L’imperatore Aureliano, tra culti orientali e lotte coi barbari

Aureliano

Parlare di Aureliano, imperatore dal 270 al 275 d.C., significa tentare di conoscere a fondo un uomo che modificò il volto dell’Urbe, non solo per la cinta muraria che ancora oggi porta il suo nome. Aureliano contribuì a diffondere a Roma un culto orientale, quello dedicato al Sol Invictus, che avrebbe avuto un influsso ed un’influenza forse maggiore di quello che l’imperatore stesso poteva pensare. Aureliano, infine, fu un importante esponente di quella schiera di imperatori del III secolo d.C. che furono elevati alla soglia imperiale dai soldati, e che dagli stessi membri dell’esercito furono poi rovesciati. Aureliano, nonostante tutto, fu un uomo che tentò in tutti i modi di rimettere insieme i cocci di un impero che si stava via via sfarinando, sin dagli anni ’30 del suo secolo.

ORIGINI E CARRIERA
Aureliano deve la sua fama storica a molti fattori, e tra essi troviamo sicuramente la sua terra natia. Nacque nei dintorni di Sirmium (attuale Sremska Mitrovica in Serbia) nel 214 d.C. da una famiglia probabilmente non di nobile origine. Il padre era un colono di nome Aurelio mentre la madre, probabilmente, era una donna appartenente e devota al culto del Sol Invictus, divinità solare molto in voga nelle regioni orientali dell’impero, come quelle danubiane, impostata su un monoteismo di tipo solare che fu poi decodificato in molte varianti religiose. Ovviamente c’è da trarre la conclusione che la fede materna fosse all’origine di quella di Aureliano, che non lesinò assolutamente atti utili per diffondere, ancor di più, un culto estraneo alla religione latina che, però, era già penetrata a Roma nei secoli passati. Il futuro imperatore era, comunque, un illirico come molti dei suoi successori.

Come scritto in precedenza, però, le migliori fortune per Aureliano provennero direttamente da quella carriera militare che lo issò sino al trono ed alla porpora, e non a caso se diamo retta alle narrazioni inerenti alle sue gesta sul campo di battaglia. Pareva fosse un leone in guerra, capace di comandare le truppe con pervicacia e forza e diede la prima prova di sé quando, nel 242 d.C. circa, comandò una coorte nella guerra contro i Sarmati. Siamo nelle turbolente regioni danubiane, dalle quali molti erano i pericoli che, a ondate, minacciavano la stessa esistenza dell’Urbe. Sebbene postume, però, sono molte le lodi intessute per un uomo che pareva essere sempre al posto giusto al momento giusto. Per quanto riguarda, ad esempio, la guerra contro i Sarmati pare che con la sua coorte riuscì da solo a bloccare l’avanzata degli invasori barbari, come un novello Leonida con i suoi trecento. Canzoni furono cantate per declamare questo glorioso momento nella storia bellica di Roma, come la seguente:

“Mille, mille, mille ne decapitammo
Con uno solo, mille ne decapitammo
Mille ne berrà, ché mille ne ha uccisi
Nessuno ha mai avuto tanto vino
Quanto sangue lui ha versato”

Aureliano

Antoniniano di Aureliano. Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=348476

