homo novus, cioè una persona, come fu prima di lui Gaio Mario ad esempio, che non apparteneva all’élite sociale di Roma ma che, nonostante le proprie origini, arrivò all’apice del potere. In realtà la parabola di Pompeo, a mio parere, fu ancor più prodigiosa in quanto lui ebbe onori, onorificenze e permessi speciali, se così si può dire, che ben pochi prima di lui ottennero. Per avere un’idea di quanto impressionante fu la sua vita e la sua fama, leggiamo ciò che scrisse Plutarco: “Anche altri in passato avevano ottenuto tre trionfi. Ma lui, avendo trionfato per la prima volta sull’Africa, la seconda sull’Europa e, infine, sull’Asia, sembrava in qualche modo aver sottomesso il mondo intero”. Le guerre combattute in giro per l’Europa e per il versante orientale della Repubblica portarono l’Urbe in una nuova dimensione, a tutti gli effetti. Roma, ormai, era capace di far combattere le sue legioni a migliaia di miglia da dove tutto era cominciato con Romolo e Remo. L’Urbe poteva decidere delle sorti di intere popolazioni, un solo uomo poteva comandare molteplici legioni. Le gesta di Pompeo sicuramente contribuirono a costruire l’immagine di una Roma praticamente imperiale, una Roma, come scrisse Plutarco, capace di sottomettere il mondo intero. Ma quali furono le origini di Pompeo? L’ho definito un homo novus perché, sebbene nato a Firmum Picenum (l’odierna Fermo), e sebbene fosse figlio di Gneo Pompeo Strabone, senatore e famoso generale che ottenne anche un trionfo, la sua famiglia non aveva un passato altrettanto glorioso. Non aveva uomini che occuparono, in più di un’occasione, rilevantissime cariche politiche e sociali. Quale fu, dunque, la fortuna del giovane Gneo Pompeo, nato nel 106 a.C.? Semplice: seguire il padre nelle sue avventure militari.

Gneo Pompeo Strabone, padre del nostro Pompeo Magno, si fece un nome durante la famosissima guerra sociale. Passata alla storia come la ribellione dei socii che, nel corso dei secoli, accettarono di aiutare Roma (in vari modi), nel corso dell’impressionante espansione militare dell’Urbe, senza però poter accedere alla succulenta e vantaggiosa cittadinanza romana, la cosiddetta guerra sociale (91 – 88 a.C.), non fu, probabilmente, una vera e propria lotta per l’integrazione. Le varie popolazioni italiche che aiutarono Roma con mezzi e uomini nelle guerre combattute soprattutto nel II secolo a.C. cercarono da una parte di ottenere quanto più possibile, soprattutto la cittadinanza romana, dall’altra di avere, invece, una vera e propria indipendenza. Monete con, a rilievo, un toro che sottomette una lupa o con la dicitura Italica, ritrovate e più riprese dagli archeologi, attestano che alcuni socii volevano qualcosa di diverso: staccarsi dal dominio romano. Per questo, e non solo, la guerra sociale fu vista come fumo negli occhi da quell’aristocrazia e da quel popolo romani che si stavano abituando ad essere, in un certo senso, i padroni del mondo. Gneo Pompeo Strabone, però, riuscì nell’intento di far capire agli alleati di Roma che dovevano stare al proprio posto (sebbene alla fine la guerra terminò più con la diplomazia e le promesse che con le armi). Il padre di Pompeo Magno fu l’unico ad ottenere un trionfo per la guerra sociale e, soprattutto, fu il padre della cosiddetta Lex Pompeia con la quale, nell’89 a.C., concesse la tanto agognata cittadinanza romana alla popolazione della Gallia Transpadana. Scrisse il grammatico e storico romano Asconio Pediano (attivo alla fine del I secolo a.C.) che “Cneo Pompeo Strabone fondò colonie al di là del Po. Lo fece non inviandovi nuovi coloni, ma conferendo la cittadinanza latina a coloro che già le popolavano, che rimasero dove essi già stavano”. Una decisione, presa da Gneo Pompeo Strabone in veste di console, che lo aiutò a darsi lustro agli occhi dei Senatori, cosa che gli riuscì ancora meglio quando, nella lotta fratricida tra Gaio Mario e Silla si schierò con quest’ultimo. Divenuto, dunque, campione dei cosiddetti optimates, fu Gneo Pompeo Strabone tra i più attivi militari e soldati romani che marciò verso Roma, prorompendo da Porta Collina, per mettere in fuga le truppe fedeli a Gaio Mario. E il nostro Pompeo Magno, in tutto ciò? Qui si fece le ossa, qui non ancora ventenne combatté con forza e vigore, a quanto pare, cominciando ad ottenere il rispetto anche dei veterani che, per anni, combatterono a fianco del padre. Qui, probabilmente, Pompeo Magno conobbe uomini come Catilina e Lepido, altri protagonisti di questa fase storica.

