Il 14 gennaio 1506, una scoperta fortuita avvenne nella vigna di Felice De Fredis, situata in un’area nota come “le Capocce”, vicino alle Sette Sale—così chiamate nel Medioevo, riferendosi alle cisterne che rifornivano le Terme di Traiano e in precedenza la Domus Aurea. Questo nome potrebbe derivare dal modo in cui i diversi ambienti voltati emergono dal terreno come teste, un’immagine che ha dato il nome alla zona, menzionato anche in documenti notarili di affitti e compravendite.
Con il declino dell’antica Roma, un’area vasta della città divenne disabitata, soprattutto nel lato sud-est, attraversato da un continuo tratto di campagne che univa l’antica Suburra al suburbio. In alcuni affreschi commissionati da Papa Giulio III Ciocchi dal Monte nella metà del Cinquecento per gli appartamenti del Palazzo Vaticano, è rappresentata una vista dell’Esquilino, un colle profondamente segnato dalla decadenza imperiale. Originariamente ricoperto di vigne dal VIII-IX secolo, questo territorio sarebbe poi stato trasformato nell’epoca post-unitaria in parte nel raffinato quartiere omonimo e in parte nello sviluppo ottocentesco del Rione Monti.
Nella scena descritta emergono vari elementi archeologici ormai integrati nel tessuto urbano: le Mura Aureliane, segnalate da una freccia bianca, Porta Maggiore indicata da una freccia gialla, il Tempio di Minerva Medica, riconoscibile da una freccia viola e situato vicino alla stazione Termini, e Porta Tiburtina, marcata da una freccia verde e situata oggi a San Lorenzo. Si menzionano anche i “Trionfi di Mario”, noti anche come il Ninfeo di Alessandro e un’antica fontana severiana del II secolo d.C., situata vicino a Piazza Vittorio (freccia rossa), rappresentata insieme a due statue che Sisto V avrebbe successivamente collocato sul Campidoglio. Inoltre, si notano gli acquedotti Anio Nuovo e Claudio, oltre al celebre Laocoonte.
Solo due anni prima del ritrovamento, Felice De Fredis aveva acquistato la vigna in contanti, pensando fosse un modesto investimento commerciale. Non immaginava che questo acquisto avrebbe in qualche modo segnato una svolta nella storia dell’arte. Dopo un anno e mezzo, decise di costruire un edificio, ancora esistente nel cortile dell’Istituto delle Suore di Cluny in Via Poliziano, destinato alle attività agricole. Durante gli scavi per le fondamenta, scoprì una struttura antica nascosta circa quattro metri sotto il livello stradale, in una stanza mal conservata ma originariamente decorata con raffinatezza, accessibile attraverso un arco a tutto sesto successivamente murato.
La scultura scoperta rappresenta Laocoonte e i suoi figli nell’istante prima della loro morte. Laocoonte, l’eroe troiano citato da Virgilio nell’Eneide, consapevole della vera natura del cavallo di Troia, cercava di salvare la città dalla distruzione. Però, fu punito da Atena, favorevole ai Greci, che inviò serpenti marini a uccidere lui e i suoi cari mentre tentava di proteggerli.
Anche se i comuni cittadini non ne erano consapevoli, a Roma stava sbocciando un’epoca che sarebbe stata in seguito ricordata come il “Rinascimento”. Qualcosa era cambiato nell’atteggiamento della popolazione, e non solo tra gli artisti, nei confronti dell’antichità. L’apparizione di questa magnifica opera dalle viscere della terra suscitò grande eccitazione e entusiasmo tra la gente, a differenza di qualche decennio prima, quando sarebbe stata probabilmente considerata solo materiale da costruzione. Documenti dell’epoca testimoniano il continuo flusso di curiosi venuti a ammirarla, e il figlio di Giuliano da Sangallo, nelle sue memorie del 1567, racconta di una visita al Laocoonte effettuata con suo padre e Michelangelo, i quali riconobbero immediatamente la scultura come quella lodata da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, trovando la circostanza stupefacente.
Plinio, lo studioso che morì nell’ottobre del 79 d.C. mentre osservava l’eruzione del Vesuvio che distruggeva Pompei, aveva menzionato nella sua opera enciclopedica di aver visto la scultura a Roma, descrivendola come un notevole capolavoro realizzato da un unico blocco di marmo e situata nella residenza del futuro imperatore Tito.
Giulio II, futuro committente degli affreschi della Cappella Sistina, capì immediatamente l’importanza del Laocoonte e desiderò ardentemente includerlo nel suo “Cortile delle Statue”, il museo che stava organizzando in Vaticano. Per assicurarsi l’opera, offrì a Felice De Fredis una sostanziosa ricompensa, concedendogli i proventi delle tasse della Porta San Giovanni. Anche se la raccolta di queste entrate incontrò alcuni ostacoli, specialmente dopo la morte del papa, il privilegio di Felice è evidente dalla sua prestigiosa sepoltura nella Chiesa di Santa Maria in Aracoeli, dove una lapide commemorativa ricorda il suo fortuito ritrovamento.