Le parole lascerebbero pochi dubbi sulla valenza di Aureliano nelle file dell’esercito, un uomo che sembrava tagliato per essere un soldato ed un combattente, sia nel fisico che nell’animo. Nella Historia Augusta si legge, ad esempio: “[Aureliano] Era di aspetto elegante e fine, di bellezza virile, piuttosto alto di statura, di fortissima muscolatura; eccedeva un poco nel bere vino e nel mangiare, si abbandonava raramente ai piaceri della carne, era molto severo, estremamente rigido in fatto di disciplina, sempre pronto a por mano alla spada. Difatti, essendovi nell’esercito due tribuni di nome Aureliano – il nostro ed un altro, che fu fatto prigioniero assieme a Valeriano – l’esercito gli aveva affibbiato il soprannome di «mano alla spada», così che, se per caso si voleva sapere quale dei due Aureliani aveva fatto una data cosa o condotta una certa operazione, bastava aggiungere «Aureliano mano alla spada» per capire di chi si trattasse”. Ma le imprese di Aureliano non finiscono qui, in quanto lo ritroviamo a combattere anche in Gallia contro i Goti o nella Germania Inferiore. Gli anni passavano ed il cursus honorum del futuro imperatore era ormai improntato all’accrescimento di una gloria e fama tutta personale che, passo dopo passo, si stava meritando a stretto contatto con i suoi commilitoni. Ovviamente più ascendeva nella scala gerarchica militare e maggiori erano le responsabilità e gli oneri a cui Aureliano andò incontro, elementi che però parvero non scalfire minimamente la sua integrità morale. Difatti era sì rispettato dai legionari, ma anche ampiamente temuto poiché chiunque sgarrava sarebbe stato punito con estrema severità. Questa, la severità, pare fosse un’altra caratteristica di Aureliano, tanto che nella Historia Augusta leggiamo nuovamente: “Costui poi era tanto temuto dai soldati, che, una volta che lui aveva punito con grande severità le mancanze commesse in servizio, nessuno di essi vi incorreva più. Fu inoltre l’unico che punì un soldato reo di aver commesso adulterio con la moglie di un ospite, facendolo legare per i piedi alle cime di due alberi piegate verso terra e che tutto d’un colpo egli fece rilasciare, così che quello rimase squartato in due parti che penzolavano da entrambi i lati: il che suscitò in tutti grande spavento. C’è una sua lettera di argomento militare, inviata al suo luogotenente, che suona così: «Se vuoi essere tribuno, anzi se ti preme restar vivo, frena la mano dei tuoi soldati. Nessuno porti via i polli o metta le mani sulle pecore altrui. Nessuno rubi uva o danneggi le messi, o si faccia dare olio, sale, legna, ma si accontenti della propria razione di viveri. Con la preda tolta al nemico, non con le lacrime dei provinciali devono arricchirsi. Le armi siano tirate a lucido, i ferri ben arrotati, i calzari resistenti. Nuove uniformi rimpiazzino quelle vecchie. Tengano la paga nella cintura, anziché spenderla all’osteria. Si mettano pure addosso le loro collane, i loro bracciali, i loro anelli. Provvedano a strigliare il loro cavallo e la bestia da soma, non vendano la razione di foraggio destinata al proprio animale, prendano cura in comune del mulo della centuria. Ciascuno abbia deferenza nei confronti dell’altro come fosse il suo comandante, nessuno però assumendo atteggiamenti servili; siano curati gratuitamente dai medici; non diano nulla agli aruspici; dove ricevono ospitalità si comportino correttamente; chi provocherà delle risse, sia bastonato”. Torna nuovamente il soprannome mano alla spada, quell’arma che Aureliano non mancava mai di utilizzare e che, probabilmente, gli diede la possibilità che forse sognava solamente: diventare imperatore.

L’invasione della Raetia e dell’Italia settentrionale degli anni 268-271, da parte di Alamanni, Marcomanni, Iutungi, Iazigi e Vandali Asdingi. Di Cristiano64 – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=28071213

AURELIANO SUL TRONO DI ROMA: UN FATTO DI SANGUE
Nel corso degli anni, mentre Aureliano combatteva indefessamente, la leadership politica dell’impero romano era fortemente traballante. Il regno di Gallieno fu, forse, il primo in assoluto con il quale si comprese quanto fosse grave la debolezza del regno romano, una debolezza plasticamente identificabile con dei territori che si resero indipendenti da Roma alla morte di Valeriano (260 d.C., il primo imperatore che tentò per primo di dividere l’impero in due parti, orientale e occidentale) e che Gallieno non riuscì a riprendersi. Da una parte vi era Postumo che governò le Gallie quasi da indipendente, e dall’altra parte, ad oriente, vi era Zenobia, moglie dell’usurpatore Odenato. Nel 268 d.C. divenne imperatore Claudio II il Gotico, l’unico che in quei tempi non morì a colpi di spada bensì a causa della peste, che difese Roma da un assalto dei Goti (da qui l’appellativo) e che ebbe anche la fortuna di trovare un elemento di instabilità nell’impero, Postumo, morto. Nel 270 d.C. anche Claudio II il Gotico morì, e qui le fonti si dividono sulla successione al trono. Per alcuni, prima di morire, l’imperatore proclamò ufficialmente Aureliano come successore, mentre per altri ad essere proclamato nuovo governante fu Quintiliano, fratello di Claudio II. In un modo o nell’altro i due, Aureliano e Quintiliano, si contesero il potere con le armi e, come anche tutti i Romani dell’epoca sapevano, ad avere la meglio fu proprio il primo. Siamo nel 270 d.C. allora, un anno importante poiché, dopo molto tempo, per un certo periodo Roma poté sperare di avere un futuro un po’ più tranquillo e meno turbolento di quello del suo passato prossimo. Ovviamente, anche se postumi, non mancarono i soliti prodigi o eventi particolari che, anni prima, avrebbero anticipato la salita al trono di Aureliano. Ad esempio si narra di come, un giorno, i genitori del neo imperatore litigarono furiosamente, quando lui era ancora in fasce. E lì, nel corso di questo alterco, la madre di Aureliano esclamò con ironia: “Ecco il padre di un imperatore!”. Oppure, perseguendo in questa aneddotica di cui la storia romana è sempre ricca, un giorno Aureliano era su un cocchio ma non riusciva a sedersi bene a causa di una ferita di guerra al gluteo. Pare che, nei vari tentativi utilizzati dall’uomo per trovare un po’ di pace, una bandiera scarlatta cadde improvvisamente ricoprendo ed ammantando, interamente, Aureliano. Sempre Flavio Vopisco, biografo dell’imperatore, ci racconta di come una volta la madre trovò su uno dei suoi vitelli delle strane macchie rossastra che, guarda caso, andavano a formare una corona ed una scritta: AVE.