Dando credito a Plutarco è questo il momento in cui il giovane Pompeo vide la sua stella cominciare a brillare, tanto che lo storico scrisse che “nessun romano godette da parte del popolo di una benevolenza più grande”, mentre i commilitoni, che con lui combatterono le guerre comandate dal padre Pompeo Strabone, cominciarono a paragonarlo ad Alessandro Magno. La somiglianza pareva anche essere fisica, in quanto Pompeo Magno aveva una capigliatura bionda e folta che ricordava, da vicino, quella del macedone. E se, in ambito militare e simbolico, questo non poteva che essere una fortunata coincidenza, per molti romani puri e crudi ciò significava solamente uno scollamento tra la tradizione latina e quella orientale, che con sempre maggior forza, soprattutto a causa delle numerose campagne militari intraprese da Roma in Grecia e dintorni, stava entrando nella linfa vitale dell’Urbe. Comunque sia tutta questa enfasi, ad esempio leggendo le parole di Plutarco, costruita comunque dopo la vita di Pompeo Magno, è da prendere un poco con le pinze. Fatto sta che, a prescindere da tutto, è certo che le prime, vere fortune del giovane Pompeo derivano dalle gesta militari del padre, che morì proprio nell’assalto a Porta Collina durante gli scontri tra sillani e mariani. Ovviamente per Pompeo Magno la scelta più logica fu quella di affilarsi a Silla.

 

Gabriel Jacques de Saint-Aubin, The Triumph of Pompey, 1765

POMPEO E SILLA

​In questa fase storica, nel corso degli anni ’80 del I secolo a.C., Pompeo cominciò a farsi le ossa da solo, vivendo non più all’ombra del padre ormai defunto. Ed è qui che si addensarono le prime ombre sui comportamenti di Pompeo il quale, a quanto pare, spesso e volentieri agiva non propriamente in maniera legale, aggirando le leggi, agendo al loro limite o, semplicemente, non rispettandole. Pompeo, al pari di Cesare ad esempio, cominciò a ragionare non più come un cittadino romano soggetto alle leggi del Senato, ma come un uomo potente ed influente che poteva perseguire le proprie idee agendo, praticamente, senza che nessuno lo potesse ostacolare. Aiutò in tutti i modi Silla, ad esempio raccogliendo ben tre legioni al suo comando. Come fece? Elargendo promesse e denaro, usando gli agganci e le clientele del padre, forzando la mano. Tipiche mosse da consumato generale romano del I secolo a.C., che sfruttò al massimo le nuove leggi volute da Gaio Mario soprattutto in ambito militare, con le quali anche i nullatenenti, senza censo, potevano entrare nell’esercito purché fosse il loro generale ad occuparsene. Il risultato? Molti uomini cominciarono a combattere non per Roma o la patria o il Senato, ma per soddisfare colui che li avrebbe tenuti in vita, che gli avrebbe dato un appezzamento di terreno alla fine della carriera militare, che gli avrebbe potuto portare gloria e onore. Questo fu uno dei fattori fondamentali che alimentarono le numerose guerre civile che sconvolsero la penisola italica nel I secolo a.C., vere guerre civili che, come vedremo, uscirono anche dai confini italici. A Piceno, quindi nelle sue terre, Pompeo Magno raccolse il suo esercito che si scontrò subito con uno della fazione armata, il braccio militare di quei populares di cui spesso si sente parlare in questa fase della storia di Roma. Pompeo sbaragliò i suoi nemici e si ricongiunse con Silla in Puglia, laddove il futuro dictator era sbarcato di ritorno dalle campagne militari in Oriente. Qui, a quanto pare, Silla salutò Pompeo come imperator, prefigurandone l’illimitato potere che Pompeo avrebbe ottenuto di lì a poco.