Attualmente, è stata identificata con precisione la posizione della vigna di De Fredis, consentendo agli studiosi di supporre che il Laocoonte fosse originariamente situato negli horti di Mecenate, che per testamento divennero proprietà di Augusto e, successivamente, dell’Impero. Questo dettaglio conferma le narrazioni di Plinio e suggerisce che l’Imperatore Tito potesse aver avuto accesso a tale residenza. Si ritiene che il gruppo scultoreo, datato tra il 20 e il 40 a.C., sia una copia di un originale più antico in bronzo, realizzato da Agesandro, Polidoro e Atanodoro di Rodi, città saccheggiata nel 42 a.C., evento che portò a un flusso di artisti verso Roma. Un capitolo significativo nella storia del ritrovamento è il recupero del braccio, avvenuto casualmente nel 1905 per opera dell’antiquario Ludwing Pollack, che lo trovò in una bottega di scalpellini su Via Labicana. Solo due anni prima, i lavori di costruzione di Via Mecenate avevano interessato i confini del convento delle suore di Cluny, dove originariamente si trovava la vigna di De Fredis, suggerendo che il pezzo mancante, sepolto per secoli e poi riemerso fortuitamente, potesse essere stato raccolto in modo poco lecito e immesso nel mercato antiquario romano.
La fortuna dell’opera fluttuò nel tempo; meno di venti anni dopo la sua acquisizione e il posizionamento nel museo vaticano, Adriano VI, un prelato dai principi rigidi che aveva già dimostrato poco apprezzamento per gli eccessi dei suoi predecessori quando era cardinale, declassò il Laocoonte. Non considerandolo adatto per l’esposizione in una residenza papale, lo definì “un idolo antico” e limitò l’accesso al Cortile delle Statue.
Nel Cinquecento, sotto il pontificato di Pio IV, il valore artistico e storico del Laocoonte fu riconosciuto nuovamente tanto che divenne modello per varie repliche in diversi materiali, richieste da collezionisti illustri e giungendo nelle raccolte Medicee a Firenze e nella villa di Francesco I a Fountainbleau. Le copie rappresentavano il braccio restaurato negli anni ’20 del Cinquecento, dato che l’originale mancava al momento del ritrovamento.
L’evoluzione del Concilio di Trento, tenutosi dal 1545 al 1563, influenzò notevolmente la percezione delle antichità e del progetto museale iniziato da Giulio II, esteso poi dai suoi successori. Queste opere, inclusa quella del Laocoonte, rimasero in gran parte trascurate fino al XVIII secolo, quando la fondazione del Museo Pio-Clementino portò a una nuova sistemazione delle sculture residue del primitivo “Cortile” nell’attuale Ottagono.
Durante il periodo Napoleonico, il Laocoonte fu rievocato come un modello classico prediletto e selezionato come parte di un insieme di cento opere destinate a trasferirsi dallo Stato Pontificio alla Francia. La sua entrata trionfale a Parigi nel 1802 fu celebrata con un corteo che durò due giorni. Al Louvre, rinominato Musée Napoleon, fu allestita una sala dedicata per esaltarne il valore.
Con la conclusione del Congresso di Vienna nel 1815, fu annullato il Trattato di Tolentino del 1797, che aveva autorizzato l’acquisizione delle opere come bottino di guerra. Nonostante le resistenze francesi, e grazie al sostegno di Prussia e Gran Bretagna, il Laocoonte fu restituito a un allora spoglio Cortile Ottagono.
Antonio Canova, eminente scultore e ispettore delle Belle Arti, insieme al Papa regnante Pio VII, presentarono questo ritorno come un trionfo politico personale. Questo evento fu immortalato in una lunetta affrescata da Francesco Hayez sulle volte del Museo Chiaramonti, commissionata dal Papa. Nell’affresco si vedono casse piene di sculture in viaggio verso Roma, rappresentazioni del Fiume Tevere, la lupa capitolina con i gemelli, e un ritratto di Canova. Non è menzionato l’incidente durante il quale l’imballaggio del Laocoonte cadde sul ghiaccio, causando danni significativi alla scultura.
Il ritrovamento casuale del braccio, poi riattaccato nel 1957, rappresentò un momento di rinnovata fortuna per il Laocoonte. Quasi quattrocento anni dopo essere stato estratto dalla vigna di De Fredis, il pezzo mancante si ricongiungeva alla scultura, restituendo la completa espressione della sua intensità emotiva e della sua bellezza originale.
Riferimenti bibliografici:
- Laocoonte: Le origini dei Musei Vaticani, curato da Paolo Liverani, Arnold Nesselrath, Città del Vaticano L’ERMA di BRETSCHNEIDER, 2006
- Rita Volpe e Antonella Parisi, pubblicati sul Bollettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, 2009)