IL REGNO DEL NUOVO IMPERATORE: TRA GUERRE, DIFESE E NUOVI CULTI
Il problema più grande per Aureliano fu ritrovare quella stabilità ed unità che aveva caratterizzato il suo impero sino ad allora. Come scritto in precedenza sia ad oriente che ad occidente, nelle Gallie, la situazione non era delle migliori poiché, in entrambi i casi, i territori erano governati da personalità poco inclini a sostenere ed ascoltare un imperatore, a maggior ragione se nuovo come Aureliano. A questo si aggiunse anche l’annoso problema delle invasioni barbariche, a volte interi popoli che, nella migliore delle ipotesi, effettuavano delle scorribande lungo i confini, sempre più fragili, dell’impero. Ma nel peggiore dei casi i movimenti dei barbari erano molto più forti e temuti, tanto che, ad esempio, una delle regioni più turbolente fu sempre quella danubiana. Da lì, più o meno, dalla Pannonia in questo caso, i Sarmati tentarono nuovamente il colpaccio dilagando completamente nell’area. Aureliano li sconfisse, non senza difficoltà dovute ad anni di campagne militari ed alla difficoltà di reclutare nuove braccia adatte a sostenere scudi e spade, arrivando a prendere in ostaggio praticamente tutti i figli degli uomini barbari che minacciavano Roma. A seguito di questa vittoria ad Aureliano fu attribuito l’appellativo Sarmaticus Maximus, a confermare l’ascendente che, attraverso le gesta militari ed il forte sostegno dell’esercito, Aureliano aveva nelle menti dei Romani. Ben peggiore, però, fu l’invasione dei Marcomanni che, invece, penetrarono direttamente nella penisola italica, stravolgendo completamente la zona della Pianura Padana. Nella Historia Augusta leggiamo come, inizialmente, anche un generale esperto come il nuovo imperatore ebbe delle serie difficoltà, andando incontro anche a sanguinose sconfitte: “Aureliano voleva affrontare l’esercito nemico tutto insieme, riunendo le proprie forze, ma nei pressi di Piacenza subì una tale disfatta, che l’Impero romano per poco non cadde. La causa di questa disfatta fu un movimento sleale e furbo da parte dei barbari. Essi, non potendo affrontare lo scontro in campo aperto, si rifugiarono in un densissimo bosco e verso sera attaccarono i nostri di sorpresa”. Alla fine la guerra fu comunque vinta ed i nemici sconfitti, ma probabilmente Aureliano pensò bene che si doveva fare assolutamente qualcosa per dare un qualunque tipo di futuro all’Urbe, intesa proprio come città. Tra zone difficilmente controllabili come le Gallie o Palmira e le scorribande barbare la situazione era oggettivamente difficile. Fu così che Aureliano decise di far realizzare le cosiddette Mura Aureliane, la nuova cinta muraria che, fondamentalmente, ancora oggi circonda Roma con possenti mura. “Dopo questi fatti, rendendosi conto che poteva avvenire che avesse a ripetersi qualcosa sul genere di quanto si era verificato sotto Gallieno, sentito il parere del senato fece allargare le mura della città di Roma”. Questo ci dicono le fonti antiche, ricordando inoltre che le mura correvano attorno l’Urbe per 19 chilometri circa (oggi ne rimangono ben 16), che in pochi mesi furono già in parte completate (sebbene i lavori di rifinitura furono terminati nel 279 d.C. circa e che Aureliano non si fece alcuno scrupolo ad utilizzare tutte le forze disponibili, anche i militari, per poterle erigere.