Il primo incarico che Silla affidò a Pompeo fu quello di riprendere la Sicilia, isola controllata dai mariani ma, soprattutto, territorio importante per rifornire Roma di derrate alimentari e non solo. Qui Pompeo si scontrò soprattutto con Papirio Carbone, il campione dei populares in Sicilia, dando sfoggio, facendo affidamento su alcune fonti scritte, di quella stessa brutalità di cui fu accusato anche il padre. Difatti Carbone fu catturato da Pompeo, che aveva vinto la guerra, e giustiziato sommariamente senza alcun processo. Un altro atto che andava contro tutte le regole, un atto per cui, qualche anno dopo, anche Cicerone fu condannato (quando fece condannare senza processo alcuni membri della presunta congiura di Catilina). Da questo episodio nacque la presunta doppia anima di Pompeo: uomo capace di perdonare ma, anche, capace di sfidare apertamente le leggi di Roma con violenza. Comunque sia dopo le sue gesta in Sicilia e successivamente in Africa dove, nel biennio 82 – 81 a.C. sconfisse nuovamente i mariani, Pompeo rientrò nell’Urbe, sfidando ancora una volta lo status quo e rendendosi pericoloso agli occhi dello stesso Silla. Difatti, ufficialmente, alla conclusione di una campagna militare le milizie e le legioni andavano sciolte. Pompeo non lo fece e, anzi, si avvicinò minacciosamente all’Urbe con i suoi soldati ancora armati di tutto punto, pretendendo il trionfo. Mai si era vista una cosa del genere, un comandate che pretende un trionfo che solo il Senato poteva decretare. Ma erano tempi nuovi e diversi rispetto a quelli dei padri della repubblica, tempi in cui Silla poteva nominarsi dittatore a vita, generali potevano contare su eserciti personali, fratelli lottavano aspramente gli uni contro gli altri. Il trionfo fu alla fine concesso da Silla in persona, che forse voleva tenersi buono quel focoso giovane, e Pompeo cominciò, probabilmente, a sentirsi davvero magnus.

Ecco che qui sorsero i primi dubbi sulla vera strategia, carattere e obiettivo di Pompeo. Una volta ripreso il controllo in Italia, Silla aveva ancora una spina nel fianco: Sertorio. Ultimo importante baluardi dei mariani e dei populares, Sertorio si era rifugiato in Spagna e da lì stava dando filo da torcere ai sillani. Per Silla la scelta più logica era quella di inviare Pompeo e le sue legioni (che ancora non erano state sciolte, ricordo cosa inusuale). Il rischio, ovviamente, era che Pompeo potesse accrescere ancor di più la sua già enorme influenza, a discapito di Silla. Fatto sta che quest’ultimo inviò il giovane in Spagna, dandogli l’imperium proconsolare. Il problema? Tale responsabilità poteva essere data solamente ai consoli, e Pompeo non lo era ancora, anche perché non aveva raggiunto l’età minima per diventarlo (siamo nell’80 a.C.). Alla fine, però, stravolgendo tutte le leggi repubblicane ancora, ufficialmente, in vigore, Pompeo partì per la sua campagna ispanica, avendo amplissimi poteri, soprattutto decisionali, ed avendo al suo comando ben 30.000 legionari. Quella che fu ricordata come la guerra sertoriana durò praticamente dal 76 al 71 a.C., in cui la Spagna fu teatro di scontri armati in campo aperto e raid furtivi in territori ostili, una guerra che si concluse, però, solamente con l’assassinio di Sertorio. Non fu, a leggere le fonti, un vero e proprio trionfo alla romana, un combattimento in campo aperto in cui Pompeo, che sempre più spesso veniva paragonato ad Alessandro Magno, aveva usato arguzia per vincere. Fu una guerra logorante, in cui villaggio dopo villaggio ci furono massacri ed alleanze, una guerra in cui alla fine Pompeo ne uscì come un netto trionfatore. Ormai anche Pompeo, fondamentalmente, stava diventando una spina nel fianco non indifferente per Silla, soprattutto dopo i festeggiamenti a seguito del secondo trionfo ottenuto da Pompeo, dopo le vittorie in Spagna. Ma ormai la parabola sillana era alla fine, il dittatore era morto dopo aver lasciato il potere, alla fine degli anni ’70 del I secolo a.C. Pompeo stava ritornando in Italia con tutta la gloria possibile e nel 70 a.C., dopo aver avuto un ruolo, assieme a Crasso, nella sconfitta di Spartaco e dei suoi rivoltosi, fu addirittura eletto console. A soli 35 anni, in barba a tutte le prescrizioni di legge, un giovanissimo uomo e generale stava facendo la storia di Roma, sovvertendone tutte le tradizioni. Il meglio, però, doveva ancora arrivare.

