Immaginiamoci di essere a Roma, durante l’epoca imperiale, in uno dei tanti giorni di festa. Come spesso accade in queste occasioni, una massa imponente di persone si raduna in uno degli immensi anfiteatri, circhi o teatri. Nessuna classe sociale è assente: lo spettacolo, infatti, è completamente gratuito, offerto dall’imperatore o finanziato da un alto magistrato, che spende somme considerevoli per coprire i costi degli organizzatori.
In alto, sotto le ultime arcate, si affollano i plebei, in una calca impressionante, dove tuttavia riescono a muoversi i venditori di cibi salati, bevande e i raccoglitori di scommesse, se lo spettacolo è una gara. Nei cerchi inferiori, ciascuno seduto nel posto a lui assegnato, si trovano i cittadini di classe media, ugualmente coinvolti dall’entusiasmo generale. Nell’area d’onore, l’imperatore, circondato dalla sua corte e dalle guardie imperiali, occupa il suo posto, mentre nelle tribune vicine siedono sacerdoti, vestali, senatori e tutti i cittadini più ricchi e influenti. L’intera Roma, insomma, partecipa con grande fervore alle gare e agli spettacoli, indipendentemente dal loro genere.
Tra gli spettacoli comuni nell’antica Roma, si possono distinguere le competizioni sportive dalle prove di forza, che spesso si traducevano in brutali scontri tra uomini e animali feroci, o in duelli mortali tra gladiatori, tipicamente ospitati negli anfiteatri. Originariamente, ogni festa era legata a un culto religioso. Ad esempio, la gara di pesca che si teneva l’8 giugno, alla presenza del pretore, e che si concludeva con un banchetto a base di pesce fritto, era in origine, secondo quanto riportato da Festo, un sacrificio di sostituzione in onore del dio Vulcano. In questo rito, i pisciculi (pesciolini) venivano offerti al posto di anime umane (pro animis humanis).
Anche in epoca repubblicana, il carattere sacro degli eventi era evidente, come dimostra l’istituzione dei combattimenti tra gladiatori nel 105 a.C., originariamente una pratica privata per onorare i defunti. Questo carattere religioso è rimasto insito nel termine “munus”, che designava questi scontri violenti, il cui scopo era quello di placare le divinità.
«Per numero, varietà e magnificenza di spettacoli superò tutti [i suoi predecessori]. Lo stesso [Augusto] dice che, a suo nome, celebrò giochi pubblici quattro volte e ventitré volte per altri magistrati che erano assenti o non avevano mezzi sufficienti. E celebrò anche nei differenti quartieri, con numerose scene, utilizzando attori parlanti tutte le lingue; diede spettacoli non solo nel foro e nell’anfiteatro, ma anche nel circo e nei Saepta e talvolta si trattava soltanto di battute di caccia (venationes); organizzò anche scontri fra atleti nel Campo Marzio, costruendo panche di legno; e una battaglia navale, per la quale fece scavare il terreno nei pressi del Tevere (Naumachia Augusti), dove ora si trova il bosco dei Cesari. Durante quei giorni pose a guardia della città [di Roma] dei sorveglianti, perché non fosse esposta al pericolo dei briganti, considerato l’esiguo numero di coloro che vi erano rimasti.» (Svetonio, Augustus, 43.)
Il primo spettacolo di gladiatori sembra essersi svolto intorno al 264 a.C., e nel 105 a.C. questi combattimenti divennero eventi pubblici. Con l’avvento dell’Impero, il numero di spettacoli gladiatori crebbe notevolmente. La dinastia Flavia, a partire dall’imperatore Vespasiano, commissionò la costruzione del più grande e celebre anfiteatro del mondo, l’anfiteatro Flavio, noto successivamente come Colosseo. Nel IV secolo, dopo la sua conversione al cristianesimo, l’imperatore Costantino I decretò la proibizione di tali giochi. Tuttavia, la loro enorme popolarità fece sì che continuassero, seppur in maniera meno frequente, nonostante i ripetuti divieti. In particolare, nelle città distanti dalla corte imperiale, come Roma, questi spettacoli gladiatori persistevano fino ai primi anni del Medioevo.
Lo spettacolo più amato dai romani era senza dubbio quello delle corse dei cavalli. La gara iniziava con un segnale dato da un magistrato, che lanciava sulla pista un fazzoletto inamidato, accompagnato dal suono di una tromba. Anche gli aurighi, i conduttori dei carri, sfoggiavano un abbigliamento elaborato, riflettendo la loro fama e il loro benessere. Tuttavia, per i latini, il termine “circo” non aveva lo stesso significato che gli attribuiamo oggi: si riferiva infatti al luogo destinato alle corse equestri. Roma vantava circhi di dimensioni colossali, il più antico e imponente dei quali era il Circo Massimo, lungo 600 metri e largo 200. Situato in una valle naturale tra il Palatino e l’Aventino, inizialmente gli spettatori si accomodavano sui pendii dei colli stessi. Con il tempo, grazie ai continui miglioramenti apportati da figure come Pompeo, Cesare, Augusto, Nerone, Domiziano e Traiano, il Circo Massimo si trasformò in un’opera grandiosa, capace di accogliere 255.000 spettatori seduti (alcuni documenti antichi parlano addirittura di 385.000 posti). Nessuno stadio moderno può vantare simili cifre.
Oltre alle corse, nei circhi si svolgevano anche spettacoli di abilità equestri, dove i cavalieri eseguivano acrobazie come cavalcare in piedi sul dorso del cavallo, sorreggersi a testa in giù con le braccia, o raccogliere oggetti dal suolo durante un galoppo. Tuttavia, erano le corse a suscitare il massimo entusiasmo. Durante i primi anni dell’impero, si svolgevano una dozzina di corse in ogni giornata festiva; sotto l’imperatore Caligola il numero salì a trenta, e più tardi, sotto la dinastia Flavia, si arrivò addirittura a cento corse al giorno.
I carri delle corse erano trainati da coppie, terne, quadrighe, sestine, e persino mute di otto o dieci cavalli. Lo spettacolo era già straordinario nel vedere queste splendide schiere di cavalli entrare in pista: i destrieri erano adornati con finimenti preziosi, mentre l’auriga, vestito con una tunica nei colori della sua scuderia, godeva di grande prestigio grazie alla sua enorme popolarità. La gara consisteva nel completare un determinato numero di giri attorno alla pista, divisa al centro da una struttura chiamata “spina”. Il momento più critico si verificava nelle curve, dove tutti i concorrenti cercavano di stringere al massimo, provocando spesso spettacolari incidenti, in cui gli aurighi rischiavano la vita.
Numerose iscrizioni lodano i più celebri aurighi dell’epoca, come Pompeo Muscloso, che trionfò in 3559 corse, o Diocle, che vinse 3000 volte con le bighe e 1462 volte con mute più numerose, ritirandosi dalle gare con un patrimonio straordinario di 35 milioni di sesterzi, cifra che oggi equivarrebbe a diversi milioni di euro. Anche i cavalli più famosi furono onorati con lapidi e medaglie commemorative, come il destriero Tuscus, vincitore di 386 corse, e Victor, che conquistò 429 premi.