Aureliano

L’ultimo atto prima dell’abbandono della Dacia traiana viene celebrato nella monetazione della fine del 270/inizi del 271. Di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.cngcoins.com, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=23549824

Questo fu solo l’inizio, poiché un’altra importante decisione che caratterizzò il regno (breve in generale ma non troppo per gli standard del III secolo d.C.) fu quella, probabilmente dolorosa, di abbandonare completare la Dacia. Eutropio scrisse: “La provincia di Dacia, che Traiano aveva formato oltre il Danubio, è stata abbandonata, dopo che l’Illirico e la Mesia sono state spopolate, perché era impossibile mantenerla. I romani, spostati dalle città e terre di Dacia, si sono sistemati dall’interno della Mesia, che adesso chiamano Dacia, sulla sponda destra del Danubio fino al mare, rispetto a cui la Dacia si trovava prima sulla sinistra”. Sebbene formalmente la Dacia non fu ceduta completamente ma se ne riqualificarono e ristabilirono nuovi confini, è indubbio come un gesto del genere poteva suonare quantomeno pavido per tutti quei Romani che, ancora all’epoca, celebravano le grandiose gesta di Traiano, l’Optimus Princeps che la Dacia la conquistò con il sangue dei legionari romani, apportando però un grandioso onore a sé stesso ed a tutta Roma. Nonostante questo, però, si deve comprendere come Aureliano arrivò a questa decisione ben conscio, da grande conoscitore delle cose militari e della macchina statale, che il confine danubiano non avrebbe retto a nuove razzie, migrazioni o attacchi da parti degli onnipresenti barbari. Le origini illiriche di Aureliano, comuni a quella di Claudio II il Gotico ed ai suoi successori, permisero comunque all’imperatore di lasciare intaccata la stima che gli altri avevano nei suoi confronti in quanto, visto che lui per primo proveniva da ambienti caldi quasi ai confini dell’impero, era indubbio che sapeva quello che faceva. Dopotutto in un solo biennio, quello 271-272, Aureliano aveva combattuto contro diverse tribù barbariche, avviato la costruzione di nuove mura, contenuto una dura ribellione ad opera dei monetieri, la quale diede al via alla riforma monetaria di Aureliano (completata nel 274 d.C. e con la quale venne fatta circolare con intensità una nuova moneta d’argento, l’antoniniano). Sempre in quegli anni Aureliano si rese protagonista di un gesto che, ai nostri occhi, attesta ancor di più quanto stretto e forte fosse il legame tra l’imperatore ed i soldati, coloro a cui doveva tutto e di cui, probabilmente, si fidava davvero. Nel corso delle trattative di pace tra Roma ed i Vandali, Aureliano sottopose direttamente ai legionari le condizioni del trattato finale stilato per porre fine alla guerra. Dunque il limes fu arretrato, le regioni danubiane tornarono più o meno all’ordine e Roma aveva nuove difese. Non rimaneva altro che porre fine alle ultime sacche di instabilità che minacciavano l’esistenza stessa dell’impero.

Era tempo di occuparsi del cosiddetto Imperium Galliarum del già citato Postumo e dei suoi successori ed anche di Zenobia, a capo del regno di Palmira che molti grattacapi stava dando all’impero. In ordine di tempo Aureliano si diresse ad oriente, avendo nel frattempo il tempo di riprendersi l’Egitto (caduto sotto il giogo di Palmira) e di sconfiggere nuovamente i Goti (tanto da meritarsi l’appellativo di Gothicus Maximus). Aureliano giunse ad Emesa, dopo aver riconquistato l’intera Mesopotamia, la Cilicia e la Siria precedentemente cadute sotto il dominio di Zenobia, dove sconfisse Zenobia, la moglie di Odenato che con coraggio aveva difeso quelle che lei considerava ormai sue terre. Leggendo la Historia Augusta si capisce come le fonti abbiano dato alla vittoria un’aura quasi miracolosa, come se forse non tutti credevano nella riuscita della campagna militare immaginata da Aureliano:

“[…] lo scontro decisivo si ebbe in una grande battaglia presso Emesa contro Zenobia e il suo alleato Zaba. E allorquando la cavalleria di Aureliano, ormai stremata, stava già quasi per ripiegare e darsi alla fuga, all’improvviso, per l’intervento di un dio – come in seguito fu rivelato –, una qualche apparizione divina rianimò i soldati, sì che, ad opera dei fanti, anche i cavalieri poterono riprendersi. Zenobia fu messa in fuga assieme a Zaba e fu ottenuta completa vittoria. Riconquistato dunque il dominio stabile sull’Oriente, Aureliano entrò vittorioso ad Emesa e subito si diresse al tempio di Eliogabalo, per sciogliere i voti come in un ringraziamento comune. Ma lì ritrovò quell’immagine divina che aveva visto portargli soccorso in battaglia. Perciò fece erigere in quel luogo dei templi, dotandoli di grandi tesori, e costruì a Roma un tempio in onore del Sole, che consacrò con onori ancor più grandi, come diremo a suo luogo. Dopo questo, mosse alla volta di Palmira, onde por fine, una volta espugnata quella città, alle fatiche della guerra. Ma lungo la strada ebbe a subire molte peripezie, in quanto il suo esercito fu ripetutamente assalito dai predoni siriaci e durante l’assedio corse gravi pericoli, sino ad essere colpito da una freccia”.

Il regno di Palmira sotto Zenobia, al suo massimo apogeo, dopo l’espansione del 270, prima dell’inizio della riconquista di Aureliano (271). Di Panairjdde.Original uploader was Panairjdde at it.wikipedia – Transferred from it.wikipedia(Original text : http://www.friesian.com/romania.htm), CC SA 1.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=8833457

Gli Dèi erano con Roma, ma non era ancora finita. C’era, infatti, da prendere definitivamente Palmira, la città principale del regno, laddove Zenobia si era asserragliata. Aureliano scrisse una lettera in cui chiese alla regina di arrendersi, quantomeno per avere salva la vita. E, secondo le fonti, questa fu la risposta di Zenobia: “Zenobia regina d’Oriente ad Aureliano Augusto. Finora nessuno al di fuori di te mi aveva fatto in una lettera le richieste che tu avanzi. Con il valore bisogna guadagnarsi tutto ciò che si vuole ottenere in guerra. Tu chiedi la mia resa, come se non sapessi che la regina Cleopatra preferì morire piuttosto che vivere in qualsivoglia onore. Non ci mancano gli aiuti persiani, che ormai attendiamo prossimi, abbiamo dalla nostra parte i Saraceni e gli Armeni. I predoni siriaci hanno già battuto il tuo esercito, Aureliano. Che altro? Se dunque arriveranno quelle forze che attendiamo da ogni parte, dovrai di certo deporre l’arroganza con cui ora mi intimi la resa, come se avessi vinto su tutti i fronti”. Si può comprendere come Aureliano non accettò il contenuto della missiva, arrivando dunque a conquistare la città ed a catturare Zenobia. Sebbene successivamente, dopo il suo ritorno trionfante a Roma, Aureliano dovette tornare ad oriente per sedare delle ribellioni, si può certo dire che nel 273 d.C., dopo tanti anni, i confini orientali dell’impero erano nuovamente sotto il diretto controllo dell’imperatore. Quest’ultimo acquistò una gloria ed un onore massimi ed ancora maggiori rispetto a quelli che già aveva ottenuto in precedenza, riuscendo nell’impresa, non da poco, di mostrare il terribile nemico, Zenobia, in catene nel corso del suo trionfo. La valenza nell’immaginario del romano medio, dei legionari o dei patres, doveva essere quello di avere di fronte un uomo, Aureliano, che non era solo un imperatore ma un favorito degli Déi, un uomo capace di sconfiggere uno ad uno tutti i nemici, anche interni, di Roma. Ovviamente mancavano ancora le Gallie, che furono prese però senza troppo spargimento di sangue. Pare che il signore dell’Imperium Galliarum, Tetrico, si fosse apertamente consegnato all’imperatore, dando lui le terre che possedeva, poiché non era in grado di controllarle e governarle (si dice, almeno secondo Orosio, che Tetrico esclamò ad Aureliano (“Strappami, o invitto, dai mali!”). Fu così che Aureliano si ritagliò un nuovo ruolo, dopo aver riportato l’impero alla sua originaria (quasi), unità: restitutor orbis. Il restauratore del mondo pareva non avere nemici né militi, pareva essere in grado di tenere sotto controllo la situazione e di dotare Roma di un nuovo periodo di glorie, stabilità, equilibrio e progresso. I cambiamenti apportati a Roma toccarono anche l’ambito religioso, quando Aureliano, di ritorno dalle terre orientali e forse memore degli insegnamenti materni, tentò di rendere il culto del Sol Invictus come quello principale a Roma. Forse questo fu il gesto più controverso dell’imperatore, considerando l’infelice esperienza avuta con il regno di Eliogabalo che, in maniera molto più estrema però, tentò di fare la stessa cosa. Nonostante tutto, però, sembrava che si stesse inaugurando un regno paragonabile a quello dei grandi imperatori del passato. Ma così non fu…