POMPEO E IL POTERE ASSOLUTO

Come se non bastasse, dopo guerre civili e spargimenti di sangue, Roma dovette affrontare una nuova, temibile emergenza: i pirati. Sebbene con questo termine gli antichi storici usassero indicare tutti coloro che, per un motivo o per un altro, solcavano i mari in cerca di ricchezze (ribelli, sbandati, bande organizzate o eserciti nemici), il risultato non cambiava poi di molto. Nel 69 a.C. la distribuzione gratuita di grano ai cittadini romani (uno dei motivi per cui i socii combatterono anni prima), non poteva più essere garantita. Pareva, forse esagerando, che il Mediterraneo non fosse più il Mare nostrum dei Romani, bensì un bacino pullulante di pirati inafferrabili che portavano Roma alla fame ed alle carestie. E chi meglio di Pompeo, la cui stella era sempre più brillante e fulgida dopo le vittorie in Sicilia, Africa e Spagna, poteva essere chiamato a risolvere il problema? Ciò che è interessante, però, è il metodo utilizzato. Per almeno tre anni Pompeo Magno fu investito di un imperium proconsolare che assomiglia molto, guardandolo con gli occhi di oggi, ad un vero e proprio potere assoluto. Fondamentalmente con tale investitura a Pompeo fu consegnato il Mediterraneo. Il nostro aveva un potere superiore a tutti i governatori delle provincie romane, che a poco a poco stavano formandosi dotandosi di architetture burocratiche e militari (e che portarono non pochi problemi, basti guardare a Verre). Lui poteva decidere della sorte delle centinaia di imbarcazioni, e delle migliaia di soldati, che gli erano stati affidati dal Senato. Non doveva coordinarsi con un altro console, come tradizione voleva (solitamente i due consoli in carica partivano assieme per le campagne militari). Siamo di fronte ad un uomo solo al comando, un uomo che, a vederla bene, avrebbe potuto prendersi la stessa Roma. La fama era al massimo, la gloria pure, l’ascendente sul popolo anche. I finanziamenti non gli mancavano di certo, visto che il rapporto stretto con il ricchissimo ed opulento Crasso. Questo imperium assomiglia a tutti gli effetti a quel potere assoluto detenuto da un imperatore, il quale deteneva un’autonomia senza pari. Siamo ormai agli sgoccioli della Repubblica ed all’avvento di quegli uomini potentissimi che, forse senza volerlo, gettarono le basi per ciò che Augusto prima, e i suoi successori poi, fecero per rendere l’Urbe un vero e proprio impero. Ovviamente Pompeo trionfò anche in questo caso. Fondamentalmente suddivise il Mediterraneo in tre grandi aree, suddividendole a loro volta in 15 distretti in totale. In questo modo ebbe la meglio su tutti i pirati, addirittura in soli 40 giorni, a quanto pare. Requisì più di 800 navi, uccise decine di migliaia di nemici, conquistò centinaia di città e villaggi. La domanda sorge spontanea, però: la pirateria era davvero tanto temibile come gli storici ce la dipingono? Come è possibile che in soli 40 giorni, sebbene Pompeo avesse con sé una forza militare incredibile, il problema fu risolto? Non lo sapremo mai, ma ciò che sappiamo è che, inevitabilmente, Pompeo Magno cominciò ad essere paragonato sempre più ad un uomo diverso dagli altri e fuori dal comune, un uomo che risolveva i problemi, un uomo sempre meno umano e sempre più divino. Pompeo era un mito ovunque, non solo in Italia e a Roma. Da un’iscrizione in greco, ritrovata in Anatolia, leggiamo: “Il popolo e le giovani reclute hanno innalzato questa statua a Gneo Pompeo Magno (…) patrono e benefattore della loro città (…) e la sua benevolenza verso il popolo, lui che ha liberato gli uomini dalle guerre contro i barbari”. Un trionfatore su tutta la linea, che non aveva però esaurito le sue cartucce.

Dal 66 al 63 a.C., infatti, Pompeo si stabilì in Oriente per porre termine alle schermaglie che, da anni, vedevano fronteggiarsi l’esercito romano, guidato da Lucullo, e Mitridate VI, re del Ponto. Interessante notare come, anche in questo caso, a Pompeo fu dato lo stesso potere assoluto che poté godere per sue campagne belliche su mare. In Senato lo stesso Cesare votò a favore di questa decisione, così come anche Cicerone, il quale si espresse in questo modo: “ha fatto [Pompeo] più campagne di quanti gli altri non ne abbiano lette, ha conquistato più province di quante gli altre non ne abbiano desiderate”. Effettivamente era vero, e sebbene sempre più persone, patres in particolare, cominciarono ad avere paura nel dare tutta questa autonomia da autocrate ad un uomo solo, alla fine si acconsentì affinché Pompeo partisse per l’Oriente per dare una mano a Lucullo (non gradita) e per sistemare la turbolenta situazione in quelle provincie. Anche in questo caso a Pompeo Magno fu donati un potere illimitato, addirittura quello di poter decidere quali popoli potessero essere clienti o alleati di Roma e quali no. Si stava andando sempre di più verso una sostituzione delle prerogative senatoriali in favore delle capacità e delle idee di un generale. La cosa non piacque per nulla a Lucullo, il quale descrisse Pompeo, come riportato da Plutarco “un uccello pigro abituato a gettarsi sui cadaveri di uomini uccisi da altri e a lacerare i resti lasciati dalle guerre”. Effettivamente Pompeo giovò, a volte, di gloria riflessa, entrando in campo con il minimo sforzo ma accumulando comunque consistenza agli occhi del popolo (come accadde per la guerra contro Spartaco). L’accusa di Lucullo era semplice: lui già aveva fatto tutto, Pompeo veniva con forze fresche per finire il lavoro. Al massimo si può pensare che Pompeo fosse abile a sfruttare le situazioni portandole a proprio vantaggio. Cassio Dione, sempre a riguardo, scrisse invece che “[Pompeo] si vide venire incontro Lucullo, il quale disse a Pompeo che la guerra era finita, che non era più necessario fare un’altra campagna militare e che erano già giunti gli uomini inviati dal Senato, per governare su quelle regioni. Poiché Pompeo non acconsentì a ritirarsi, Lucullo lo insultò, chiamandolo affarista e avido di potere. Pompeo non se la prese, ed avendo ordinato che nessuno gli desse retta, mosse contro Mitridate, desideroso di scontrarsi con lui”. Sintomo di come Pompeo decideva da solo, senza che nessuno potesse mettere bocca sulle sue decisioni. Alla fine ovviamente vinse, sconfiggendo Mitridate VI in campo aperto, tra l’altro sfruttando la stessa tattica di Annibale a Canne. Non solo, poiché il nostro andò anche oltre, sconfiggendo il re d’Armenia ed annettendo anche la Siria a Roma. Ormai l’Urbe era internazionale, le guerre si combattevano ben oltre i confini italici. Nel 61 a.C. Pompeo tornò a Roma, pronto a celebrare il suo trionfo più grande (il terzo).

Di Jolanta Dyr – Opera propria, CC BY-SA 3.0 pl, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16726609