Roma, tratto di mura aureliane viste dall’esterno, lungo il lato meridionale della città.

UNA MORTE DOVUTA ALLA PAURA
Si è capito come Aureliano fosse un uomo lodato da molte parti, che doveva tutta la sua fortuna al rapporto stretto che aveva con i soldati e l’ambiente militari in generale. Le sue gesta come comandante dell’esercito romano, le sue conquiste ed i suoi trionfi, ma anche le dolorose rinunce (come la Dacia), determinarono la figura di Aureliano come di un uomo tutto d’un pezzo, capace di essere fermo, fiero ed intransigente. E forse fu proprio questa fermezza che portò alla morte di un uomo che, solo poco tempo prima, era considerato un restauratore dell’ordine costituito. Leggiamo infatti quanto segue:

“Capitò poi che egli [Aureliano], col minacciarlo in base a non so quali sospetti che aveva su di lui, finisse per suscitare un profondo risentimento nei propri confronti da parte di un certo Mnesteo, che teneva come suo segretario particolare ed era, secondo alcuni, un suo liberto. Mnesteo, poiché sapeva che Aureliano non era solito minacciare invano né, una volta che minacciasse, perdonare, scrisse un elenco di nomi, mescolandovi quelli di persone nei cui riguardi Aureliano era realmente adirato, con quelli di persone verso i quali egli non nutriva alcun sentimento ostile, aggiungendo anche il suo nome, onde far apparire maggiormente fondata la preoccupazione che instillava in loro, e lesse l’elenco a ciascuno di coloro il cui nome era in esso compreso, soggiungendo che Aureliano aveva stabilito di sopprimerli tutti, ma loro, se erano veri uomini, dovevano difendere la propria vita. Essi si eccitarono, per la paura quelli che sapevano di meritare il risentimento dell’imperatore, per lo sdegno quelli che erano innocenti e assalito di sorpresa l’imperatore mentre era in viaggio, lo uccisero nel luogo che abbiamo detto sopra [di ritorno dall’oriente, a Cenofrurio]”.

A leggere queste parole, dunque, par di capire che Aureliano morì per la paura che faceva crescere negli animi di coloro che avevano avuto la sfortuna di non essere completamente entrati nelle sue grazie. Aureliano forse voleva che tutti dessero il massimo in qualunque momento, e probabilmente aveva davvero un carattere quantomeno iroso. Dopotutto fece uccidere anche la nipote, la figlia di sua sorella, senza una giustificazione che rendesse davvero necessaria questa scelta. Aureliano, dunque, era un uomo integerrimo ma forse troppo duro, una durezza che poteva andare più che bene in un campo di battaglia ma non nell’amministrazione, nello stato e nel rapporto con i funzionari che avrebbero dovuto rendere reale ciò che lui aveva in mente. Sembra però un’ingiustizia, l’aver perso un uomo che pareva riportare nuova luce in fondo al tunnel del III secolo d.C. e della crisi politica, sociale e militare che aveva colpito l’impero. Un’ingiustizia solo in parte mitigata dalla fine che fece il segretario nefasto, l’umo che aiutò a sobillare gli animi portando alla morte dell’imperatore. Si legge infatti che “Mnesteo venne trascinato via legato a un palo e gettato in pasto alle bestie feroci, cosa che ricordano le statue in marmo poste da una parte e dall’altra in quello stesso luogo dove furono erette per il divo Aureliano delle statue anche su colonne”. La giustizia terrena trovò dunque il suo sfogo, ma a quale prezzo?

Gianluca Pica

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