IL TRIONFO DI UN UOMO CHE ASSOMIGLIA AD UN DIO

Molte sono le testimonianze scritte sul trionfo celebrato da Pompeo, qualcosa che fece scalpore, sia in negativo che in positivo. Efficace la descrizione di Plutarco, che scrive “Le iscrizioni [del corteo trionfale] indicavano le nazioni su cui [Pompeo] aveva trionfato. Questi erano: Ponto, Armenia, Cappadocia, Paflagonia, Media, Colchide, Iberia, Albania, Siria, Cilicia, Mesopotamia, Fenicia, Giudea, Arabiae tutta la potenza dei pirati di mare e terra che erano stati sconfitti. Tra questi popoli furono catturate non meno di 1.000 fortezze, secondo le iscrizioni, e non meno di 900 città, oltre ad 800 navi pirata, e 39 città fondate. Oltre a tutto questo, le iscrizioni riportavano che, mentre i ricavi pubblici dalle tasse erano stati pari a 50 milioni di dracme, a cui se ne aggiungevano altri 85 milioni dalle città che Pompeo aveva conquistato e che andarono a costituire il tesoro pubblico, coniato da oggetti d’oro e d’argento per 20.000 talenti; oltre il denaro che era stato distribuito ai suoi soldati, tra i quali, quello a cui era stato dato la quota minore aveva ricevuto 1.500 dracme. Tra i prigionieri portati in trionfo, oltre al capo dei pirati, c’era il figlio di Tigrane con la moglie e la figlia, Zosimo con la moglie dello stesso re Tigrane, Aristobulo re dei Giudei, una sorella e cinque figli di Mitridate, alcune donne scite, oltre ad ostaggi dati dal popolo degli Iberi, degli Albani e dal re di Commagene; c’erano anche moltissimi trofei, in numero pari a tutte le battaglie in cui Pompeo era risultato vittorioso (compresi i suoi legati). Ma quello che più di ogni altra cosa risultava emergere per la sua gloria fu che nessun romano prima di allora aveva mai celebrato il suo terzo trionfo sopra tre differenti continenti. Altri avevano celebrato tre trionfi, ma lui ne aveva celebrato uno sulla Libia, il suo secondo in Europa e l’ultimo sull’Asia, in modo che sembrava avesse incluso tutto il mondo nei suoi tre trionfi”. Nuovamente, l’ultima frase di Plutarco, che non lesinò lodi a Pompeo, è simbolica. Non dimentichiamoci, però, che siamo nel periodo degli eccessi, di quei ricchi possidenti che sperperavano denaro nei modi più impensabili (come fece Lucullo con le sue famose cene, una volta tornato con la coda tra le gambe a Roma). Uno sfoggio di lusso ed opulenza che per i più puri romani non era rispettoso delle tradizioni. Secondo Plinio il Vecchio, ad esempio, nel corteo trionfale i cittadini videro spuntare una effigie di Pompeo ricoperta di perle. Qualcosa che a molti piacque, ma che a altri fecero storcere naso. Cosa stava celebrando Pompeo? Il trionfo di Roma sugli altri popoli della terra? O sé stesso? Si stava affacciando, era ormai alle porte, il periodo finale della Repubblica, il momento in cui la parabola di Pompeo sarebbe scesa fino alla sua morte, seguite poi da quelle istituzioni, quelle credenze, dei riti e quei modelli che fecero di Roma una città globale, capace di governare su un vastissimo territorio.

IL PRIMO TRIUMVIRATO, NECESSARIO E PERICOLOSO

Come mai, alla fine, Pompeo decise di sottoscrivere questo accordo privato, passato alla storia come Primo Triumvirato (60 a.C.) con Cesare e Crasso? Il primo era ormai un uomo sulla cresta dell’onda, sempre più influente e danaroso, mentre Crasso era colui che avrebbe potuto, molto tranquillamente, finanziare qualunque cosa fosse finanziabile a Roma. Il problema di Pompeo era che godeva di un potere talmente grande che, effettivamente, ci avrebbe messo ben poco a sottomettere l’Urbe, forse più di Silla. Pompeo, dopotutto, fu il primo romano ad avere l’onore di vedere il proprio profilo su delle monete (coniate soprattutto in Oriente). Fu, da alcune evidenze e teorie archeologiche e letterarie, anche il primo romano a cui furono dedicati alcuni templi in suo onore, sempre nelle provincie orientali. A lui fu permesso di indossare il manto rosso del trionfo anche nel corso degli spettacoli al Circo Massimo (quando tale indumento poteva essere indossato solo nel corso del corteo trionfale). Insomma, a Pompeo era tutto concesso, si andava contro le regole ed il buon senso. Ma questo generava gelosie ed invidie. Floro, nella sua Epitome della Storia Romana, scrisse che “l’eccessiva potenza di Pompeo suscitò, come suole accadere, la gelosia nel cuore dei tranquilli cittadini. Ciò suscitò in lui un gran risentimento e lo spinse a cercare appoggi per tutelare la propria dignità”. Qui non ci sono distinzioni tra optimates e populares, ma semplicemente la paura serpeggiante, soprattutto in ambienti aristocratici e senatoriali, che Pompeo potesse diventare un dittatore o, peggio, un tiranno. Questi furono i presupposti, dal suo punto di vista, per questo accordo segreto in cui, per la prima volta, ed in maniera duratura, siamo di fronte ad un’autarchia governata da tre uomini, in barba a qualunque istituzione o regolamento. Loro erano la legge, loro potevano fare e disfare, loro potevano decidere le sorti di Roma.

Sebbene con alti e bassi, come nel consolato di Cesare nel 59 a.C. in cui si rischiò il linciaggio del suo partner consolare, il quale non accettava le leggi proposte da Giulio Cesare, alla fine il triumvirato convenne a tutti. Pompeo, da parte sua, si prese il controllo del territorio italico e iberico, così da poter rimanere vicino all’Urbe. Cesare poté guadagnarsi maggiori glorie e ricchezze nelle sue campagne in Gallia, Crasso poteva andarsene in Oriente per gli stessi motivi. Nel 53 a.C. quest’ultimo si autoeliminò, rimanendo ucciso nella famigerata Battaglia di Carre. Il triumvirato, ora diventato un duopolio, stava cominciando a sfilacciarsi sempre più. Fu, anche, un memoriale alla perdita di quella dignitas che l’Urbe stessa, come comunità, ricercava da secoli. Ormai non c’erano più leggi che tenevano. Tale accordo segreto aveva sgretolato completamente il tentativo di stabilire un ordine amministrativo, giudiziario e politico in un luogo che non era più racchiuso da semplici mura, ma che ormai arrivava sino all’odierna Siria. I romani di allora si chiesero come poter governare un territorio così vasto. Un semplice Senato non era più bastevole, serviva qualcosa. E quel qualcosa, o meglio quel qualcuno, secondo molti doveva essere un uomo solo che, saldo al comando, avrebbe avuto il difficile compito di gestire tale enormità.

La rottura, dunque, fu inevitabile, visto che c’erano due uomini che si contendevano un posto solamente. Cesare stava cominciando ad acquistare sempre maggior potere ed autonomia ma, a quanto pare, Pompeo era convinto di godere ancora di un appoggio talmente illimitato che mai nessuno, neanche Cesare, avrebbe potuto sfidarlo. Oppure, nel caso questo fosse successo, secondo Plutarco il non più giovanissimo Pompeo Magno pensava che “in qualsiasi parte dell’Italia io batta il piede, sorgeranno eserciti di fanti e di cavalieri!”. Quale fu il casus belli tra i due? Perché Cesare attraversò in armi il famosissimo Rubicone, ben conscio di star sfidando l’uomo più in vista di Roma (forse dopo di lui, ovviamente)? Fondamentalmente perché a Cesare vennero riferite voci secondo cui, al suo ritorno nell’Urbe, avrebbe potuto perdere tutto. Avrebbe potuto essere messo sotto accuso, e dunque portato a processo, per il suo consolato del 59 a.C., quando con molta spregiudicatezza, ed in spregio alle regole istituzionali, aveva fatto il bello ed il cattivo tempo. Secondo Cicerone, nelle sue Lettere, si tentò anche di trovare un accordo: “la questione principale sulla quale si scontreranno coloro che detengono il potere è che Gneo Pompeo Magno ha deciso di non consentire che Caio Giulio Cesare venga eletto console se non abbandonando l’esercito e la provincia. Cesare d’altronde è persuaso che non vi possa essere salvezza per lui se si separa dall’esercito. Tuttavia ha proposto il seguente compromesso: che entrambi consegnino gli esercito”. Il compromesso non fu accettato, e dunque Cesare giocò il tutto e per tutto. Certo, altri prima di lui fecero lo stesso, ma forse Cesare, campione dei populares e dunque di quella fetta di popolo romano che pensava che era quest’ultimo a dover delegare il potere e l’amministrazione cittadina, con i senatori ad essere semplici delegati obbligati e rispettare il volere del popolo, non voleva correre un rischio troppo grande. Meglio la guerra che un processo. Per questa decise di giocare a dadi con la sorte (probabilmente il famoso Alea iacta est dovrebbe essere inteso più come una specie di “vediamo come va”) e di sfidare apertamente Pompeo. Nel 49 a.C. Cesare era già hostis publicus per il Senato di Roma, ma questo non gli tolse smalto né sostegno. Giulio Cesare sembrava un’onda inarrestabile, tanto che Pompeo ed i suoi sostenitori abbandonarono Roma. Per la prima volta Pompeo Magno, successore di Alessandro il Grande, detentore multiplo di imperium proconsolare, abbandonò il campo di battaglia, rifugiandosi ad Oriente. A ben vedere fu, probabilmente, una mossa saggia e astuta. Non era a Roma che si era costruito una rete di clienti, amici, fedelissimi che avrebbero potuto aiutarlo. Forse era proprio ad Oriente che Pompeo poteva ottenere il massimo delle risorse possibili. La guerra si spostò a Farsalo dove, nel 48 a.C., ci fu la battaglia che chiuse un’epoca per aprirne un’altra (che, a ben vedere, non fu così diversa dalla prima). Ciò che rende interessante questa battaglia è che Farsalo non era in Italia, bensì in Grecia. Il destino di Roma, di quel piccolo villaggetto di pastori sorto sulle pendici di un anonimo colle vicino ad un fiume, si stava giocando ben al di fuori dei confini della penisola in cui si trovava.

LA FINE DI POMPEO

La battaglia di Farsalo fu un trionfo, ma questa volta per Giulio Cesare. Coadiuvato dai suoi generali, come Marco Antonio, Cesare riuscì a mettere in rotta l’esercito pompeiano, sfruttando soprattutto la sua cavalleria, e quella del nemico, a proprio vantaggio. Combattendo in campo aperto, classico del repertorio militare romano, Cesare sfruttò al massimo la conoscenza del nemico. In questo caso sapeva esattamente come si comportava Tito Labieno, il comandante della cavalleria pompeiana che, però, in Gallia aveva prestato servizio con Cesare. Anche questo è lo scotto da pagare nelle guerre civili, come questa effettivamente fu. Quando la cavalleria, stretta nella morsa dei cesariani, indietreggiò con numerose perdite, anche il centro del fronte d’attacco dell’esercito pompeiano fece lo stesso. La situazione stava degenerando, tanto che Pompeo decise, assieme al suo stato maggiore, di lasciare il campo di battaglia, consegnando nelle mani di Cesare circa 15.000 soldati. La battaglia era persa, e Pompeo non poté fare altro che rifugiarsi in un territorio che considerava amico: l’Egitto. Purtroppo per lui, però, la fine del Magno fu davvero ingloriosa. Fece infatti sapere al sovrano d’Egitto, Tolomeo XIII, che avrebbe voluto essere ospitato da lui. Ma il faraone la pensava diversamente, poiché non era il caso di tenersi in casa un uomo che l’Urbe, probabilmente nella persona di Giulio Cesare in persona, avrebbe rivendicato come suo di diritto. Mettersi con Pompeo avrebbe voluto dire sfidare l’astro nascente di Roma. Per questo la fine di Pompeo rientra nelle più classiche delle cospirazioni, quando la fiducia è sinceramente mal riposta. Tolomeo XIII accettò l’invito di Pompeo ad ospitarlo e un giorno il primo promise al secondo di riportarlo a terra, sulla costa, mediante una piccola imbarcazione. Costui era governata da Lucio Settimio, tribuno che Pompeo conobbe. Peccato che, una volta salito sulla piccola barca, Pompeo fu pugnalato a tradimento. Plutarco scrisse che Pompeo era morto senza “dire né fare nulla di indegno di lui, ma sospirando soltanto”. Dopotutto una morte tranquilla per un uomo fortemente divisivo, il primo che, però, riuscì a detenere per anni un potere che solo gli imperatori, in forma ancora maggiore ma neanche tanto, ottennero qualche anno dopo. Una domanda però sorge spontanea. Perché, quando avrebbe potuto farlo, Pompeo non forzò la mano proclamandosi dittatore a vita o qualcosa di più. Dione Cassio scrisse: “Dirò ora ciò che dobbiamo ammirare maggiormente in Pompeo, una cosa la cui gloria non appartiene che a lui. Onnipotente per terra e per mare, padrone di incalcolabili ricchezze. Sicuro dell’amicizia di molti re e della lealtà di quasi tutte le nazioni che aveva organizzato sotto la propria autorità. Avrebbe potuto soggiogare l’Italia e concentrare nelle sue mani tutti i poteri di Roma. Ma non volle farlo”. Sicuramente con questo suo atteggiamento ondivago, a metà tra il raggiungimento degli obiettivi personali e la ricerca della cosa giusta da fare per Roma, seguendo gli ordini degli optimates e dei patres a Pompeo spesso viene affiancata la figura, addirittura, di ultimo baluardo della Repubblica. Sconfitto lui Cesare avrebbe avuto vita facile nel diventare quel tiranno che, soprattutto secondo i suoi detrattori, fu a tutti gli effetti. Velleio Patercolo lo descrisse come un uomo “Di eccellente onestà, egregia integrità, moderate capacità retoriche, reso ambizioso dall’autorità conferitagli dalle magistrature. Mai o quasi mai usò il potere per imporsi”. Non lo fece perché non era in grado? Non lo fece perché i tempi ancora non erano maturi? Non lo fece perché, dal suo punto di vista, era effettivamente un campione della Repubblica, un suo rappresentante? Non lo sapremo mai. Forse.

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